Da una disamina delle autorizzazioni a procedere del primo cinquantennio repubblicano, condotta sui materiali d’archivio, emerge la conferma di un’antica intuizione dell’elaborazione penalistica: la chiave per comprendere gli eventi che portano al processo non è tanto il fatto di reato (e neppure soltanto il dolo o la colpa), quanto la coscienza dell’offensività del fatto.
Il parlamentare che si levava dalla tavolata (di cinquanta convitati) ed usciva dal ristorante senza mettere mano al portafoglio, ma rivolgendo soltanto un cenno del capo al titolare, sapeva che non c’era bisogno di lasciare traccia alcuna del pactum sceleris che lo avrebbe condotto – un mese, un anno o un lustro dopo – a fargli dare l’appalto per le mense del comune. A dispetto di tutte le difese messe in campo più o meno fantasiosamente (la metropolitana di Milano non è un ente pubblico e quindi non c’è peculato), o più o meno fondatamente (la trattativa privata era modalità operativa preferita per tutta una serie di lavori pubblici in deroga, prima delle più stringenti misure di fonte europea), il capocommensale “sapeva” di stare violando una regola, e si comportava di conseguenza. Nessuna parola, nessuna traccia; nessuna traccia, nessun sinallagma; nessun sinallagma, nessun reato.
Il politico “scontrinista”, invece, è figlio del forcipe con cui è nata la cosiddetta seconda Repubblica; senza una rivolta d’Algeri, con la stessa Costituzione formale, con la mera sostituzione di una classe dirigente ad un’altra. Nessun pubblico lavacro, se non quello ipocrita con cui il vizio rende omaggio alla virtù. Nessun ripensamento del ruolo pubblico del rappresentante della volontà popolare; nessun riadeguamento delle istituzioni alla modalità operativa delle “amministrazioni trasparenti” (con una seria legge sulle lobby e con il massimo accesso agli atti di pubblico interesse).
Senza un De Gaulle, non c’è stato nemmeno un Debré che scrivesse la nuova Costituzione, ed un Duverger che sollecitasse su di essa il pubblico dibattito: un’opinione pubblica lasciata a se stessa per vent’anni ha oscillato tra un pauperismo bacchettone ed una tolleranza libertina verso i comportamenti del suo ceto politico. Ma, soprattutto, questo ceto si è dimostrato – in misura quasi imbarazzante – lacunoso proprio della “coscienza dell’offensività” dei fatti propri.
Plastica l’immagine di chi, mandato a chiamare dai magistrati, ha dichiarato che la spesa messa in carico all’ente di appartenenza – con l’esibizione del vituperato scontrino – “è stata accettata” dall’ufficio rimborsi e liquidata dalla ragioneria, e quindi è legittima: la lezioncina del sostituto procuratore di turno sulla differenza tra legittimità e liceità è solo l’ultima umiliazione per una professione che ha smarrito la sua anima.
Fare vuol dire accettare il rischio di sbagliare, e molto la prima Repubblica sbagliò; ma non fare significa ridursi a curare l’immagine, e questo, nella “società liquida” del terzo millennio, pare tradursi nel desiderio di mostrare le insegne del potere. Uno scontrino di otto euro e mezzo è un’affermazione di potere nei confronti dell’unico burocrate di palazzo comunale dinanzi al quale non si china il capo: il ragioniere. In un’epoca in cui mettersi in rotta di collisione contro un dirigente amministrativo può voler dire la vita o la morte di una giunta, l’esigenza di autoaffermazione si sfoga sugli interna corporis più innocui (almeno all’apparenza): paga e taci.
Il pactum sceleris richiedeva una comune convenienza al silenzio, a differenza della soperchieria fine a se stessa: basta pestare i calli a qualche potentato, e la corazzata mediatica mette un microfono davanti ad un ristoratore. Anche qui, tutto avviene senza sollecitare nessuna riflessione sul tipo di società che vogliamo: un surrogato della congregazione del flagellanti o una dignità pubblica la cui simbologia richiede una certa spesa. La scorciatoia, come sempre, ci porta davanti ai palazzi di Giustizia, umili e pensosi a chiedere una parola risolutiva ai nuovi sacerdoti della pubblica moralità.
