Luciano Violante

 

Prima che entrasse in funzione l’attuale sistema per la designazione dei vertici degli uffici giudiziari le promozioni avvenivano per concorso. Quando si liberava un posto, ad esempio di presidente di un tribunale, quel posto veniva messo a concorso. I concorrenti presentavano i propri titoli, in genere sentenze o scritti, e una commissione composta da alti magistrati decideva il vincitore.  Nel 1957 l’Associazione nazionale magistrati si espresse per l’abolizione dei concorsi, perché, “dietro l‘apparente finalità di assicurare una migliore selezione, fomentano in realtà ambizioni carrieristiche, accendendo dannose gare che influiscono negativamente sul costume e sul carattere dei magistrati e li distraggono dal loro compito di rendere giustizia, sia inoltre perché spesso risultano vincitori quei pochi che, sacrificando talvolta la loro indipendenza al miraggio della carriera, riescono a procurarsi validi appoggi”.

In sostanza l’Anm denunciava il sistema dei concorsi perchè  stimolava a scrivere belle sentenze piuttosto che buone sentenze, e costringeva i concorrenti ad aderire alle interpretazioni che delle leggi davano i giudici di grado superiore che li avrebbero valutati. I concorsi, infine,  penalizzavano i Pm che non avevano sentenze da produrre come titoli. Si discusse all’epoca se la strada migliore non fosse quella della promozione per anzianità “senza demerito”.

Le promozioni per concorso vennero cancellate da alcune riforme degli anni Sessanta che recepivano lo spirito innovatore di quegli anni. Una legge del 1963 introdusse le promozioni in sovrannumero. Mentre nel passato un magistrato avrebbe potuto ambire alla nomina a Consigliere di Corte d’Appello solo se si fosse liberato un posto di Consigliere e se avesse vinto il concorso, e così per la Cassazione, dopo la legge ciascun magistrato dotato dell’anzianità richiesta avrebbe potuto concorrere  per l’accesso al livello superiore, anche se non c’era nessun posto  vacante per quel livello. Infine tra il 1966 e il 1973 due leggi  fissarono il principio della promozione in Appello e poi in Cassazione senza obbligo di concorso, sulla base dei requisiti di laboriosità, capacità, diligenza e preparazione: da questo momento inizia la “presa di potere del Csm”, cui la legge aveva consegnato lo scettro delle nomine.

Stefano Rodotà colse felicemente il senso di questa trasformazione osservando che la magistratura da “istituzione della stabilità” stava diventando “istituzione della trasformazione”

L’Anm  era attraversata da un confronto interno, a volte aspro,  che si incentrava attorno alla “costituzionalizzazione” dell’ordinamento giuridico, in grandissima parte risalente al regime fascista. Nel 1956 aveva cominciato a funzionare la Corte Costituzionale. I giudici potevano finalmente essere non solo applicatori del diritto ma anche contestatori e produttori di diritto, attraverso le eccezioni di costituzionalità nei confronti delle leggi. Si aprì un grande dibattito sul ruolo del magistrato, anch’esso influenzato dallo spirito degli anni Sessanta: se puro applicatore della legge o partecipe del processo di democratizzazione dell’ordinamento e quindi della società. Le diverse correnti dell’Anm si distinsero proprio sul ruolo del giudice nella società democratica. Il dibattito non riguardò questioni di potere. Riguardò la critica alla neutralità del diritto, la contestazione della cultura corporativa, la ricostruzione del ruolo della magistratura nel sistema dei poteri costituzionali; il riconoscimento dei diritti sociali dei cittadini più deboli, la difesa e il rafforzamento dei valori della Costituzione.

Il senso del confronto fu così espresso nel 1971 da Marco Ramat, per lunghi anni segretario di Magistratura democratica: “Due mentalità, due concezioni si contrappongono anche nella magistratura: c’è chi crede di poter frenare e chi crede di poter spingere avanti la società e agevolare in ciò chi vuol farlo. Noi magistrati democratici, che cerchiamo di spingere in avanti, crediamo che solo così siamo fedeli alla Costituzione, la quale ha scritto l’articolo 3 anche per l’ordine giudiziario: anche i magistrati devono guardare come a un dovere giuridico all’impegno della Repubblica di trasformare la società in senso emancipatorio e ugualitario; in tal senso ogni volta che è possibile interpretano una legge”.

