Al senatore Giorgio Pisanò, già volontario nella X Mas, per il quale gli italiani potevano pacificarsi col loro passato perché tanto i fascisti quanto i partigiani avevano «la patria nel cuore», Vittorio Foa rispose che «Se si parla di morti, va bene. I morti sono morti: rispettiamoli tutti. Ma se si parla di quando erano vivi, erano diversi. Se aveste vinto voi, io sarei ancora in prigione. Siccome abbiamo vinto noi, tu sei senatore».

È una frase famosa anche perché definitiva. Non c’è infatti niente di meglio per spiegare quello che a lungo è mancato nel discorso pubblico, ossia il silenzio degli ex fascisti sulle conseguenze concrete per le libertà di tutti, della diversità della democrazia da un regime totalitario. Questo riconoscimento ci fu da parte di Gianfranco Fini, ma in seguito abbiamo ascoltato solo mezze parole burocratiche, se non sfuggenti, per di più accompagnate dalla caricatura dell’antifascismo militante (cui alcuni loro protagonisti si sono del resto prestati). Infine, dopo la costituzione del Governo Meloni, i più autorevoli esponenti di Fratelli d’Italia hanno innescato la marcia indietro. Ormai non si contano gli episodi in cui tornano su episodi della Resistenza per dire, ad es. da ultimo, che nel massacro delle Fosse Ardeatine furono uccisi “italiani” (Meloni), non dei partigiani, o che a via Rasella i partigiani uccisero “una banda musicale di semipensionati” (La Russa), non dei nazisti.

Si tratta di miserie delle quali magari poi ci si scusa quando si è detto proprio il falso, come nel caso del Presidente del Senato. Ma rimane l’impressione di una strategia programmata e quindi concordata, dovendo escludere l’ipotesi di singoli colpi di testa. A cosa può servire dunque una strategia del genere? C’è chi immagina sia rivolta a risarcire i militanti del partito, frustrati dalla necessità di accettare per troppi altri aspetti la continuità col Governo Draghi, e chi crede che aiuti a distrarre l’attenzione dalle grandi difficoltà incontrate nel rispettare i tempi dell’agenda del PNRR, che le pubbliche amministrazioni italiane erano e sono oggettivamente impreparate a seguire.

Può darsi perfino che valgano tutte e due le letture. In ogni caso non bastano. C’è soprattutto l’intenzione di preparare gradualmente, con la gradualità consentita a un partito che ha vinto le elezioni e dovrebbe avere davanti un governo di legislatura, una nuova narrazione. Una banalizzazione del passato nella quale l’ identità costituzionale della Repubblica viene messa da parte e sostituita dall’indicazione di un minimo senso comune agli italiani, che si ritiene offerto dal concetto di nazione. L’ossessivo riferimento alla nazione nei discorsi del Presidente del Consiglio si salda, in questo senso, con le goffe forzature di fatti storici che risultano dalle dichiarazioni sue e di altri sulla Resistenza.

Sarà bene notare due cose. Anzitutto che la Costituzione ha dato alla Repubblica un orizzonte di princìpi che andavano e vanno ben oltre la negazione del recente passato totalitario. La Resistenza, insieme a note condizioni geopolitiche, consentì questo passaggio ed è con esso, visto dinamicamente nelle condizioni di oggi, che piaccia o non piaccia va stabilito il confronto.

In secondo luogo la Costituzione utilizza in varie occasioni le parole ‘Nazione’ e ‘nazionale’, anche se in altre preferisce usare le parole “Repubblica”, “Patria” o “Paese”. Questo elemento è stato messo da parte nel racconto dell’antifascismo. Eppure il Presidente della Repubblica “rappresenta l’unità nazionale”, “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione” e “I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”. Questa parola è stata così sottratta all’ideologia nazionalista. Ma non è l’unica per indicare la cifra di tutta la collettività, come risulta per es. dal riferimento alla “difesa della Patria” come “sacro dovere del cittadino”.

I Costituenti si sentirono dunque liberi di scegliere le parole di volta in volta più adatte al contesto di cui stavano parlando. È una libertà che è andata perduta, e che proprio ora va recuperata. Le ossessioni per certi termini sono altrettanto sbagliate delle rimozioni. Ma bisogna saper rispondere in positivo alle une come alle altre. A questo, alla fine, serve una Festa di Liberazione come il 25 aprile.

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Il 18 aprile di due anni fa moriva Luigi Covatta, direttore di questa rivista. Non saremmo qui senza il suo impegno per rilanciarla, animato da passione politica e sostenuto da riconosciute capacità professionali. Un grato ricordo di lui è perciò rimasto immutato in tutti noi, come nella dispersa ma riconoscibile comunità socialista. Avremo presto un libro di raccolta di alcuni suoi interventi, e di commenti e testimonianze sulle fasi della sua vita.