Mario Ricciardi

Vorrei soffermarmi su due tesi enunciate nello scritto di Gino Giugni (Giugni 1996) da cui è tratto il lungo brano pubblicato nel numero di marzo della rivista. La prima tesi riguarda apparentemente la storia del socialismo. In particolare, essa sembra affermare che c’è una relazione di parentela, più stretta di quanto si pensi comunemente, tra due diversi orientamenti all’interno di tale movimento politico. La seconda invece riguarda l’equilibrio tra teoria e prassi del riformismo socialista, e in particolare il modo in cui stabilire un corretto rapporto tra politiche di riforma e principi politici.

La prima tesi di Giugni è che «il riformismo nella sua versione classica non è un’alternativa all’utopia del dominio sulla storia o della storia guidata da una mente intelligente munita di una dottrina infallibilmente capace di previsione. È soprattutto una variante di metodo: pacifico, legalitario, gradualista». Nel presentarla ho appena scritto che questa tesi di Giugni riguarda “apparentemente” la storia del socialismo. Ho usato questo avverbio perché non credo che essa vada intesa come un contributo storiografico. Come ha mostrato Mark Bevir nel suo recente libro sulla formazione del socialismo britannico, un movimento politico non è una sostanza, un sostrato di cui lo storico possa ricostruire le vicende attraverso la successione di accidenti nel corso del tempo (Bevir 2011). Raccontare la storia di un movimento è un esercizio intellettuale che richiede grande sensibilità, un po’ come seguire con lo sguardo la tessitura di un panno. Alcuni fili si spezzano, altri si intrecciano, talvolta si ingarbugliano. Ci vuol tempo prima che emerga un disegno riconoscibile, un pattern con una certa costanza nel tempo. Penso che la prima tesi di Giugni proponga uno schema interpretativo che ci aiuta a riconoscere l’emersione di uno dei pattern costanti della storia del movimento socialista, portando alla luce la tensione tra due modi di concepire l’utopia.

La seconda tesi è meno problematica dal punto di vista filosofico. Giugni avvisa il lettore che il riformismo «presenta anche un grave rischio, evidente sin dalle prime prove compiute nel periodo giolittiano: se non ha premesse culturali chiare, può diventare uno strumento di scambio per baratti facili, e a volte anche ineguali. Un riformismo che non sia radicato su una coscienza critica del paese e dei suoi problemi, scende al basso profilo e al piccolo cabotaggio». Si tratta di una massima di saggezza politica basata sull’esperienza del riformismo italiano che è rilevante anche per altre realtà.

Per quel che riguarda la prima tesi, direi che essa è certamente condivisibile. Non potremmo comprendere il dissidio tra massimalisti e riformisti nella storia del socialismo europeo se dimenticassimo che esso nasce come dissenso sul metodo per la realizzazione di un obiettivo che entrambi gli orientamenti riconoscono come auspicabile, e in ogni caso preferibile al modo in cui funziona il capitalismo. Ovviamente finché l’obiettivo dei socialisti rimane opportunamente vago le differenze riguardo al metodo possono essere considerate relativamente meno importanti, anche se esse sono frequentemente occasione di confronti vivaci – e di scontri talora drammatici – tra pensatori e attivisti di diversa persuasione.

Un esempio di questo atteggiamento relativamente rilassato dei socialisti per quel che riguarda il metodo si trova persino in Marx e Engels, i fautori di quel “socialismo scientifico” che avrebbe dovuto lasciarsi definitivamente alle spalle la stagione delle utopie. Considerando le condizioni del movimento laburista nel Regno Unito negli anni immediatamente seguenti al 1870, i due erano pronti ad ammettere una certa elasticità riguardo ai modi di attuare una rivoluzione. Fino al punto, come sottolinea Eric Hobsbawm, da accettare che essa potesse aver luogo, almeno fino a un certo punto, nel rispetto delle procedure costituzionali della democrazia parlamentare britannica (Hobsbawm 1999, 116-117).