Dopo la Corte dei conti e le giurisdizioni penali di merito, anche la Corte costituzionale (che sul punto ha tenuto udienza proprio il 6 settembre) ci dirà la sua sull’aulico discrimine tra scontrino lecito e scontrino illecito. Forse non si giungerà al livello di dettaglio del codex thereresianus del 1766, ma oramai il ricorso al metodo casistico è la modalità con cui il giurista se la cava, buttando il pallone in calcio d’angolo. Non stupirebbe, quindi, che tutta la spinta moralizzatrice da cui è nata la seconda Repubblica vada a ridursi – nella distinzione tra mutande verdi e sex toys – alla richiesta di una politica dalle tovaglie pulite.
Perché non ho votato per Marino lo ho scritto in questo blog il 7 maggio 2013. Perché invece Marino venne sostenuto dal Pd anche quando, in campagna elettorale, ostentava il suo profilo antipolitico non lo ho ancora capito. So bene, ovviamente, che si voleva lisciare il pelo all’elettorato di Grillo. Ma ho sempre nutrito dubbi sull’efficacia delle cure omeopatiche (anche se sono nato nello stesso paese di Tommaso Cigliano, che fu tra i fondatori dell’omeopatia in Italia). Mi auguro, quindi, che questa volta i dirigenti del Pd non ripetano l’errore, e che evitino anche di nascondersi dietro “primarie” organizzate da circoli sulla cui moralità politica hanno detto parole definitive Stefano Esposito e Matteo Orfini. E che ricordino, magari, che Odevaine e Bertolaso non erano collaboratori del sindaco Alemanno.
La vicenda di Ignazio Marino su un piano più superficiale non è dissimile da tante altre. Perché allora ci lascia quasi increduli, o almeno perplessi e turbati? Per certi versi essa ripropone passaggi e riti ai quali siamo avvezzi: versioni contrastanti, difficoltà a definire il “vecchio” e il “nuovo”, la dinamica del capro espiatorio, complicità e solitudine legate intimamente al potere. Eppure c’è dell’altro, dai contorni incerti e un tantino nebulosi. Si tratta di un unicum nella storia politica italiana o fenomeni del genere sono destinati a ripetersi? Quanto pesano, in questo e in altri casi, i meccanismi psicologici? Non sarà il carattere apparentemente “liquido” di tutto l’affaire a sottrarre efficacia alle consuete chiavi di lettura? E in definitiva: cos’è (divenuto) oggi il potere?
Altri dubbi, forse ancor più profondi, serpeggiano: torneremo a una qualche forma di normalità nel delineare e interpretare il quadro politico? La cosiddetta terza Repubblica ci restituirà delle lenti affidabili e a loro modo rassicuranti con le quali leggere i fatti? O quella che percepiamo come confusione diverrà un dato permanente? Arduo rispondere: le fasi di transizione sono per definizione disorientanti. Eppure con ogni probabilità non approderemo più in porti davvero sicuri, e col “perturbante” dovremo fare i conti ogni giorno.
Se proprio si vuole interpretare il caso Marino con categorie psicologiche, meglio rifarsi alla letteratura sull’ipertrofia dell’ego, meglio nota come narcisismo. Marino è il capro espiatorio di se stesso, cioè del moralismo che ha voluto cavalcare. Se invece lo si vuole interpretare con categorie politiche, meglio leggere l’articolo di Ernesto Galli della Loggia sul Corriere del 10 ottobre: non solo per l’esatta descrizione della società romana, ma per le altrettanto esatte osservazioni sul Pd: che nasce tanto “romano” da essere stato fondato da due degli ultimi quattro sindaci di Roma.