Tommaso Gazzolo

 

Stefano Rodotà ha imposto un ritmo particolare alla nozione di  “right to have rights”. Attraverso la giurisprudenza americana in tema di cittadinanza[1], Rodotà giunge ad una ridefinizione del senso di questa espressione,  richiamandosi direttamente al passo di Hanna Arendt, posto in apertura del suo ultimo testo[2]: «Storia e natura ci sono diventate altrettanto estranee, nel senso che l’essenza dell’uomo non può più essere compresa con le loro categorie. D’altronde, l’umanità che per il XVIII secolo non era, in termini kantiani, più di un’idea regolativa, è oggi diventata un fatto inevitabile. La nuova situazione, in cui l’“umanità” ha in effetti assunto il ruolo precocemente attribuito alla natura o alla storia, implica in tale contesto che il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo appartenere all’umanità, dovrebbe essere garantito dall’umanità stessa»[3].

Cosa significa «diritto ad avere diritti»? Roberto Esposito ha riassunto, con una formula efficace, il senso di questo riferimento in Rodotà: la libertà dipende dai diritti[4]. È questo rapporto che fonda l’attenzione di Rodotà per i problemi legati al «nuovo statuto» del corpo umano, al biodiritto, alle tecnologie. Da qui l’impegno del giurista per un nuovo habeas corpus ed una «rinnovata autolimitazione del potere»[5]; impegno politico e civile per la tutela della privacy, dell’autodeterminazione, del testamento biologico, e, più in generale, per un’etica laica fondata sui diritti e la dignità della persona e per un moralismo attivo[6].

Occorre, tuttavia, ritornare sul senso del concetto di right to have rights. Si possono, allora, individuare due livelli differenti a partire dai quali Rodotà pensa il «diritto ad avere diritti» in rapporto soprattutto al problema di definire, in chiave laica, i diritti “fondamentali” che costituirebbero il nucleo di questo «diritto». C’è una prima lettura possibile che Rodotà consente. Non vi è alcun fondamento dei diritti (alcun diritto naturale), quanto piuttosto una pratica dei diritti, una «lotta per i diritti» che scopre realizzandosi – ed è per tale ragione che essa sarebbe anzitutto praxis, “campo di battaglia” – «nuovi riferimenti universali»[7]. Allo stesso modo, la persona – a differenza del “soggetto” – sarebbe anzitutto prassi, esistenza e non essenza: sarebbe «biografia» e non «biologia», si è ciò che si diviene.

Pure, proprio le risposte che dà Rodotà impongono un altro livello, un’altra scrittura del suo testo. I diritti, qui, non sono più una pratica, ma una teoria, un’ideologia: vi sarebbe, infatti, sempre un in-sé della persona che non potrebbe che definirsi a partire da un certo fondamento (la dignità). Per questo Rodotà ritiene che non si possa «fare a meno di riferimenti universali, a partire da quello dell’eguaglianza e dal riconoscimento a ciascuno di un nucleo duro di diritti che gli appartengono come persona»[8]. La pratica dei diritti è allora resa possibile dalla dignità della persona. Secondo lo stesso Rodotà, tuttavia, il riferimento alla dignità non dovrebbe essere identificato «con una essenza o una natura dell’uomo, quanto piuttosto con le modalità della sua libertà ed eguaglianza»[9]. Resta, però, la necessità che il diritto si radichi «profondamente nell’umanità stessa di ogni individuo, apprestando una categoria di diritti fondamentali»[10]. Si deve dunque seguire la particolare «strategia» che Rodotà segue per risolvere l’opposizione tra essenza ed esistenza, immanenza e trascendenza. Il «diritto di avere diritti» ha questa funzione: sposta i termini del problema. Non c’è più una reale opposizione tra natura e storia: il diritto di avere diritti è – attraverso il recupero della Arendt – un fatto, un «fatto inevitabile»[11].

Rodotà tenta di separare, attraverso il diritto, le tecniche di dominio dal governo del sé

            Per Arendt il diritto di avere diritti non è un’idea regolativa, né una nozione che può essere spiegata a partire dall’opposizione tra natura e storia. Se si segue Balibar, l’espressione della Arendt diviene concetto, invenzione democratica di una politica, e soprattutto pratica costituente[12]. In Rodotà, diversamente, la nozione diviene tecnica, e non pratica. Se c’è una «pratica dei diritti», essa non significa tanto pratica di creazione, quanto piuttosto tecnica di riconoscimento. Condizione dei diritti è una certa tecnica giuridica che li possa definire, far riconoscere.

I percorsi che segnano la «costruzione della personalità» e la liberazione del corpo, come si vedrà, non sono espressione di una pratica di libertà, ma di una tecnica giuridica.  Il problema, in questo senso, è capire se la lotta per l’affermazione di diritti (alla vita, al corpo, ai bisogni concreti, etc.) sia in Rodotà la “formula” (l’ideologia) attraverso la quale si svolga un’effettiva lotta politica, un’effettiva resistenza alle forme di potere[13]. Oppure se in realtà il diritto non funzioni a sua volta come una tecnica che funzioni sì come limite ed opposizione al potere politico, ma unicamente allo scopo di produrre e controllare nuove strategie e relazioni di dominio.

