L’art. 11 della nostra Costituzione stabilisce che “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali; consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni; promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
Dalla fine della guerra fredda, la diffusione di conflitti che hanno visto l’intervento di molti Stati, fra cui l’Italia, per fini umanitari o comunque diversi da quelli classici, ha ripresentato la necessità di verificare se fossero conformi o meno alla Costituzione. La guerra in Ucraina non ha fatto eccezione. La partecipazione dell’Italia al conflitto, anche tramite forniture di armi, sarebbe secondo alcuni contraria alla Costituzione.
Tutte le parole usate nell’art. 11 sono state studiate attentamente dall’Assemblea Costituente. A partire da quel “ripudio” della guerra, che esprime una scelta sostenuta da un rifiuto morale per la guerra di aggressione: qualcosa di più della semplice “condanna”, formula che potrebbe portare a una dissociazione puramente politica, e qualcosa di meno della “rinuncia”, che non a caso compare nella Costituzione giapponese su chiara indicazione degli americani. Ma soprattutto qual è l’oggetto del ripudio? Qualsiasi guerra? La Costituzione è molto chiara nel riferire il ripudio alla doppia ipotesi della guerra come “strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”. Ammette invece la guerra di difesa, che infatti è presupposta in molti altri articoli: la difesa della Patria come “sacro dovere del cittadino” (art. 52), la deliberazione dello stato di guerra da parte delle Camere (art. 78), il Consiglio Supremo di Difesa e la dichiarazione dello stato di guerra da parte del Presidente della Repubblica (art. 87).
Si pone a questo punto la questione se la singola guerra alla quale l’Italia abbia partecipato o partecipi rientri fra quelle oggetto del ripudio costituzionale. La questione non si può risolvere sulla base delle sole indicazioni del testo, proprio perché esso detta le condizioni di apertura alla comunità internazionale che si sono prima riportate. Il che vuol dire che le definizioni della pace e della guerra diverse da quelle oggetto del “ripudio” dipendono da quanto stabilisce il diritto internazionale del secondo dopoguerra a partire dall’instaurazione della Carta delle Nazioni Unite e dalle successive evoluzioni di quell’ordinamento.
Occorre considerare che l’art. 51 della Carta riconosce il diritto di autodifesa individuale e collettiva in caso di attacco armato contro un membro dell’ONU. È vero che la condanna dell’invasione russa in Ucraina che in Assemblea generale aveva raggiunto 141 voti a favore, 5 contrari e 35 astenuti, non è stata approvata dal Consiglio di sicurezza a causa del veto posto dalla Russia. Ma può la giustificazione della reazione ucraina come autodifesa essere bloccata dallo stesso Stato aggressore? E può l’intervento di altri Stati a sostegno dell’Ucraina essere considerato illegittimo per la stessa ragione? La fornitura di armi può rientrare fra le risposte di tipo difensivo, purché proporzionate e riferibili a un attacco che certamente si configura come “offesa alla libertà degli altri popoli”.
È giusto fermarsi prima di contribuire a creare un clima di crociata. Ma è anche possibile farlo senza perdere il senso della misura. Quando leggiamo che non siamo di fronte all’invasione di uno Stato da parte di un altro ma allo scontro fra due regimi, perdiamo il senso della misura. Lo stesso accade quando prospettiamo il conflitto in Ucraina come scontro di civiltà, e quindi, inevitabilmente, di infedeli contro fedeli. Diverso è però il caso di quanti guardano all’invasione curandosi delle sue conseguenze politiche, giuridiche ed economiche, senza per questo pretendere di chiudere il dibattito sui rapporti dell’Occidente con la Russia dopo il 1989. In questo caso, si evita semplicemente una pericolosa confusione fra responsabilità che vanno accertate su piani diversi, e si mantiene aperta la ricerca di un linguaggio comune.
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