Sono passati centrotrenta anni dalla fondazione del Partito socialista al Congresso di Genova, il 14 agosto 1892. Formalmente, il partito si scioglie il 13 novembre 1994 a causa di una situazione debitoria insostenibile e del crollo dovuto a Tangentopoli. Ma si ricostituirà pochi anni dopo.

Non si può comunque negare una continuità con chi a torto o a ragione si sente oggi erede della tradizione socialista. Basta riprendere il discorso del 1920 del fondatore Filippo Turati su “Rifare l’Italia”, per riconoscerci in quello sguardo, nello stesso tempo realistico e intriso dei valori di libertà e di eguaglianza.

Casomai, la tradizione socialista merita per tante ragioni di essere ancora esplorata e discussa, con le sue contraddizioni e le potenzialità rimaste inespresse, ma anche per i traguardi raggiunti in vista dell’incivilimento degli italiani. Dall’epoca della formazione di una classe lavoratrice consapevole di sé, e delle istanze di democrazia, di eguaglianza e di libertà che voleva introdurre nel fragile Stato liberale, alla lotta al fascismo, per la Repubblica e per la Costituzione, fino alla realizzazione dei princìpi costituzionali: dal lavoro alla salute, dalla scuola alla famiglia e ai diritti civili. Questo è il tanto che rimane, la vera eredità, di cui si parla troppo poco a fronte della continua ormai secolare discussione sul confronto a sinistra, storicamente comprensibile ma oggi inutile.

In questo numero Simona Colarizi e Stefano Rolando scrivono che la ricorrenza dei centotrenta anni ci suscita titubanza e orgoglio. Titubanza di fronte a un mondo così cambiato da relegare nella preistoria i due secoli precedenti, e orgoglio per il poter considerare irrinunciabili per il vivere civile gli ideali che hanno guidato il partito in tutta la sua storia. In effetti è così, i mixed sentiments ci sono tutti. Ma non portano a una contraddizione insolubile.

Tutti abbiamo difficoltà a capire questo passaggio d’epoca, a causa della sua rapidità e delle tante variabili che lo compongono. E le chiavi interpretative per capirlo non stanno in nessuna tradizione politica e vanno trovate oggi. Ma un conto è cercarle senza una bussola, un altro conto è cercare di capire le cose senza illudersi che siano scomparsi fenomeni di sfruttamento, e che non se ne possano creare altri oggi sconosciuti.

È stata già smentita la presunzione che le nuove tecnologie disegnino un mondo dove non ci sarà bisogno di rifarsi ai valori caldi della solidarietà, della libertà e dell’eguaglianza su cui sono state costruite o sono rinate tante democrazie. Basti pensare alla rete, che in un primo tempo sembrava il luogo in cui la nostra libertà di espressione raggiungeva il massimo. Poi ci siamo accorti dei serissimi condizionamenti che la rete comporta per decine di milioni di utenti, liberi di accedervi ma “profilati” da tutte le parti e portati a farsi opinioni taroccate, fino ai più allarmanti casi di disinformazione prodotta in Russia.

C’è moltissimo da capire in tutto questo, ma in ogni caso non è la tecnologia, o la stessa intelligenza artificiale, a muovere le fila di questi processi. E’ l’uso che ne fanno alcune persone per trarne immensi guadagni economici e politici. Il pensiero democratico, il gusto della libertà e il socialismo stanno dall’altra parte. Possiamo dirlo forte nel 2022.

 

Cesare Pinelli