La lotta per i diritti, la pratica di una loro creazione ininterrotta, è già significata all’interno di un discorso che è quello del “diritto ad avere diritti”. La lotta contro il potere politico è già da sempre significata all’interno del discorso giuridico, e prodotta da tale discorso. «Vita», del resto, non significa mai per Rodotà un divenire di forze, di potenze, ma sempre scelte da tutelare e rispettare, dignità, autodeterminazione. «Persona», a sua volta, è «reinvenzione della persona», ma reinvenzione che passa per un riconoscimento giuridico (costituzionale). È, in realtà, una tecnica di individualizzazione, alternativa a quella che fonda il «soggetto del diritto».

Right to have rights. Fatto inevitabile, per la Arendt. Creazione politica, per Balibar. Tecnologia del sé, per Rodotà: «Il diritto è tecnica, non c’è un diritto che nasce dalla natura»[14]. Tecnica che consente «agli individui di effettuare, con i propri mezzi o con l’aiuto degli altri, un certo numero di operazioni sui propri corpi, sulle proprie anime, sui propri pensieri, sulla propria condotta» (Foucault). Rodotà tenta di separare, attraverso il diritto, le tecniche di dominio dal governo del sé. C’è una dialettica tra vita e diritto che Rodotà approfondisce e nella quale riconosce sempre «il rischio di un uso autoritario del diritto, come scorciatoia per chiudere precocemente un conflitto, come strumento per imporre valori non condivisi»[15].

È un movimento, questo, che sembrerebbe ritrovarsi talvolta anche nell’ultimo Foucault. Segnando il distacco da Sartre, per cui il potere è sempre male, cattivo in sé, Foucault tenta infatti di pensare la possibilità che si diano «regole di diritto […] che consentano, in questi giochi di potere, di giocare con il minimo possibile di dominio»[16].  Rispetto al discorso di Foucault – che Rodotà segue da vicino – resta tuttavia uno scarto. Se in Foucault è la libertà che, come pratica (libertà per sé e da sé[17]), è condizione per questi spostamenti di potere (anche attraverso le «regole del diritto»), in Rodotà, diversamente, è il diritto che, come tecnica (come ordine del discorso giuridico, come diritto ad avere diritti), precede ed è condizione per ogni pratica di libertà.

E’ il diritto che consente di difendermi, per Rodotà, laddove per Foucault «non è perché ho dei diritti che posso difendermi; i miei diritti esistono e la legge mi rispetta nella misura in cui mi difendo», ove difendersi è inscrivere la vita dell’individuo «nella pratica del diritto» (Pour la défense libre, articoli 2-3). In Rodotà, invece, la lotta è sempre rivendicazione di diritti: posso difendermi in quanto ho il «diritto ad avere diritti». Il diritto dev’essere elastico, soft, mite, deve essere attraversato da spazi liberi, dal suo stesso disfarsi. Il problema, però, è che non è una pratica politica a decidere di questi spostamenti: è, invece, ancora una tecnica giuridica, è il «diritto ad avere diritti». Per questo Rodotà deve continuamente richiamarsi agli Universali, ad un «nucleo duro», ad un piano trascendente. Non si può uscire dal diritto per fondare, rivendicare, tutelare, diritti e libertà.

 Per Rodotà la persona e la libertà non si danno che all’interno del diritto in quanto tecnica, tecnica che definisce uno spazio giuridico

Se per Rodotà si deve lottare per i diritti, questa lotta politica è controllata, significata dal «diritto di avere diritti», ossia da quello che non è semplicemente un fatto, ma una tecnica. È solo quest’ultima che dà senso alla pratica, al «coraggio dei diritti». Si pensi al passaggio dal soggetto alla persona[18] proposto da Rodotà. È sempre il diritto che definisce la persona, perché è sempre il diritto, per Rodotà, che definisce lo stesso «non-diritto», la vita.  L’invisibile non è ciò che resta fuori, ma è interno al visibile. Così la vita è «limite di un modo di fare diritto»[19], ma limite giuridicamente riconosciuto. L’opposizione pieno / vuoto di diritto, per Rodotà, implica che il vuoto, «per poter essere davvero tale, dev’essere accompagnato proprio da regole che gli consentano di mantenere questa condizione […] Anche quando si ritiene che una determinata materia debba esser lasciata libera dal diritto, è comunque necessaria una convenzione che ne decreti l’estraneità alla regolazione giuridica»[20]. Non si può denunciare il diritto che attraverso il diritto, non si può rivendicare un non-diritto, una vita, che all’interno del diritto.