La situazione cambia radicalmente quando le possibilità teoriche e le soluzioni pratiche che esse ispirano vengono messe alla prova. Nel 1938, per chi rivolge lo sguardo all’indietro a considerare la storia recente, diventa sempre più difficile credere nella compatibilità tra l’utopia socialista e la democrazia. Élie Halévy proclama senza mezzi termini che, nella sua forma primitiva, il socialismo «n’est ni libéral, ni démocratique, il est organisateur et hiérarchique», e profetizza l’avvento di un’era delle tirannie (Halévy 1938, 213). Dall’altra parte della Manica gli fa eco G.D.H. Cole, che afferma timidamente che in Europa occidentale i movimenti socialisti diventeranno rivoluzionari «only if they have to, and not from choice» (Cole 1938, 215). Sollecitati dal successo dell’Unione Sovietica e spaventati da quello del fascismo anche molti socialisti democratici albergano evidentemente dubbi sulla possibilità di realizzare l’utopia in modo pacifico, legalitario, gradualista. La tentazione di quella che Alessandro Pizzorno ha chiamato la “politica assoluta”, con la sua promessa di controllo del sapere, delle norme e della devozione, si fa sentire con forza (Pizzorno 1993). Chi resiste riesce a farlo a prezzo dell’isolamento o dell’ostracismo da parte dei massimalisti.

Il rigetto della politica assoluta

Nel secondo dopoguerra il dissenso sul modo per realizzare il socialismo diviene un solco incolmabile. Per i socialisti liberali il riformismo non è una strada diversa per raggiungere la meta comune con i massimalisti. Se il rispetto della libertà di culto, di quella di opinione, oppure di quella di scegliere come impiegare le proprie capacità e le proprie risorse, non vengono più considerate garanzie provvisorie da accettare in base a considerazioni tattiche, ma sono invece riconosciute come regole di giustizia politica, risulta impossibile per i riformisti accettare un modello di società socialista che preveda il controllo pubblico della circolazione delle informazioni o della produzione e dello scambio.

Dal rigetto della politica assoluta nasce un diverso modo di concepire l’utopia. Come ha scritto Salvatore Veca, lo spazio del possibile politico «è ora uno spazio che ha limiti. I suoi confini sono delimitati da un lato dal vincolo delle motivazioni e delle scelte individuali delle persone e, dall’altro, dall’assioma per cui non tutto è possibile e non si danno mondi sociali senza perdite di valori. Questo è quanto definisce gli scopi di una utopia ragionevole o, se si preferisce, situata: non c’è alcuna buona ragione per congedarsi dall’esplorare filosoficamente il possibile politico alla luce di qualche criterio di giustizia. Lo spazio di manovra, lo sappiamo, non è illimitato. Non tutto è possibile. Ma la massima di saggezza che ci dice che quasi tutto sarebbe potuto andare diversamente preserva i margini della elusiva libertà filosofica» (Veca 2002, 115). Mi pare che dal difficile equilibrio tra massime di saggezza politica e libertà di esplorare filosoficamente modi diversi di concepire la società dipenda la capacità del riformismo di esprimere un’utopia ragionevole.

Comunisti e socialisti

Credo che questo modo di interpretare il dissenso tra riformisti e massimalisti suggerisca anche qualche spunto per comprendere meglio le cause profonde del mancato incontro tra socialisti e comunisti italiani alla fine degli anni ottanta, nonostante la critica severa e sincera della rivoluzione di ottobre e degli esiti del “socialismo reale” maturata nel Pci. sotto la guida di Enrico Berlinguer. Nel crepuscolo della prima Repubblica agli osservatori più distaccati – o forse soltanto ai più ingenui – le ragioni della scissione di Livorno apparivano completamente superate. Per i socialisti liberali il riformismo di Giorgio Napolitano o di Emanuele Macaluso aveva una somiglianza di famiglia indiscutibile con quello di Gino Giugni o di Giorgio Ruffolo. Eppure l’incontro non avvenne, e non credo che si possa attribuire la responsabilità di questo storico fallimento della sinistra soltanto al gruppo dirigente del partito socialista, che pure ha avuto le sue  colpe.

