Ora che la legislatura sta finendo, non dobbiamo dimenticare come era cominciata. Se riavvolgiamo il nastro fino al 23 marzo 2018, riapparirà la sconcertante situazione di un sistema politico articolato in tre poli, nessuno dei quali in grado di raggiungere la maggioranza parlamentare né disposto a coalizzarsi con altri per formarla, e tuttavia in grado di farne una ostile all’euro e all’Unione europea in nome di un orientamento sovranista e populista.

Il preludio della legislatura autorizzava ipotesi ben più inquietanti di quanto non possiamo constatare oggi. Con l’affermazione concreta di indirizzi sovranisti, l’argomento che l’Italia è uno Stato membro dell’Unione “troppo grande per fallire” avrebbe mostrato la corda a Bruxelles: ne sarebbe venuta una tensione insopportabile fra maggioranza formata democraticamente e appartenenza all’Unione.

Ciò non è avvenuto, né le divaricazioni interne alle coalizioni che hanno rispettivamente sostenuto i governi Conte I, Conte II e Draghi sono state più forti di quelle avutesi in legislature precedenti. In parte lo si deve al carattere essenzialmente mediatico del populismo nostrano, basato su chiacchiere e distintivi (distribuiti appunto da media profondamente complici) anziché su una capacità politica come quella che va riconosciuta ad esempio a un Orban. In parte lo si deve alle successive emergenze della pandemia e della guerra, che hanno spesso dirottato l’attenzione (almeno) dei governi su questioni meno effimere. E molto lo si deve a un Presidente della Repubblica che ha saputo adoperare in modo magistrale i poteri di cui dispone nella formazione del governo, senza forzare la mano e allo stesso tempo riuscendo a trovare il momento giusto per proporre di volta in volta la soluzione su cui trovare una convergenza sufficiente a raggiungere la maggioranza parlamentare.

La riduzione del danno è stata straordinaria. Ma più in là non si poteva andare e non si è andati. E oggi il malcontento sociale è anzi diffuso molto al di là dei gruppi su cui si è scaricato il prezzo delle crisi accumulatesi l’una sull’altra negli ultimi decenni senza venire mai risolte. E’ un malcontento alimentato, perché si pensa che nella confusione generale sia una merce buona a portare voti.

Molto probabilmente, se la situazione non si aggrava ulteriormente in sede internazionale, lo spettacolo offrirà questo fino alle elezioni. Con l’aggiunta di posizionamenti vari a destra, al centro e a sinistra: dichiarazioni di alleanze e di rotture sempre rivolte a commuovere qualche elettore che difficilmente si commuoverà. Molto probabilmente la perdita di voti, forse il tracollo, dei partiti populisti e sovranisti non andrà a vantaggio degli altri, ma delle astensioni. Che a questo punto sarebbero più che giustificate.

Il fatto è che, per indole propria o più spesso perché indotti dall’ambiente, i protagonisti dell’asilo infantile di cui stiamo parlando si autodefiniscono attraverso scambi di accuse agli altri e/o segnali di fumo in vista di alleanze. A nessuno viene in mente di invertire il gioco: di indicare, per autodefinirsi, quattro o cinque (non di più) scelte concrete e comprensibili su cui insistere fino alla fine della campagna elettorale, misurando dall’adesione a quella posizione i comportamenti degli altri. Quindi il contrario di quanto accade.

Si dirà che quello non sarebbe più un asilo. E magari non sarà nemmeno consigliato dai sempre più ricercati guru della comunicazione. Eppure sarebbe un luogo dove molti elettori andrebbero a stare, se non altro per tornare a sperare.