Per Rodotà la persona e la libertà non si danno che all’interno del diritto in quanto tecnica, tecnica che definisce uno spazio giuridico: «La stessa libera costruzione della personalità, come proiezione estrema dell’autonomia individuale, pone così anche il tema del mutamento del diritto e delle modalità della sua utilizzazione. Non può, quindi, essere pensata soltanto nella dimensione della separazione, quasi che la lontananza dal diritto, o il suo abbandono, possano accrescere forza e potenzialità. La costruzione della personalità è iscritta nello spazio giuridico, e qui trova il suo fondamento, ma non come modalità di attuazione di una situazione di diritto descrivibile in termini oggettivi, quanto piuttosto come spazio riconosciuto alla soggettività, governabile secondo ipotesi di diritto e non diritto, in un continuo rapporto tra “pieno” e “vuoto” di norme giuridiche»[21].

È la tecnica del diritto che determina “spazi vuoti”, dove non c’è normalegge. In un mondo senza leggi, vi sarebbe comunque la tecnica del diritto, perché sarebbe essa a rendere possibile il primo. C’è un’impossibilità della vita senza diritto, perché parlare della vita stessa è farlo all’interno del discorso del diritto: è il diritto stesso a significare l’opposizione dentro / fuori. Non potrebbe esservi un discorso anteriore o esterno al discorso del diritto. Non c’è mai, in Rodotà, assenza di diritto.

Rodotà, è vero, introduce una logica del soggetto nomade. Eppure, al contempo, egli non può che muoversi all’interno di una tentativo  di unificazione dei soggetti[22]: “La costituzionalizzazione della persona si compie così verso la rilevanza attribuita a un corpo di cui viene ricostruita l’unità proprio perché la persona possa essere garantita nella sua pienezza [….]. Si individua un sostrato che reagisce sulla costruzione stessa della nozione di persona […] Ricostruita nella sua unità, e ritrovata la sua complessità, la persona incontra i suoi confini, i limiti stessi della sua libertà d’azione»[23]. Senza questa esigenza di unità non vi sarebbe la possibilità di pensare, secondo la logica di Rodotà, un “diritto di avere diritti”. Nel passaggio dal «soggetto di diritto» borghese c’è spostamento, ma non cesura: «La transizione dal soggetto alla persona non sancisce una cesura. Il rapporto tra i due commi dell’articolo 3, da una parte, conferma rilevanza e limiti dell’eguaglianza formale per la costruzione del soggetto; e, dall’altra, fa emergere la condizione delle persone concrete»[24].

 È il diritto che fa l’individuo: è la sua tecnica che costituisce la possibilità di un principium individuationis

Per questa ragione, in Rodotà, la discontinuità del corpo e della persona è accettata ma, nel contempo, ogni volta riunificata: “Un sistema bionico ibrido è una persona che può essere considerata titolare di diritti e doveri? Le componenti umane di un sistema bionico ibrido sono la stessa persona prima e dopo essere divenute l’interfaccia di componenti artificiali? Domande nuove, ma che rimandano a temi antichi, alla nave di Teseo per la quale ci si chiedeva se persistesse la sua identità originaria anche dopo che, via via, tutti i suoi pezzi erano stati cambiati”[25]. E ancora: «Bisogna ripetere che “per vivere occorre un’identità, ossia una dignità”. Lo stesso deve dirsi per i sistemi giuridici. Se la persona non può essere separata dalla sua dignità, neppure il diritto può prescinderne, o abbandonarla»[26]; «Sono proprio i diritti fondamentali a dare oggi un contributo essenziale per definire la condizione umana»[27]; «Il rispetto della dignità della persona nella sua integrità, dell’autonomia, della libertà e dell’uguaglianza degli esseri umani sono fortemente a rischio. E’ in atto un allarmante processo di de-soggettivazione»[28].

Per poter parlare di “diritti”, per poter fondare il «diritto all’esistenza», Rodotà ha bisogno di ricostruire, in qualche modo, la persona come identità, la persona che può dire “Io sono”. La “sovranità” dell’Io (che fonda il «trasferimento di sovranità dallo Stato alla persona»[29]) è il presupposto per poter opporre il “diritto” alla «pretesa di qualsiasi potere di impadronirsi della vita, fino alla sua totale spersonalizzazione». Questo Io, questo “umano” di cui parla Rodotà,  è un effetto, un prodotto del “diritto”, della tecnica del diritto ad avere diritti. È il diritto che fa l’individuo: è la sua tecnica che costituisce la possibilità di un principium individuationis. Io sono perché ho un diritto (il diritto di avere diritti): «Il “diritto di avere diritti” connota la dimensione stessa dell’umano e della sua dignità»[30].

