Pierangelo Buttafuoco ha descritto la vittoria della destra come una “rivincita di Coccia di Morto su Capalbio”. Lo possiamo capire, essendo lui da sempre un onesto sostenitore della parte che ha vinto. Ma la descrizione è proprio sbagliata.
Nel film “Come un gatto in tangenziale” si dà un giudizio negativo non solo sull’élite che va a Capalbio ma anche sul popolo che va a Coccia di Morto, due mondi chiusi in se stessi, che preferiscono ripetersi i rispettivi racconti di intellettuali supponenti e di vittime di un potere distante, come se i rappresentanti si fossero autoeletti. Il messaggio è che hanno torto tutte e due le parti: e questa è la vera originalità, il segreto nascosto del film.
Ma la trasposizione in sede politica fa acqua. Non si capisce perché uno schieramento che ha preso un milione e mezzo di voti più dell’altro (il centrosinistra) dovrebbe ridursi a qualche migliaio di persone che conosce la ridente cittadina maremmana e a qualche centinaio che ci va in vacanza. E alla fine la trasposizione non fa capire nemmeno troppo bene perché il partito di Capalbio ha preso il solito quinto dei voti (da circa dieci anni), mentre quello di Coccia di Morto ne ha preso poco più di un quarto. Che poi il tutto si sia tradotto in un tracollo in termini di seggi del partito uscito secondo, lo si deve a errori politici rispetto a un sistema elettorale che, piaccia o meno, impone le coalizioni per non perdere clamorosamente.
Eppure quello che ha detto Buttafuoco non può essere liquidato facilmente. Il fatto è che da tempo, ben prima dell’uscita del film (2017), il mantra di un “partito della ZTL” che deve “tornare nelle periferie” ha posseduto i dirigenti del Partito democratico, così legittimando in pieno la narrazione populista senza aggiungere nulla di vantaggioso al proprio destino politico. È banale, ma bisogna dirlo. Vale la pena di tornare nelle periferie solo se si ha chiaro cosa dire, con la serenità e la semplicità sufficienti a spiegarlo a quelli che ci abitano.
Anche stavolta, astrattamente, non sarebbe stato difficile fare meglio di chi si è presentato con un paio di slogan sul reddito di cittadinanza o sulla sicurezza. Solo astrattamente, però. Perché il messaggio del Partito democratico, magari più onesto, è sempre stato inutilmente faticoso, involuto, e soprattutto senza anima. Non ci può essere anima se si è perennemente afflitti da una presunzione di superiorità intellettuale che viene da lontano, e che nelle condizioni della vita politica contemporanea (non solo) italiana si rovescia in complesso di inferiorità verso chi si presenta più a suo agio con lo stile, il modo di vivere e la mentalità del popolo, o sa fingere di farlo (come succede molto spesso). Non ci può essere anima se, invece di caratterizzarsi per due o tre scelte nette da portare avanti nel medio periodo sul fronte dell’eguaglianza e della libertà, ci si occupa costantemente del posizionamento del partito nel sistema politico, così lasciando tutto lo spazio possibile dei contenuti agli alleati-rivali, oltre che agli avversari.
Ecco perché le elezioni hanno contato meno per i numeri che per aver portato allo scoperto un difetto di struttura. Lo confermano i commenti ai risultati che abbiamo chiesto a un folto gruppo di intellettuali e politici, e che compaiono in questo numero della rivista. Se, come scrive Alberto Benzoni, il confronto fra destra e sinistra è da tempo sostituito con quello fra avversari e sostenitori dell’establishment (io direi fra populisti e non, visto che non c’è paese al mondo in cui i governi populisti abbiano mai neanche provato a combattere il grande potere economico), la prima cosa da fare non è “dire qualcosa di sinistra”, come suggerì chi in realtà ispirò quello stile, ma guardarsi allo specchio.