Nacquero nuove riviste giuridiche: Quale Giustizia, Politica del diritto, Giustizia e Costituzione. Nacque l’attivismo giudiziario. Si scoprivano i reati ambientali. Le morti sul lavoro non erano più considerate come “incidenti”, ma frutto di una specifica organizzazione del lavoro. Si garantivano i diritti dei lavoratori attraverso l’applicazione dello Statuto.  Si cominciava a indagare sui delitti dei “colletti bianchi” rompendo una consolidata tradizione di impunità. In questa fase il rinnovamento dell’ordinamento giuridico non era nelle mani del Parlamento: era nelle mani della magistratura e della Corte Costituzionale. Stefano Rodotà colse felicemente il senso di questa trasformazione osservando che la magistratura da “istituzione della stabilità” stava diventando “istituzione della trasformazione”.

Disse Giovanni Falcone in una relazione tenuta nel 1988: “Quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti  politici che è alla base della questione morale si é puntualmente presentata in  seno all’organo di autogoverno della magistratura con note di una pesantezza sconosciuta anche in sede politica”

Dal 1969 – con la strage di piazza Fontana e poi con le stragi di Bologna e di Brescia, i depistaggi, il terrorismo nero e il terrorismo rosso, la violenza mafiosa, le uccisioni dei magistrati – il contesto cambia e si impongono altre priorità: non più migliorare la democrazia ma difenderla. Il dibattito costituzionale si esaurisce. Il terrorismo, l’infedeltà di alcuni settori dello Stato, la difesa della democrazia, le morti ponevano altre questioni, altri temi, altre rigidità. Nel frattempo il peso della magistratura cresceva grazie a leggi che ne aumentavano la discrezionalità, la delega da parte della politica ad affrontare i terrorismi e la mafia, l’aura di sacralità che nasceva dagli omicidi dei magistrati.

Nel Csm imperversava la lottizzazione delle cariche, nel cono d’ombra determinato dal primato della lotta contro il terrorismo, che vedeva la magistratura particolarmente esposta e perciò non criticabile: “Le correnti dell’Anm, anche se non tutte per fortuna in egual misura – disse Giovanni Falcone in una relazione tenuta a Milano nel novembre 1988 – si sono trasformate in macchine elettorali per il Csm, e quella occupazione delle istituzioni da parte dei partiti  politici che è alla base della questione morale si é puntualmente presentata in  seno all’organo di autogoverno della magistratura con note di una pesantezza sconosciuta anche in sede politica”.

Dal 1992 al 1994, in coincidenza con le stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio, la magistratura rivestì un ruolo decisivo per il cambiamento non solo della classe politica dirigente, ma dell’intero sistema, che avvenne formalmente con le elezioni politiche del 1994. I processi per corruzione videro impegnate settanta Procure della Repubblica, con procedimenti a carico di circa 12.000 persone e l’emissione di 25.400 avvisi di garanzia; 4.525 persone arrestate, 1233 persone condannate. Furono avanzate 507 richieste di autorizzazione a procedere per la Camera e 172 per il Senato. Sei ministri furono costretti a dimettersi per aver ricevuto una comunicazione giudiziaria.

Nel 1993, in sole venti settimane, tutti i segretari dei partiti di maggioranza lasciarono l’incarico. Il 9 febbraio Bettino Craxi lascia a Giorgio Benvenuto la segreteria del Psi. Il 25 febbraio Giorgio La Malfa si dimette da segretario del Pri. Il 15 marzo Renato Altissimo si dimette da segretario del Pli. Il 29 marzo Carlo Vizzini si dimette dalla segreteria del Psdi. Il 23 giugno Mino Martinazzoli, segretario della Dc, annuncia lo scioglimento del suo partito.

Le inchieste furono accompagnate da un’ossessiva campagna dei mezzi di comunicazione che sosteneva le indagini, esaltava i magistrati e dileggiava gli imputati, tutti dati per colpevoli. Le Procure erano sostenute da un consenso popolare amplissimo, vendicativo ed  entusiasta, che trasformava i magistrati  da potere dello Stato in rappresentanti della società. Nella magistratura cominciò a manifestarsi un sentimento di privatizzazione della funzione, una concezione proprietaria dei poteri, una amnesia delle responsabilità morali e sociali connesse a quel ruolo.