Il passaggio dal «soggetto alla persona», in Rodotà, resta all’interno di una «via alla soggettività»[31], nella quale indispensabile è, ancora, la funzione di riconoscimento ideologico della «persona» da parte del diritto. C’è ancora, in Rodotà, un  umanesimo della persona, una «filosofia dell’uomo» che non può evitare, in quanto pensiero giuridico, di interpellare gli individui come soggetti (o, nel lessico di Rodotà, come persone), definiti attraverso una serie di diritti: al nome, al corpo, alla verità, eccetera.

È su questo punto che il discorso di Rodotà rimane al di qua di una autentica pratica della libertà, al di qua di una rottura ideologica che, ad avviso di chi scrive, è invece necessaria. Vi sono anzitutto domande che le risposte di Rodotà non consentono di porsi, che precludono: perché dovrei essere o divenire una persona? Perché dovrei avere un diritto ad avere diritti? Perché e quando decido, scelgo di avere un diritto? Dovremmo, in questo senso, chiederci se la libertà – anziché essere fondata sul diritto di avere diritti – non sia forse un pensiero del fuori. Ma non è possibile, in tale sede, riaprire il discorso di Rodotà in questa direzione. Si può però in primo luogo riprendere il problema del rapporto tra diritto e libertà a partire da un’altra opposizione: quella tra legislazione e giurisprudenza.

Il pensiero di Rodotà – proprio perché pensa la libertà a partire dal diritto – è un pensiero della legge e della legislazione («legislazione per principi»[32]), anche quando viene articolato a partire dall’intervento necessario del giudice all’interno del processo democratico[33]. Per Rodotà ciò che è in questione, infatti, è sempre la rivendicazione di un diritto, il problema del suo riconoscimento a partire da un «diritto ad avere diritti». È un discorso che insiste al livello della legge e dei diritti.

È per questa ragione che Rodotà è sempre incerto sul problema del fondamento dei diritti e deve ricorrere sovente al richiamo ai «diritti dell’uomo» o ad altri universali. Possiamo, per contro, introdurre un’altra direzione: «Non è diritto di questo o di quello.  È questione di una situazione e una situazione che si evolve. Lottare per la libertà è veramente fare della giurisprudenza.  […] I diritti dell’uomo: si invocano i diritti dell’uomo e cosa significa? Significa dire ai turchi che non hanno il diritto di massacrare gli armeni. D’accordo, non hanno il diritto, e allora? […] La creazione del diritto non è fare dichiarazioni su diritti umani. È la creazione della giurisprudenza. Solo questo esiste. Quindi lottare per la giurisprudenza. […] Questo è essere di sinistra, creare diritto» (Deleuze).

Occorre chiedersi se la concezione del diritto di Rodotà possa costituire la base per la formazione e la definizione di una cultura giuridica di sinistra

«Lottare per giurisprudenza» non è «lottare per il diritto» (Rodotà). È, infatti, una pratica che crea diritto senza partire dal diritto, ma dalla situazione concreta, seguendo dei divenire. Per Rodotà, diversamente, ogni lotta è già definita da una legislazione dei diritti, da una ragione analitica e discorsiva che è prodotta dal «diritto di avere diritti». Non è una separazione – va da sé – tra ruolo del legislatore e del giudice, ma tra due differenti concezioni del diritto. Tra la situazione e la fattispecie astratta, tra divenire ed essere, tra una pratica ed una tecnica.

Rodotà è essenzialmente un illuminista. C’è una critica illuministica che attraversa il pensiero di Rodotà (comprese le sue pagine sui valori, sull’ “eccedenza costituzionale ed etica”[34], sui fini) – e che si articola come un’arte di non essere eccessivamente governati (Foucault). In Rodotà quest’arte è declinata in senso realmente illuministico, come legislazione della ragione. Per questo il pensiero di Rodotà è ancora un umanesimo, un pensiero del soggetto (“persona”), un’analitica della verità[35]. È la politica del diritto: «I diritti, dunque, diventano deboli perché la politica li abbandona. E così la politica perde se stessa, perché in tempi difficili, e tali sono quelli che viviamo, la sua salvezza è pure nel suo farsi convintamente politica dei diritti, di tutti i diritti»[36].

Se ci sposta ancora sul piano politico, occorre allora chiedersi se la concezione del diritto, della persona, del corpo e della libertà proprie del pensiero di Rodotà possano costituire la base per la formazione e la definizione di una cultura giuridica di sinistra. Ad avviso di chi scrive una cultura giuridica di sinistra non può articolarsi che a partire da uno scarto essenziale rispetto al rapporto tra diritto e libertà presente in Rodotà. La «rivoluzione dei diritti» riflette anzitutto l’ideologia di una certa emancipazione politica. Ossia di una politica radicale e democratica (ed antimarxista), oggi articolata principalmente attraverso la lettura dei princìpi della Costituzione come valori e l’opposizione tra persona e mercato.

