Al debutto della nuova edizione di Ballando con le stelle ho gioito, respirando “aria di famiglia”, con Enrico Montesano. Conservo gelosamente il 45 giri di mio padre con Felice Allegria. Io la penso così, un invito a votare per il Psi alle importanti elezioni del 1975, all’indomani della clamorosa vittoria al referendum sul divorzio. L’attore, allora non ancora trentenne, interpretava brillantemente un dialogo fra un cittadino deciso a votare socialista e un altro ancora incerto. Io ascoltai il disco in seguito, anzi: lo sentivo e risentivo, fino alle soglie del XXI secolo. Mi divertiva ed esaltava. L’impegno non è solo l’appello, l’endorsement, bensì il riempire di contenuti sociali e politici la propria arte, o parte di essa, fare di quei contenuti un oggetto creativo, volto magari a spronare i politici di professione. Non mi interessa troppo ciò che Montesano ha sostenuto assai più di recente e di cui non condivido neppure una virgola; grazie allo show di Milly Carlucci, mi è parso di rivedere, e rivivere, “il mio Montesano”.

Nostalgia, si dirà. Eppure essa non di rado è nostalgia del futuro, come suggeriscono alcune opere del grande compositore Luigi Nono e una raccolta postuma di suoi scritti. Un artista e un intellettuale che seppe cambiare, restando sé stesso. 

La nostalgia ha questo di peculiare: anela a un “ritorno”, ma si tratta di un ritorno di ciò che non è mai stato. Non nella forma nella quale lo si desidera. È desiderio di tornare ad avere ciò che in realtà non si è mai posseduto. E che di uno strano ritorno si tratti lo conferma il fatto che non di rado sia proiettato proprio verso il futuro. Come dire: riappropriarsi dello stato d’animo giusto per tornare a sperare e a scorgere orizzonti mai in precedenza neppure intravisti.

Da qui, nel mio piccolo, il senso dell’invito che rivolgo alla sinistra e al Pd a provare a ritessere un rapporto fecondo con il mondo della cultura, proprio nell’anno dedicato alla memoria di Pier Paolo Pasolini. Di lui i più ricordano il ruolo di coscienza critica, ad esempio dinanzi a un progresso che a molti sembrava destinato a continuare indefinitamente e a vincere ogni ostacolo, ogni ingiustizia. I suoi “messaggi in bottiglia”, le sue “lettere al mondo” (come direbbe Salvatore Veca, aggiungendo che il mondo “in genere non risponde”) e alla sinistra, la sua inquietudine, il suo disagio nel Pci, la sua vicinanza, nell’ultima fase, ai radicali erano al tempo stesso spia di ciò che non andava e pungolo a fare meglio, a fare in modo diverso.

E che dire di Antonio Gramsci? Un politico gettato nel carcere che soffre, studia e riflette. E tra i suoi oggetti principali di riflessione vi sono, appunto, gli intellettuali. Argomento di pensiero di uno come lui, destinato a divenire icona e paradigma proprio della figura dell’intellettuale. Da qui il fascino che continua a esercitare in tutto il mondo. Come dire: un rapporto, quello tra la politica e il pensiero, difficile, tormentato, forse impossibile. E proprio per questo necessario, e tale da sedurre intere generazioni, come quelle storie d’amore drammatiche, sofferte, talora tragiche e che pure nutrono il nostro animo e il nostro cuore.