A volte ritornano. Lo scriviamo noi prima che lo scriva qualcuno dei molti che, con l’aria che tira, trovano ancora elegante ironizzare sui socialisti. Alla vigilia del 25 luglio, del resto, revenants  venivano definiti i reduci della sconfitta della democrazia liberale, ed anche per questo, forse, Benedetto Croce volle chiudere la parentesi del Ventennio con un heri dicebamus.

A quegli illustri revenants, sia chiaro, osiamo accomunarci solo per l’esperienza della sconfitta. Non solo perché non siamo fantasmi, così come non eravamo anime morte, ed in questi anni anzi ciascuno di noi ha individualmente partecipato al dibattito pubblico ed alla lotta politica. Anche perché il ventennio che abbiamo alle spalle non ha niente da spartire con quell’altro, e la seconda Repubblica non sembra destinata ad essere chiusa fra parentesi. Sembra anzi voler proseguire nel suo cammino, benchè alla via maestra della riforma costituzionale abbia finora preferito le scorciatoie delle riforme elettorali, e con l’ultimo accordo oligopolistico stipulato alla vigilia delle elezioni europee pensasse addirittura di essere giunta alla meta.

Quanto possa tenere un sistema che viene formandosi attraverso un itinerario così inusuale è difficile dire. Quello che è certo è che già oggi, al di là dell’esibita tendenza al bipartitismo, nel sistema politico si intravedono linee di frattura diverse dalle tradizionali, a cominciare da quelle che discriminano la democrazia dal populismo e l’universalismo dal particolarismo. Così come è evidente che la geometrica potenza del bipolarismo fondato solo sull’ingegneria elettorale non riesce più a garantire neanche la democrazia dell’alternanza, unico frutto di quindici anni di cambiamenti senza riforme ed ora a rischio, secondo tutti gli osservatori, per la crisi del Partito democratico.

E’ pure certo che il sistema istituzionale, stressato a sua volta dal quindicennio di cambiamenti senza riforme, regge sempre meno in assenza di nuove regole del gioco. La spia di questo pericoloso squilibrio strutturale sono le polemiche inaudite contro il Capo dello Stato che prima ha imbastito Di Pietro e poi, con ben altra potenza di fuoco, il presidente del Consiglio ed altri esponenti della maggioranza in occasione del caso Englaro. Un caso, del resto, che a sua volta segnala quali rischi comporti per l’equilibrio fra i poteri una politica che, fondata com’è più sulle emozioni che sulla riflessione, crea un vuoto inevitabilmente colmato dalla Corte di Cassazione fra un governo che pretende di legiferare e un parlamento che non legifera. Senza dire delle ricadute tanto paradossali quanto pericolose che una politica ridotta a competizione fine a se stessa ha sul tessuto civile del paese, politicizzando quanto dovrebbe essere in massimo grado privato, come ha ricordato Angelo Panebianco sul Corriere della sera del 23 febbraio, proprio mentre si privatizza quanto dovrebbe essere in massimo grado politico.

Quello che è pure certo è che la crisi economica non resterà senza conseguenze sul terreno politico. L’alternativa fra la possibile metamorfosi della società italiana e la sua definitiva riduzione a mucillagine (per usare la terminologia di De Rita) diventerà inevitabilmente il nuovo criterio di selezione dei soggetti politici, il cui radicamento dipenderà piuttosto dalla capacità di interpretare la nuova composizione sociale che uscirà dalla crisi che non dalle risorse del notabilato e delle burocrazie su cui ancora si fonda il sistema politico della seconda Repubblica.