Una cultura giuridica di sinistra dovrebbe interrogarsi però sui limiti di una «globalizzazione attraverso i diritti»[37], di una emancipazione politica democratica fondata sulla «lotta per i diritti». Occorrerebbe, in altri termini, pensare i limiti propri di una legislazione della ragione, di quella che è espressione di un illuminismo politico,  per il quale in definitiva l’emancipazione dell’uomo coincide e si realizza essenzialmente sul piano giuridico, sul piano dei diritti («I diritti costituiscono l’unico vero contrappeso alla pericolosa pretesa che sia la sola economia il metro di tutte le cose e che il mercato sia una sorta di legge naturale cui è impossibile sfuggire»[38]).

Il limite è dato dal non pensare sino in fondo il rapporto tra potere e diritto. Anzitutto, per ricorrere ad una formula di Marx, diremo che «la società non si fonda sulla legge. Questa è una fantasia di giuristi. Al contrario, la legge deve fondarsi sulla società». Ma forse non è neppure questo il punto essenziale. Il problema riguarda, infatti, il diritto in se stesso, il suo essere una tecnica e, quindi, un meccanismo che produce anche al suo interno rapporti di potere. Secondo Rodotà, la «lotta per i diritti è l’unica, vera, grande narrazione del millennio appena iniziato»[39]. Cosa significa? Significa che per Rodotà il “campo” della lotta è fissato e determinato ad un livello specifico, quello giuridico. Così facendo, tuttavia, si rischia di eludere il fatto che il diritto è, sempre, un’ideologia, ossia una tecnica il cui compito essenziale è assicurare la «riproduzione delle condizioni di produzione»[40].

“Ideologia” in quanto è una tecnica che assicura, attraverso un ordine di rappresentazioni, le condizioni affinché i meccanismi di potere reali possano continuare a riprodursi all’interno del sistema[41]. Si può allora lottare contro il potere rivendicando dei diritti? O i diritti, lo stesso diritto ad averli, non è che un riflesso di un certo tipo di organizzazione del potere? Costituisce un’opposizione al potere rivendicare i propri diritti? E se quei diritti non fossero che realizzazioni soggettive dell’oggettività? Non, cioè, estrinsecazione libera della persona, ma determinazioni e scelte obbligate dal potere stesso?

Rivendicare nuovi diritti non significa di per sé opporsi al potere, in quanto le strutture di potere (quelle giuridiche comprese) determinano anche la normazione delle aspettative

Il diritto costituisce o riproduce – ad un livello ideologico (immaginario) – una certa definizione dei rapporti di potere. Anche un «diritto rivoluzionario», come quello che probabilmente pensa Rodotà, è una tecnica di potere.  Pensare la libertà a partire dal diritto significa infatti non mettere mai realmente in discussione una certa tecnica che, per quanto “mite” od “elastica”, ci definisce – e ci obbliga – anzitutto come persone. Anche nel passaggio «dal soggetto alla persona» c’è sempre qualcuno che ha il diritto di avere diritti. E questo qualcuno è definito dal diritto stesso (la persona). Ossia è “chiamato” dal diritto, è soggetto al diritto per poter essere soggetto del diritto. Per riconoscere un diritto alla persona, bisogna aver riconosciuto la persona come soggetto di diritto. Il diritto, in questo modo, diviene una tecnica di potere: realizzo attraverso il diritto (o la rivendicazione del diritto) ciò che devo essere da sempre, ciò che sono già (attraverso la logica riconoscimento-misconoscimento[42]), i diritti che mi sono già stati assegnati: il mio essere persona, corpo, libertà.

Rivendicare nuovi diritti, inoltre, non significa di per sé opporsi al potere, in quanto le strutture di potere (quelle giuridiche comprese) determinano anche la normazione delle aspettative, le regolano e le prevedono («in ogni società esistono più aspettative normative di quante possano essere istituzionalizzate»)[43], ma ciò non costituisce di per sé una forma di resistenza al potere. Il potere è in grado di rideterminare il piano giuridico senza per questo mettere necessariamente in discussione i reali rapporti di forza che controlla e riproduce.

Rispetto all’arte di non essere eccessivamente governati – che può ritenersi propria a Rodotà – si può allora opporre l’arte di vivere contraria a tutte le forme di fascismo, la quale si differenzia dalla prima, sotto il profilo del pensiero giuridico, in questo punto essenziale: «Non chiedere alla politica il ripristino dei “diritti individuali”, come sono stati definiti dalla filosofia. L’individualità è un prodotto del potere. Ciò che occorre è “de-individualizzarsi”, con la moltiplicazione e la dislocazione, in combinazioni diverse» (Foucault).

Un pensiero giuridico di sinistra dovrebbe iniziare ad interrogarsi proprio nel confronto con le proposte di Rodotà, ossia con una teoria dell’emancipazione politica fondata sui diritti della persona. Confronto che obbliga la sinistra a risolvere alcune questioni teoriche (e politiche) essenziali. La teoria politica socialista si può identificare (e, ad avviso di chi scrive, limitare) con l’arte di non essere eccessivamente governati? Il socialismo è un umanesimo? È una filosofia dell’uomo? È un neo-illuminismo? Un universalismo democratico? Una teoria politica fondata sui diritti delle persone?

