L’intervento introduttivo di Maurizio Martina alla Conferenza programmatica dem di Napoli induce senz’altro a ricordare e a riflettere. Come non scorgere, ad esempio, dietro l’esortazione a costruire un’alleanza tra diritti, libertà e protezioni, l’eco della proposta di un’alleanza riformatrice del merito e del bisogno emersa dalla Conferenza di Rimini del Psi dell’ormai lontano 1982? Ecco, occorre scongiurare due tentazioni: “dimenticare” il contributo politico-culturale delle forze di democrazia laica e socialista (come si diceva negli anni della prima Repubblica) e considerare il Pci semplicemente come la storia di un errore.
Martina, poi, parla di opportunità e di fragilità, riassumendo un po’ la condizione umana al di là del discorso politico in senso stretto, e mostrando di far propria la lezione di Amartya Sen sugli “agenti” e sui “pazienti morali”. Ora si tratta di tradurre in azione riformatrice quotidiana tale impostazione. A tal fine occorrono sia una leadership forte e capace di incidere, sia un gruppo dirigente autorevole in grado, insieme, di interpretare e ridestare il senso della “comunità politica” dei dem e del centrosinistra. E qui si pone un altro apparente paradosso: il Pd è nato, lungo il solco dell’Ulivo, come casa comune dei riformisti. Nel contempo, però, esso non riassume, per dir così, tutte le culture e le istanze riformatrici. L’obiettivo di dar vita a una più ampia alleanza di centrosinistra ha in ciò il suo fondamento. Non va visto come un espediente elettorale, bensì come un momento di quella capacità di ascolto e di condivisione evocata nel corso dell’esperienza del “treno del Pd”.
Oggi infatti da un lato si tende molto a semplificare il messaggio politico, dall’altro ogni cosa è pervasa dalla dimensione della complessità. Una complessità che va governata grazie a una varietà di sensibilità e di contributi. E qui Martina tocca un altro nervo scoperto: ammesso che abbia rappresentato nei decenni scorsi una chiave di lettura corretta, la dicotomia Stato-mercato oggi è superata. Mercato e Stato, come due facce della stessa medaglia, mostrano entrambi la loro inadeguatezza. E ciò dovrebbe spingere a un lavoro di ricerca autentica. Non basta rivolgere un fumoso appello a un’indistinta “società civile”: occorre individuare i soggetti sociali del cambiamento e far leva su di essi, includendoli in un discorso pubblico aperto. Non è facile, ma è necessario provarci.
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