Sotto questo profilo le tesi approvate dal XVII congresso del Pci nel 1986 sono un documento interessante: in particolare la parte sui “caratteri e valori del socialismo nella concezione dei comunisti italiani”. La prospettiva è ancora di continuità con il pensiero di Marx e con «una visione di libertà positiva per lo sviluppo più ampio possibile dei singoli individui e per la liberazione della donna attraverso una forma sociale egualitaria e autogovernata». Non avrebbe senso tacciare tale visione di utopia, avvertono gli estensori del documento, dati i tempi storici dell’evoluzione umana. Come si può immaginare, a queste dichiarazioni di principio seguono indicazioni politiche che cercano di tradurle in pratica. Oggi colpisce lo scollamento tra la vaghezza estrema dei principi politici e lo sforzo di mettere in campo un ventaglio di proposte concrete per il governo della società italiana. Manca l’esplicito riconoscimento del fondamento di massime di saggezza politica come quelle cui allude Veca. Le cose possono andare diversamente, ma non tutto è possibile, e comunque ogni possibilità comporta perdite di valore che una forza politica che abbia fatto propria la prospettiva del liberalismo politico non deve ignorare o sottovalutare. Si parla di eguaglianza o di giustizia sociale, ma non c’è mai una chiara discussione di principi di giustizia.

Per rendersi conto di quanto profonda sia la distanza tra l’utopia ragionevole del socialismo riformista  e le posizioni dei comunisti italiani basta rileggere quanto scrive Raniero La Valle tre anni dopo la morte di Berlinguer. La Valle difende l’etica della liberazione che a suo dire il segretario del partito comunista avrebbe elaborato nel corso della revisione dell’esperienza storica del comunismo che lo aveva impegnato negli ultimi della sua vita. Secondo La Valle «in Berlinguer la politica era essenzialmente qualificata dal suo fine, era il perseguimento di questo fine, era il grande cimento storico per realizzare questo fine, per realizzare il bene della società, dell’umanità, e prima di tutto degli oppressi, dei poveri, dei meno garantiti, dei curvati, degli esclusi» (La Valle 1987, 70). Belle parole, di grande efficacia come spesso erano gli scritti di La Valle. Tuttavia il lettore cercherebbe invano in questo e in altri lavori di intellettuali che in quegli anni avevano grande presa sull’elettorato comunista – penso a Pietro Ingrao, tanto per fare un esempio – un’indicazione convincente delle forme istituzionali attraverso le quali questo processo di liberazione si potrebbe esprimere nel pieno rispetto delle libertà fondamentali, o una discussione dei principi che governerebbero una società socialista. Uso l’espressione “processo” non a caso perché sospetto che a questo punto l’utopia socialista sopravviva nella cultura politica di molti comunisti soltanto relegando il fine nella dimensione di un “non ancora” così vago da risultare indefinito (La Valle 1987, 72).

Moro e Berlinguer

Lo sguardo beffardo di Giugni si sofferma sull’immagine di Moro e Berlinguer associati in occasione della convention dell’Ulivo nel 1996 affermando, senza spreco di argomenti, che l’accostamento è insensato. Mi viene in mente che quella icona esprimeva uno spirito affine a quello di una canzone di Jovanotti di pochi anni prima. Si intitolava Penso positivo e aveva un ritornello in cui il bardo della mia generazione cantava: “Io credo che a questo mondo esista solo una grande chiesa, che passa da Che Guevara e arriva fino a Madre Teresa, passando da Malcom X attraverso Gandhi e San Patrignano, arriva da un prete in periferia che va avanti nonostante il Vaticano”. C’è chi può credere a sciocchezze del genere? Richiamando quella foto di Berlinguer e Moro, Giugni insinua che qualcuno potrebbe farlo. Questa è l’eredità peggiore del massimalismo nella sua versione soft, post-rivoluzionaria, coltivata da certi ambienti comunisti alla fine degli anni ottanta. Un’utopia irragionevole che rifiuta di fare i conti con le massime della saggezza politica, rimuove la giustizia, e si rifugia nel sogno. Presi dal desiderio di “pensare positivo”, si smette di ragionare. Oggi sappiamo che il sonno della ragione ha generato mostri, ma non riusciamo a liberarcene.