Una forza socialista dovrà rispondere a questi interrogativi. La teoria di Rodotà giustifica una posizione interna alla cultura di sinistra – quella laicista, anticomunista, moralista – che non è estranea neppure al dibattito interno al socialismo, nonostante la contrapposizione immediatamente politica[44]. Contestarne l’ideologia politica, significa allora rimetterne in discussione questi dispositivi teorici. Al discorso dei diritti come limite del potere si dovrebbe contrapporre una filosofia della potenza come pratica di libertà contro il potere.

La cultura della sinistra è già stata tentata, in passato, da quella che Pasolini definiva l’adozione marxistizzata dei diritti

Si dovrebbe iniziare dalla lotta per non essere più ciò che siamo. Per non essere a partire dal diritto. Lotta che non può che mettere in discussione il concetto stesso di “diritto”, del suo riferimento agli “universali” ed all’ “uno”, nel nostro divenire-altro. Occorre rifiutare ogni antropologia, compresa quella dell’homo dignus[45]. Il diritto di avere diritti impedisce una reale pratica della libertà, in quanto tecnica che obbliga, di per se stessa, la persona ad essere comunque un soggetto di un diritto, ad essere oggetto di una certa legislazione, ad esprimere la propria “libertà” attraverso certe forme (i “diritti”).

La cultura della sinistra è già stata tentata, in passato, da quella che Pasolini definiva l’adozione marxistizzata dei diritti. Forse varrebbe la pena riportare alcuni stralci della critica di Pasolini – indipendentemente dall’ideologia di quest’ultimo, radicalmente differente dalle posizioni qui sostenute – in quanto contribuisce a chiarire il senso della critica ad una cultura dei diritti: “L’italianizzazione socialista dei “diritti civili” non poteva fatalmente (storicamente) che volgarizzarsi. Infatti: l’estremista che insegna agli altri ad avere dei diritti, che cosa insegna? Insegna che chi serve ha gli identici diritti di chi comanda. L’estremista che insegna agli altri a lottare per ottenere i propri diritti, che cosa insegna? Insegna che bisogna usufruire degli identici diritti dei padroni. L’estremista che insegna agli altri che coloro che sono sfruttati dagli sfruttatori sono infelici, che cosa insegna? Insegna che bisogna pretendere l’identica felicità degli sfruttatori. Il risultato che in tal modo eventualmente è raggiunto è dunque una identificazione: cioè nel caso migliore una democratizzazione in senso borghese. La tragedia degli estremisti consiste così nell’aver fatto regredire una lotta che essi verbalmente definiscono rivoluzionaria marxista-leninista, in una lotta civile vecchia come la borghesia: essenziale alla stessa esistenza della borghesia. La realizzazione dei propri diritti altro non fa che promuovere chi li ottiene al grado di borghese. […] In che senso la coscienza di classe non ha niente a che fare con la coscienza dei diritti civili marxistizzati? […] E’ abbastanza semplice: mentre gli estremisti lottano per i diritti civili marxistizzati pragmaticamente, in nome, come ho detto, di una identificazione finale tra sfruttato e sfruttatore, i comunisti, invece, lottano per i diritti civili in nome di una alterità. Alterità (non semplice alternativa) che per sua stessa natura esclude ogni possibile assimilazione degli sfruttati con gli sfruttatori […]. Attraverso l’adozione marxistizzata dei diritti civili da parte degli estremisti […] I diritti civili sono entrati a far parte non solo della coscienza, ma anche della dinamica di tutta la classe dirigente italiana di fede progressista. […] Ora, la massa degli intellettuali che ha mutuato da voi, attraverso una marxizzazione pragmatica di estremisti, la lotta per i diritti civili rendendola così nel proprio codice progressista, o conformismo di sinistra, altro non fa che il gioco del potere: tanto più un intellettuale progressista è fanaticamente convinto delle bontà del proprio contributo alla realizzazione dei diritti civili, tanto più, in sostanza, egli accetta la funzione socialdemocratica che il potere gli impone abrogando, attraverso la realizzazione falsificata e totalizzante dei diritti civili, ogni reale alterità. Dunque tale potere si accinge di fatto ad assumere gli intellettuali progressisti come propri chierici. Ed essi hanno già dato a tale invisibile potere una invisibile adesione intascando una invisibile tessera. Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili (P. P. Pasolini, Intervento al congresso del Partito radicale, novembre 1975).

I diritti dovrebbero essere “presi meno sul serio”. Il diritto non è la condizione di possibilità della libertà. Al contrario, una pratica della libertà deve porsi contro il diritto, contro la sua tecnica: dev’essere forza, potenza (e non right) che, nei suoi divenire, è anche creazione di diritti. È una falsa contrapposizione quella tra diritto e potere. La contrapposizione reale è quella tra potenza (puissance) e potere (pouvoir). Dall’età dei diritti, la sinistra ha bisogno di passare ad un’età delle potenze.

