Nello scorso 2022 vi è stato il centenario della nascita di Enrico Berlinguer, che ricordiamo in questo numero; il 2024 sarà il centenario dell’assassinio di Giacomo Matteotti, ormai da tutti considerato il vero inizio del regime fascista, al quale una rivista socialista come la nostra dedicherà tutta l’attenzione possibile.
Quando riguardano dirigenti politici che hanno fatto la storia, le ricorrenze aiutano a tornare su questioni ancora dibattute. Naturalmente con gli occhi di oggi, ma senza per ciò passare sopra alla memoria collettiva, cosa non facile in un tempo e in un Paese come il nostro. Nella sinistra, dove i ritratti continuano a essere disegnati separatamente, sarebbe bene cominciare a studiare i rapporti – quindi agli scontri, agli incontri realizzati e a quelli mancati – fra i dirigenti maggiori. Fra Matteotti (o Turati) e Gramsci, fra Togliatti e Nenni, fra Berlinguer e Craxi. Sarebbe bene farlo, per capire perché le cose andarono in un certo modo, e quasi sempre andarono male. E ci sarebbe anche molto da fare, rispettando l’unità di tempo necessaria a comprendere il senso di quelle vicende proprio nella loro dimensione interindividuale.
Tutt’altra faccenda sarebbe un confronto diretto fra Matteotti e Berlinguer. Non solo per assenza di rapporti diretti, ma soprattutto per l’abissale diversità fra i due non meno che fra i tempi in cui vissero.
Il riformismo di Matteotti ha qui appena bisogno di essere ricordato: in tanti, da Arfè a Roncaglia, da Caretti a Vallauri, fino al recente libro di Nencini, ne hanno mostrato l’impronta etica come l’approccio realistico e antidogmatico. A Berlinguer l’epiteto di riformista sarebbe parso come poco meno di un insulto; ed è patetico assegnarglielo per le revisionistiche dichiarazioni di distacco dal comunismo sovietico, che in realtà si proponevano di preparare una ben diversa “terza via”. Del resto il compromesso storico non fu forse un modo per non fare i conti con il socialismo europeo?
Non parliamo nemmeno, poi, della questione morale. Matteotti la pose per inchiodare il capo del fascismo alle sue miserie, per la prima e ultima volta nella storia italiana e a prezzo della vita. Non c’era in lui quella rivendicazione di “un’altra Italia” che sarebbe stata propria degli azionisti e più tardi dei comunisti. Nell’intervista a Scalfari del 1981, Berlinguer dividerà infatti gli italiani in “ricattati”, elettori dei partiti di governo rosi dalla corruzione, e in comunisti non ricattati. Per quanto implausibile, quella divisione antropologica e perciò prepolitica fra decine di milioni di ricattati e schiatta moralmente integra avrebbe fatto molta strada. Agli occhi dei militanti e di una parte degli elettori, avrebbe trovato conferma in Mani Pulite, e sarebbe stata da allora una ragione di consolazione se non di autoassoluzione dopo il crollo del comunismo.
Non possiamo sapere cosa di tutto questo avrebbe pensato Berlinguer. Ma fu certo la sua divisiva visione della morale pubblica, insieme a quella dell’ultimo Pasolini, a fondare un’identità collettiva che sarebbe sopravvissuta a lungo alla fine della Repubblica dei partiti.
In occasione delle due ricorrenze, riflettiamo pure su questo e su altro, dibattiamone apertamente. Ma evitiamo operazioni storiograficamente sbagliate alla ricerca, scorretta, di qualche tornaconto politico.