Tra la prima e la seconda tesi enunciate da Giugni c’è un legame. Ricordare che il socialismo riformista non nasce dal ripudio dell’utopia di una società giusta, ma da una riflessione sui modi per realizzarla senza interferenze ingiustificate con la libertà altrui, pone alcune delle premesse necessarie per una critica del riformismo quando perde di vista i principi. Sottolineo “alcune” perché mi pare che una critica del riformismo richieda inevitabilmente l’articolazione di una prospettiva normativa che mostri come è possibile tenere insieme l’aspirazione alla giustizia e il rispetto della libertà individuale. La prospettiva che ho in mente è quella illustrata e difesa nei lavori di John Rawls e di altri autori che hanno preso parte al fertile dibattito sulla teoria della giustizia cominciato nel secondo dopoguerra ed ancora in corso in buona parte dei paesi occidentali. Che questa discussione, nonostante gli sforzi lodevoli di studiosi come Salvatore Veca, Sebastiano Maffettone o Lorenzo Sacconi, non abbia avuto nel nostro paese la stessa capacità di influenzare le politiche socialiste che ha avuto altrove è uno dei fattori che spiegano perché il riformismo socialista italiano non sia riuscito a orientare la cultura della sinistra in questo paese. Sotto questo profilo, l’avvertimento di Giugni si rivela drammaticamente attuale. Anche tra le fila dei socialisti riformisti il sonno intermittente della ragione ha generato qualche mostriciattolo. Tra questi il peggiore credo che sia l’involuzione quasi-etnica dell’identità socialista, che porta alcuni a comportarsi come se essere socialista fosse un tratto che non si può mai perdere, come certi legami tribali. Ciò spiega perché oggi dirsi “riformisti” appaia a molti compatibile con scelte politiche che altrove non troverebbero accoglienza nella famiglia – pur numerosa e discorde – dei socialisti.

Non c’è dubbio, infatti, che ci sia anche una variante conservatrice o di destra del riformismo. La storia europea ne offre diversi esempi, dall’estensione del suffragio elettorale realizzata da Disraeli fino agli interventi che introducono forme di tutela sociale voluti da Bismarck. Tuttavia il tratto che queste esperienze hanno in comune non è certo il desiderio di realizzare – o almeno di avvicinarsi – all’ideale di una società intesa come “un equo sistema di cooperazione fra persone libere e eguali da una generazione alla successiva” proposto da Rawls (Rawls 2001, 136). Si tratta piuttosto di interventi che mirano a introdurre i correttivi necessari per mantenere stabile un sistema sociale, quello del capitalismo del laissez-faire, che appariva insostenibile nel medio periodo senza misure assistenziali che ampliassero le opportunità degli svantaggiati.

Come afferma lo stesso Rawls, questo “capitalismo del welfare-state” permette «diseguaglianze molto grandi nella proprietà reale (mezzi di produzione e risorse naturali), per cui il controllo dell’economia e di gran parte della vita politica è in mano a pochi. Inoltre, sebbene, come suggerisce lo stesso termine “capitalismo del welfare-state”, le misure di welfare possano essere molto generose e garantire un minimo sociale decente che copre i bisogni di base, non riconosce un principio di reciprocità che regoli le diseguaglianze economiche e sociali» (Rawls 2001, 138). Le circostanze dell’attuale crisi economica, e quel che sta accadendo in alcuni paesi europei, ci ricordano che le diseguaglianze di reddito e la mancanza di giustizia di sfondo tipiche del capitalismo del welfare-state «possono creare una sottoclasse scoraggiata e depressa i cui membri spesso dipenderanno cronicamente dall’assistenza pubblica, una sottoclasse che si sentirà emarginata e non parteciperà alla cultura politica pubblica» (Rawls 2001, 140). Sono queste le sfide che dovrebbero sollecitare oggi i socialisti.

Riferimenti bibliografici

Tesi, programma, statuto. I documenti approvati dal 17° congresso del PCI, Editrice “L’Unità”, Roma 1987.
M.BEVIR, The Making of British Socialism, Princeton University Press, 2011.
G.D.H. COLE, Socialism in Evolution, Penguin, 1938.
GIUGNI, Socialismo, l’eredità difficile, Il mulino, 1996.
É. HALEVY, L’ère des tyrannies, Gallimard, 1938.
HOBSBAWN, Karl Marx and the British Labour Movement, in Id., Revolutionaries, Abacus, 1999, pp. 111-128.
LA VALLE, Per un’etica della liberazione, in Paolo Corsini e Massimo De Angelis (a cura di), Berlinguer oggi, Editrice “L’Unità”, 1987, pp. 69-89.
PIZZORNO, Le radici della politica assoluta, in Id., Le radici della politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, 1993, pp. 43-81.
RAWLS, Justice as Fairness. A Restatement, Harvard University Press, 2001.
VECA, La bellezza e gli oppressi. Dieci lezioni sull’idea di giustizia, Feltrinelli, 2002.