 

Riferimenti

[1] Cfr., nell’ambito giuridico anglosassone, A. KESBY,  The Right to Have Rights. Citizenship, Humanity, and Interational Law, Oxford University Press, 2012. In italiano, cfr. P.B. HELZEL, Il diritto ad avere diritti. Per una teoria normativa della cittadinanza, Cedam, 2005.

[2] S. RODOTA, Il diritto di avere diritti, Laterza, 2013.

[3] H. ARENDT, Le origini del totalitarismo (1951); trad. it. di A. Guadagnin, Einaudi, 2009, p. 413.

[4] La Repubblica, 23 novembre 2012.

[5] S. RODOTA’, Il nuovo Habeas Corpus: la persona costituzionalizzata e la sua autodeterminazione,  in Ambito e fonti del biodiritto, a cura di S. Rodotà e M. Tallachini, Giuffré, 2010, p. 177.

[6] S. RODOTA’, Elogio del moralismo, Laterza, 2011.

[7] In Diritti. Per un’idea di crescita e democrazia, a cura di B. Pollastrini, FrancoAngeli, 2011, pp. 32-33.

[8] La Repubblica, 11 agosto 2004.

[9] S. RODOTA’, Antropologia dell’ “homo dignus”, lezione tenuta nell’Aula Magna dell’Università di Macerata il 6 ottobre 2010 in occasione del  conferimento della laurea honoris causa.

[10] La Repubblica, 16 settembre 2005.

[11] La ripresa da parte di Rodotà, anche di posizioni già presenti in Bobbio è bene delineata, riassuntivamente, da C. OCONE, Bobbio: né monastico, né organico, in «L’Indice dei libri del mese», anno XXVIII, n.9, settembre 2011, p. 29: «Bobbio riprende la tradizione dei “diritti umani”, ma si tiene lontano dalla riproposizione di un qualsiasi giusnaturalismo astratto. Il problema dei diritti, per lui, non è filosofico, ma morale e storico: essi non vanno fondati, ma promossi e realizzati; e, inoltre, sviluppatisi storicamente, storicamente vanno tradotti nelle diverse circostanze (Cassese). L’”universalismo dal basso” che in questo modo viene a realizzarsi deve tendere a una “costituzionalizzazione della persona” a livello globale che può essere considerato l’obiettivo della nuova età dei diritti (Rodotà)».

[12] E. BALIBAR, (De)constructing the Human as Human Institution: A reflection on the Coherence of Hannah Arendt’s Practical Philosophy, in «Social Research», 3, 2007, pp. 727-738.

[13] Così è in M. FOUCAULT, La volontà di sapere. Storia della sessualità, trad. it. di P. Pacquino e G. Procacci, Feltrinelli, 2004, p. 128.

[14] F. TESTI, La lezione di Rodotà a Capri. «Il diritto naturale non esiste, è un’invenzione dell’uomo», in «Gazzetta di Modena», 19 settembre 2011.

[15] RODOTA’, La vita e le regole, cit., p. 201.

[16] M. FOUCAULT, L’etica della cura di sé come pratica della libertà (1984), ora in Archivio Foucault 3, 1978-1985, Feltrinelli, 1998, p. 291.

[17] Cfr., sul punto, V. SORRENTINO, Il pensiero politico di Foucault, Meltemi, 2008, p. 196.

[18] Cfr., per un’introduzione, S. RODOTA’, Dal soggetto alla persona, ESI, 2007; Id. Il diritto di avere diritti, cit., pp. 140-178;  Id., Dal soggetto alla persona. Trasformazioni di una categoria giuridica, in «Filosofia politica», 21, 3, 2007, pp. 365-378.

[19] S. RODOTA’, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, Feltrinelli, 2006, p. 25.

[20] Ibidem, cit., pp. 20-21.

[21] Ibidem, La vita e le regole. Tra diritto e non diritto, cit., p. 24. Cfr. anche RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 296: «L’autodeterminazione, infatti, non si autoistituisce, non vive in un vuoto di principi di riferimento. Proprio l’inveramento di quell’insieme di principi, qui ripetutamente richiamati, individua e garantisce lo spazio dell’agire legittimo e, consentendo l’adattamento della regola alle mutevoli ed irripetibili modalità della vita attraverso l’attività degli stessi interessati, rende possibile non solo l’autonomo governo del sé, ma pure quel confronto culturale e sociale che può produrre reciproca comprensione, e così aprire una strada per una costruzione condivisa e non autoritaria di comuni valori di riferimento».

[22] S. RODOTA’, Nuovi soggetti, nuovi diritti, nuovi conflitti, in Soggetti, diritti e conflitti: percorsi di ridefinizione, a cura di M. Rosti e  F.G. Pizzetti, Giuffrè, 2007, p. 15. Cfr. anche  RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., pp. 298-310.