Perciò pubblicare una nuova serie di Mondoperaio non è un anacronismo. Questa rivista, infatti, è stata fin dalla fondazione veicolo fondamentale di innovazione nella cultura politica italiana. Prima, a cavallo fra gli anni ’50 e ’60, quando ha ospitato i testi fondamentali del revisionismo socialista (di “destra”, con Nenni, Lombardi, Giolitti, Guiducci, ma anche di “sinistra”, con Foa, Panzieri, Fortini). Poi, negli anni ’70 e ‘80, quando ha promosso e accompagnato il “nuovo corso socialista” con Bobbio, Salvadori, Amato, Cafagna, Ruffolo, Forte, Giugni, Coen, Pellicani. Riproporne oggi la testata, quindi, ha senso non per soddisfare esigenze identitarie di una singola formazione politica, ma perché di nuovo la cultura politica italiana ha bisogno di innovazione. E perché può essere ancora utile il contributo di chi scommise sulla demistificazione di tante vulgate per avviare la modernizzazione del paese, e che ora forse può riannodare un filo di riflessione comune nonostante la sconfitta subita dal PSI e la successiva dispersione del suo gruppo dirigente e del suo stesso elettorato.

Il lutto di quella sconfitta lo abbiamo già elaborato, anche se ci resta ancora da capire se abbiamo perso per avere osato troppo o per avere osato troppo poco. A capirlo, per la verità, non ci aiuta l’operoso silenzio con cui chi pensava di essersela cavata ha archiviato la questione socialista. Nel silenzio, fra l’altro, non si formano grandi forze politiche, men che meno quelle che vogliono intestarsi una “vocazione maggioritaria”. E nel buio in cui tutte le vacche sono nere si distinguono solo le vacche grosse dalle piccole. Mentre l’aspirazione alla semplificazione del sistema politico, che si può anche condividere, sarebbe più credibile se fosse coltivata alla luce del sole e nel caldo di un dibattito capace di selezionare i soggetti politici non solo a un tanto al chilo. Altrimenti la protesta dei piccoli partiti diventa legittima, e non può che coinvolgere chi, come il partito socialista, anche promuovendo la nuova serie di questa rivista mostra di voler uscire dalla nicchia in cui finora si era difeso.

Non è anacronistica neanche la denominazione della testata, benché ne sia evidente l’origine classista. Che la classe operaia non fosse più la “classe generale” noi lo imparammo negli anni ’60 da Luciano Cafagna; che non fosse più neanche la classe maggioritaria ce lo insegnò Paolo Sylos Labini negli anni ’70; e che occorresse uscire dalla “pietrificata sociologia marxista delle classi” lo disse a Rimini Claudio Martelli nel 1982. Perciò non corriamo il rischio di essere equivocati se osserviamo che l’impatto della crisi finanziaria sull’economia reale fa giustizia di tante sciocchezze postmoderne e postindustriali. Fa giustizia innanzitutto dell’utopia antipolitica, visto che l’emergenza economica postula semmai un surplus di politica, con la speranza che essa non debba proseguire con altri mezzi. E fa giustizia dell’alchimia iperliberista che ha preteso di produrre ricchezza senza lavoro, e che ora deve misurarsi non solo con l’indice Dow Jones ma coi fatturati in calo, i posti di lavoro persi e le ore di cassa integrazione accumulate.

Questo è oggi lo spettro che si aggira per l’Europa. I governi europei, quelli di destra e quelli di sinistra, per ora lo esorcizzano come possono. Altrettanto fanno i partiti europei, PSE compreso, il quale comunque nei prossimi anni dovrà fare a meno del contributo del centrosinistra italiano. Non è proprio tempo, quindi, per ingessare un sistema politico, men che meno il nostro. E’ tempo, invece, di riaprire i cantieri, di ripensare i progetti, di assemblare i materiali secondo un criterio. Ed è tempo, anche, di costruire città invece che torri, strade e piazze per i cittadini invece che fortezze e casematte per fazioni opposte.  Per cui può darsi che in questo strano paese tocchi perfino ai revenants indicare un itinerario per uscire dalla  realtà virtuale e tornare alla realtà effettuale, quella fatta di uomini in carne ed ossa che lavorano, consumano e progettano un futuro per i propri figli.