Le Procure erano sostenute da un consenso popolare amplissimo, vendicativo ed  entusiasta, che trasformava i magistrati  da potere dello Stato in rappresentanti della società

Cos’era accaduto? Nelle democrazie contemporanee ordinamento politico e ordinamento giuridico sono confinanti: ad ogni arretramento dell’uno corrisponde un avanzamento dell’altro. Questa contiguità dipende dai caratteri della politica, che è allo stesso tempo principio ordinatore e materia regolata. Rientra nei suoi poteri, anzi nella sua sovranità, definire i confini tra se stessa e l’ordinamento giuridico. L’ordinamento politico delimita i confini del giuridico attraverso la costruzione delle fattispecie e delle procedure rilevanti per il diritto. L’ordinamento giuridico applica le regole che delimitano la forza del potere politico.

Tracciare la linea di confine tra i due ordinamenti è un esercizio proprio della sovranità della politica e necessario per la democrazia. L’assenza di un chiaro confine infatti può produrre la prevaricazione di uno dei due poteri sull’altro o può innescare spinte distruttive del sistema politico perché ciascuno dei due poteri possiede, sulla carta, i mezzi per distruggere l’altro.

Quando la politica si ritrae, la leva del comando passa dalle istituzioni politiche alla tecnocrazia dei giuristi. Conseguentemente il giudice è sollecitato ad andare oltre la moderazione giurisdizionale del conflitto, operando invece una mediazione politica in base a criteri prevalentemente sostanziali  (quelli della politica) e non più formali (quelli della giurisdizione). Il giudice diventa parte decisiva, priva di responsabilità, del sistema di governo del paese: e conseguentemente considera le sue funzioni come l’esercizio di un potere insindacabile (la critica è denunciata come attentato alla indipendenza), non come un  servizio per la comunità.

La politica aveva ceduto il passo e la magistratura ne aveva approfittato, come forse era inevitabile: concependo se stessa come potere più che come servizio. La fase successiva è costituita dall’affermazione di una concezione proprietaria della funzione giurisdizionale. La vicenda attuale, prescindendo dalla eventuale sua rilevanza penale, appare spregiudicato esercizio di potere. Allo stesso modo appaiono spregiudicati esercizi ci potere o privatizzazione di pubbliche funzioni i casi che hanno portato a processo o addirittura in carcere magistrati di Torino, Trani, Lecce, Siracusa, Palermo.

Certamente i costituenti, prevedendo quella composizione del Csm, presupponevano una sorta di negoziazione come avviene in Parlamento attraverso la presentazione di disegni di legge e di emendamenti alla luce del sole. Con il tempo, le sedute del Csm sono state spesso luoghi  pubblici di ratifica di decisioni private, a volte notturne. L’attribuzione di responsabilità di vertice avviene da tempo attraverso una negoziazione, come oggi nel mondo politico. In esecuzione del contratto di governo  Lega e Cinquestelle, in assenza di un comune programma e di una strategia unitaria,  votano le proposte dell’altro a condizione che l’altro voti le proprie. Allo stesso modo nel Csm manca un indirizzo unitario serio e vincolante: e quindi la corrente A vota il candidato della corrente  B a condizione che la corrente B voti il candidato della corrente A. La magistratura ha aperto la strada, e la politica – che a differenza della magistratura  risponde delle sue scelte –  è arrivata dopo.

Il sistema della contrattazione esige che ci siano posti da attribuire a tutte le correnti. Se non ce ne sono si attende. Il presidente Ciampi, nel febbraio 2005, richiamò il Csm con un’apposita lettera – alla quale erano allegate numerose tabelle – per gli eccessivi ritardi nelle nomine dei capi degli uffici. Due di queste nomine erano state effettuate dopo oltre due anni dalla vacanza; undici nomine dopo diciotto mesi; dodici dopo un anno; tredici dopo oltre nove mesi. Per venti posti direttivi, dopo un anno e mezzo di vacanza, non era stata ancora formulata alcuna proposta. Altrettanto gravi erano i ritardi per centonove posti semidirettivi, di presidente di sezione e di procuratore aggiunto. I ritardi erano dovuti non a pigrizia o inefficienza, ma alle difficoltà di accordi tra le correnti dell’Anm per la spartizione dei posti tra i propri membri. Anche in questi mesi il Csm ha atteso a designare il procuratore della Repubblica di Torino, dopo che il dottor Spataro era andato in   pensione a dicembre,  perché prima bisognava stabilire chi sarebbe stato il procuratore della Repubblica a Roma.