[23] RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 160.

[24] R. ESPOSITO – S. RODOTA’ , La maschera della persona, in Impersonale: in dialogo con Roberto Esposito, a cura di L. Bazzicalupo, Mimesis, 2008, p. 181.

[25] La Repubblica, 11 giugno 2011.

[26] RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 187.

[27] RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 89.

[28] S. RODOTA’, Umanità e tecnica, intervento al Festival del diritto, V edizione, 27-30 settembre 2012.

[29]RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 295.

[30] RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 7.

[31] Non casualmente l’itinerario di Rodotà rimanda al testo di Y. ZARKA, L’altra via della soggettività. La questione del soggetto e il diritto naturale nel XVII secolo, Guerini, 2000, in cui la critica del “soggetto di diritto” è definita nel passaggio dal subiectum iuris al subiectum qualitatis moralis.

[32] Il tema, risalente (S. RODOTA’, Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, in «Riv. Dir. Comm.», I, 1967, p. 86), viene riproposto anche negli ultimi lavori del giurista, tra cui Il diritto di avere diritti.

[33] Cfr. S. RODOTA’, Magistratura e politica in Italia, in Governo dei giudici. La magistratura tra diritto e politica, a cura di E. Bruti Liberati , Feltrinelli, 1996, pp. 27-30; Id., Il diritto di avere diritti, cit., p. 61.

[34] S. RODOTA’, Introduzione a Le idee costituzionali della Resistenza, a cura di C. Francheschini, S. Guerrieri, G. Monina, Roma, 1997, p. 12.

[35] Cfr. S. RODOTA’, Il diritto alla verità, in Riparare Risarcire Ricordare. Un dialogo tra storici e giuristi, a cura di G. Restae– V. Zeno-Zencovich, ESI, 2012, pp. 497-516.

[36] RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 104.

[37] S. RODOTA’, Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Donzelli, 2011, p. 130; Id., Tra diritti e mercato: una cittadinanza europea possibile, in Una costituzione senza stato, a cura di E. Bonacchi, Il Mulino, 2001, p. 451 e ss.

[38] D. PAOLETTI, Diritto d’Europa: intervista a Stefano Rodotà, in «Libertàgiustizia»,  18 aprile 2013.

[39] RODOTA’, Il diritto di avere diritti, cit., p. 94.

[40] Cfr. L. ALTHUSSER, Ideologia ed apparati ideologici di Stato. Note per una ricerca (1970), in L. ALTHUSSER, Freud e Lacan, trad. it. a cura di C. Mancina, Editori Riuniti, 1977, pp. 65-123.

[41] Rodotà scrive: «Il diritto è un apparato simbolico che struttura una organizzazione sociale anche quando si sa che alcune sue norme sono destinate a rimanere inapplicate» (La vita e le regole, cit., p. 42). Parla di «apparato simbolico», e non ideologico. Non è dato, tuttavia, comprendere se Rodotà intenda riprendere i registri lacaniani (immaginario – simbolico – reale), o se diversamente finisca per intendere con simbolico l’ordine della rappresentazione (e quindi, a rigor di termini, l’immaginario e l’ideologico). È forse questa incertezza che non consente a Rodotà di pensare il diritto come ideologia, non tanto nel senso di illusione, ma come un livello o istanza propria della totalità o struttura sociale in cui l’immaginario produce effetti sulla struttura stessa.

[42] ALTHUSSER, Ideologia ed apparati ideologici di Stato, cit. Cfr. anche S. KARSZ, Teoria e politica. Louis Althusser, trad. it. di A. Cairoli, Dedalo, 1976, p. 211: «Riconoscimento-misconoscimento sono le due facce di un unico effetto. L’ideologia rappresenta rapporti che sono immaginari, non perché sono falsi o semplicemente illusori, ma perché funzionano a partire da un certo riconoscimento più o meno effettivo delle condizioni reali, e simultaneamente a partire da un certo misconoscimento più o meno grande di queste condizioni. In questo processo di riconoscimento-misconoscimento, l’ideologia trova la sua efficacia. L’ideologia non è un luogo immaginario, ma quel luogo reale in cui l’immaginario si realizza. Si può dunque dire che l’ideologia è ciò che gli agenti sociali pensano di se stessi solo perché, dapprima, è ciò in cui pensano».

[43] N. LUHMANN, Sociologia del diritto, Laterza, 1977, p. 116.

[44] Contrapposizione segnata dalle stesse parole di Rodotà: «Chiedere scusa a Craxi vuol dire che tanto siamo stati tutti uguali. E invece vorrei suggerire alla sinistra che Berlinguer la caduta drammatica della moralità pubblica l’aveva vista come uno dei grandi problemi politici della società italiana» (intervista a Il manifesto, 19 dicembre 2008).

[45] S. Rodotà, Il diritto di avere diritti, cit., pp. 179-199.