Il 25 aprile diventa “Festa della libertà”, la “Nazione” diventa il vocabolo fisso per indicare la Repubblica (o il popolo o il Paese), il 1° maggio si fa un Consiglio dei ministri per contrapporre chi lavora a chi festeggia. Sono solo gli ultimi esempi di un’operazione in corso da parte del Governo Meloni per cambiare l’immaginario collettivo senza attaccare frontalmente la memoria nazionale e cementare il partito conservatore. Lo conferma “l’evento-parata” organizzato a Roma il 7 aprile di cui parla Stefano Rolando su questo numero della rivista, dove il Ministro della Cultura Sangiuliano e il Presidente della Commissione Cultura della Camera Mollicone hanno precisato che “Noi non siamo qui per rifare la cultura di destra ma per fare sintesi della cultura nazionale”.

L’operazione tende a banalizzare il passato, tranquillizzando il più possibile sulle intenzioni della destra, a rendere appena accettabile il presente all’elettorato di riferimento, senza toccare le corporazioni e lanciando una politica delle mance il più mirata possibile, e a parlare il meno possibile del futuro, che interessa soprattutto alle giovani generazioni, parte ormai minoritaria della popolazione.

Si va alla ricerca di un’identità italiana meno aggressiva di quella immaginata anche dal neofascismo degli anni scorsi, e nello stesso tempo più risoluta di quella presupposta dal combinato disposto fra globalizzazione dei mercati e universalismo dei diritti su cui gran parte della sinistra aveva puntato dopo il 1989.

Mettiamo da parte ogni considerazione sulla qualità dell’operazione. Diamo per scontato che è bassa, e anche di corto respiro. Fatta questa sottrazione, rimane la domanda politicamente cruciale: si può creare uno stabile consenso maggioritario su basi del genere? La risposta è sì, se guardiamo al contesto e con il concorso di altre condizioni.

Il contesto è favorevole se si confronta la proposta con le flebili o nulle alternative che vengono presentate sul mercato della comunicazione politica. Come dice Rolando, “In questi mesi il sistema dei partiti, alleati di governo e partiti di opposizione, non segnala particolari sforzi di voler stare su questi terreni di aggiornamento della questione identitaria nazionale. Dunque, all’ondata di dichiarazioni e puntualizzazioni che il partito più rappresentativo della compagine di governo esprime non corrispondono segnali di diversa elaborazione, se non attraverso reattività polemiche occasionali delle forze parlamentari di minoranza”.

La scarsa reattività delle altre forze politiche ha naturalmente varie origini. Nella coalizione di centrodestra, si spiega col ripiegamento su una piattaforma meramente rivendicativa degli junior partners, che francamente allo stato non possono fare di più. Le cose sarebbero più complicate da raccontare sul fronte opposto. Dove però alla fine non è difficile trovare una convergenza comune sulla volontà di difendere i propri orticelli, o magari di farli anche crescere a danno degli altri, ma senza coltivare seriamente una vocazione maggioritaria che è la sola condizione per sfidare la maggioranza di turno.

Non è dunque dagli altri partiti che il premier può oggi temere qualcosa. Più serio può essere un timore di tipo sistemico. Un progetto di partito conservatore che banalizza il passato, e per il presente punta a uno scambio minimo fra sovvenzioni e voti, può sì incontrare il favore di quella (consistente) parte di società che si è ritirata nel proprio recinto particolare. Ma nella stessa parte pesca il sempre più grande partito dell’astensione. Alla fine, perché esporsi con un voto se certi benefici si ottengono lo stesso, e se l’appartenente a una delle tante corporazioni sa di essere comunque tutelato? Forse un giorno gli studiosi dei flussi elettorali dell’ultimo decennio spiegheranno col ben noto paradosso del free rider un astensionismo in costante crescita, al di là degli improvvisi successi e degli immediati tracolli di tante forze politiche.

Non è detto dunque che l’operazione riesca. Certo è che, fra i nuovi adepti del partito conservatore e i vecchi e nuovi epigoni del massimalismo, ci sarebbe un ampio spazio per un riformismo maturo. Che non cada cioè nelle trappole dei continui posizionamenti, delle beghe da cortile e dei giochi delle tre carte di cui abbiamo visto celebrare grandi tornei nazionali