C’è un rimedio che non ha bisogno di leggi, ma di una disposizione interna al Csm. Si potrebbe stabilire che se un determinato incarico non viene ricoperto dal plenum entro un mese dalla sua vacanza, decide entro una settimana un collegio ristretto composto dal Vicepresidente del Csm, il Presidente della Corte di Cassazione, il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione (che sono membri di diritto del Csm), e due componenti estratti a sorte,  uno tra gli eletti dai magistrati e uno tra  gli eletti dal Parlamento.

Si sta discutendo della riforma del sistema elettorale nella convinzione che è il meccanismo elettorale la causa di queste degenerazioni. E’ opportuno riformare il sistema elettorale. Ma occorre ricordare che il sistema elettorale per il Csm è stato cambiato per ben cinque volte negli ultimi  anni, senza scalfire le pratiche contrattuali. Occorre innanzitutto che ci sia una disponibilità della magistratura, che sinora non si è manifestata, ad abbandonare le antiche pratiche. La proposta sopra indicata può frenare le degenerazioni: ma in assenza di una spinta morale non può cancellarle del tutto.

Per la riforma del sistema elettorale si potrebbe stabilire con una legge costituzionale che dopo tre anni (nella mia idea la durata del Csm  dovrebbe essere portata dagli attuali quattro anni a sei, per stabilizzare le prassi e ridurre le pressioni degli elettorati) si sorteggia la metà dei componenti togati e la metà degli eletti dal Parlamento. I sorteggiati decadono e si procede a nuove elezioni. Non si rinnova l’organo, quindi, ma si rinnovano man mano i componenti che scadono, come per la Corte costituzionale. Con il tempo si giungerebbe ad eleggere due o tre componenti per volta, superando quindi il sistema delle liste plurinominali. Questo sistema inoltre avrebbe il vantaggio di superare la differenza di competenza iniziale tra togati, che sanno tutto del Csm, e laici, che non ne sanno nulla.

Sarebbe sbagliato accomunare in un giudizio negativo l’intera magistratura. Sarebbe ingiusto e produrrebbe l’effetto di una chiusura corporativa della quale già si intravedono i segnali. Occorre discutere di questi problemi e delle relative proposte con la magistratura, non contro la magistratura, mettendo in moto un processo di responsabilizzazione che ponga fine al correntismo amorale.

Alla Camera è in corso, davanti alla Commissione Affari costituzionali, l’esame di una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare sulla separazione delle carriere che in realtà va ben oltre quanto dichiarato dal titolo. Prevede due Consigli superiori, uno per i giudici e l’altro per i pubblici ministeri. Il numero dei componenti eletti dal Parlamento salirebbe da un terzo alla metà. I magistrati sarebbero non più eletti, ma “scelti con le modalità stabilite dalla legge”. Il Pubblico ministero non avrebbe più l’obbligo costituzionale dell’azione penale ma dovrebbe esercitarla ”nei casi e nei modi previsti dalla legge”. Avvocati e professori universitari ordinari in materie giuridiche potrebbero essere chiamati ad esercitare le funzioni di giudici non più solo in  Cassazione,  come oggi, ma a “tutti i livelli della magistratura giudicante”.

In sintesi spetterà alla maggioranza parlamentare – oggi gialloverde, domani di altri colori – stabilire come si scelgono i magistrati componenti dei due Csm, come si esercita l’azione penale (quali reati si perseguono e quali non si perseguono), come si stempera – attraverso l’immissione di avvocati e professori universitari – la presenza di giudici nei tribunali e nelle Corti d’appello.

Chi scrive, in un articolo del 1993 (in piena Tangentopoli), osservò, con riferimento al ruolo «governante» che in quella fase i diversi mezzi di informazione, pubblici e privati, attribuivano alla magistratura, che “nessuna società ha tollerato troppo a lungo un ‘governo dei giudici’, che ingessa la ricchezza dei rapporti sociali dentro parametri coercitivi alla lunga intollerabili per qualsiasi cittadino. Prima o dopo arriva una politica regolatrice che ridefinisce i rapporti tra i poteri dello Stato e le relazioni tra magistratura e cittadini” (L’Unità, 3 agosto 1993).

E’ arrivata quella politica regolatrice? Tutti coloro che hanno davvero a cuore l’indipendenza della magistratura e l’esercizio della funzione giurisdizionale come servizio per i cittadini e non per le transitorie maggioranze parlamentari, di qualunque colore, dovrebbero riflettere e impegnarsi. Perché i problemi che abbiamo davanti riguardano soprattutto i caratteri della nostra democrazia.