Dieci anni fa, più o meno in questo periodo, George W. Bush annunciava, dal ponte di una portaerei, “missione compiuta”. L’Iraq era stato liberato da un dittatore estremista, antioccidentale, in possesso di armi di distruzione di massa; così come era avvenuto in Germania e in Giappone alla fine della seconda guerra mondiale.
Si apriva perciò la strada per la costruzione di un nuovo Iraq e di un nuovo Medio oriente nel quadro della fondazione di quel nuovo ordine mondiale di cui l’area mediorientale aveva rappresentato, sino ad allora, un vero e proprio “buco nero”.
Nello stesso periodo sfilavano per le strade d’Europa e del mondo milioni di manifestanti pacifisti. Secondo il nostro Bertinotti, che se ne assumeva, con qualche piccola forzatura, il ruolo di portavoce, l’unica alternativa alla globalizzazione capitalista e imperialista che trovava in Washington il suo braccio armato. C’era poi chi stava in mezzo. In particolare l’Europa. L’Europa “non vecchia ma saggia” come ebbe a dire Prodi.
Questa Europa non contestava affatto il disegno di “interventismo democratico”. Collegava però la possibilità di un suo esercizio efficace ad almeno due condizioni fondamentali: da una parte il consenso della collettività internazionale e quindi delle Nazioni unite (che portava a condividere l’intervento in Afghanistan e non quello in  Iraq); dall’altra la necessità di esperire, preventivamente il percorso della politica con il relativo dialogo.
A dieci anni data, questi protagonisti e questi argomenti sono scomparsi totalmente dai nostri radar. L’Iraq è rimasto un buco nero e il Medio oriente è agitato da conflitti totalmente imprevisti agli inizi del nostro secolo. E, dunque, George W. Bush è chiuso nella sua biblioteca e compare all’esterno solo quando strettamente necessario.
Gli Stati Uniti si guardano bene dal farsi coinvolgere militarmente in qualsiasi tipo di crisi e affrettano il loro disimpegno dall’Afghanistan. E, dunque, il movimento pacifista, aduso, da sempre, non a lottare contro le guerre, ma contro la presenza dell’Occidente (e, in particolare degli Stati Uniti) nelle medesime, si è totalmente afflosciato; sopravvivendo, almeno (ma non solo) in Italia, all’insegna  dell'”ognuno si faccia i…suoi” di marca leghista.
Ma neanche l’Europa se la passa meglio. Incapace, come è, di spiegare ai suoi concittadini il senso reale, con il suo passivo ma anche il suo attivo, del suo interventismo democratico e delle sue missioni di pace. In quanto, poi, alle tante conclamate virtù del negoziato e del dialogo, l’esperienza israelo-araba e iraniana non è propriamente incoraggiante.
Sembrerebbe, dunque, che il confronto bicentenario (perché nato all’indomani della rivoluzione francese) tra l’interventismo democratico e il suo fratello-antagonista, il pacifismo, sia finito per la manifesta inferiorità dei suoi due protagonisti. Ma, forse, a venir meno non è stata l’attualità della prospettiva teorica quanto piuttosto la capacità di utilizzarla. Parliamo di un occidente che si rinchiude sempre più in sé stesso perché ciò che accade nel mondo esterno sfugge non solo e non tanto alle sue capacità di intervento ma, prima ancora, alle sue capacità di analisi razionale. Siamo, insomma, in una specie di stato confusionale. Per definizione transitorio; ma quanto transitorio?