Prima del secondo conflitto mondiale Keynes affermava che gli Stati autoritari dell’epoca risolvevano il problema della disoccupazione a spese dell’efficienza e della libertà. Keynes, tuttavia, era certo che il mondo non avrebbe tollerato a lungo la mancanza di libertà, ma anche che non avrebbe sopportato la “piaga” della disoccupazione, imputabile alle ingiustificabili forme dell’individualismo capitalista. Il grande economista di Cambridge era anche certo che, abbattute le dittature, una corretta soluzione del problema della disoccupazione sarebbe stato possibile trovarla conservando l’efficienza nelle libertà.
Dopo il secondo conflitto mondiale, però, l’organizzazione del mercato del lavoro ha subito un cambiamento nella modalità d’uso della forza lavoro, originando una diffusa e irreversibile disoccupazione o sottoccupazione strutturale che ha messo progressivamente in crisi il sistema di sicurezza sociale basato sul modello elaborato nel Regno Unito da Beveridge nel 1942. Questo sistema aveva tre funzioni: assicurare alla forza lavoro disoccupata la garanzia di un reddito corrisposto sotto forma di sussidi a fronte di contribuzioni assicurative; assicurare un reddito alle categorie sociali che, per qualsiasi motivo, abbisognassero di un’assistenza temporanea nella misura in cui esse non avessero diritto ad alcun sussidio; assicurare al sistema economico servizi regolativi e di supporto all’occupazione ed al risparmio attraverso la realizzazione delle condizioni che davano titolo a ricevere i sussidi. L’obiettivo fondamentale del Welfare State realizzato è stato sin dal suo inizio molto circoscritto e determinato; il sistema è però fallito a causa delle perdita della flessibilità del mercato del lavoro.
Il sistema di sicurezza sociale realizzato dopo il secondo conflitto mondiale era basato originariamente sulla premessa che l’economia operasse in corrispondenza del pieno impiego, o ad un livello molto prossimo al pieno impiego, cosicché le contribuzioni della forza lavoro bilanciassero le erogazioni previste in suo favore. Ma il sistema così come era stato concepito all’origine è divenuto largamente insufficiente rispetto all’evoluzione successiva della realtà economica e sociale, perché, per coprire le emergenze conseguenti all’aumentata complessità dei sistemi economici, il Welfare è stato progressivamente esteso, ed è così divenuto costoso ed inefficiente.
Il fallimento delle riforme e delle integrazioni cui il sistema di sicurezza sociale è stato sottoposto ha orientato l’analisi economica ad assumere che la sicurezza sociale dovesse avere principalmente lo scopo di assicurare una costante flessibilità del mercato del lavoro e non quella di compensare la crescente insicurezza reddituale delle forza lavoro. Il modo per rendere tra loro compatibili la flessibilità del mercato del lavoro e la sicurezza reddituale individuale da un lato, e l’efficienza del sistema economico dall’altro, è stato individuato nell’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza.
Questa forma di reddito dovrebbe essere corrisposta di diritto a ciascun cittadino sotto forma di trasferimento, indipendentemente da ogni considerazione riguardo ad età, sesso, stato lavorativo, stato coniugale, prova dei mezzi e funzionamento del sistema economico. Il suo fine ultimo dovrebbe essere quello di riconoscere ad ogni singolo soggetto, in quanto cittadino, il diritto ad uno standard minimo di vita in presenza di una giustizia sociale più condivisa; un sistema di sicurezza sociale fondato sull’erogazione del reddito di cittadinanza potrebbe raggiungere tale fine in termini più efficienti ed ugualitari di quanto non sia stato possibile con il sistema di sicurezza sociale tradizionale.
La maggior flessibilità del mercato del lavoro, coniugata con una maggior sicurezza ed una maggiore equità, consentirebbe ai singoli soggetti di scegliere tra un più alto reddito (maggior lavoro) e un più basso reddito (più tempo libero); la possibilità di esercitare questa scelta cambierebbe in positivo la percezione che le persone hanno della disoccupazione. Inoltre la coniugazione della flessibilità del mercato del lavoro con la sicurezza e l’equità favorirebbe la realizzazione di una maggiore uguaglianza dei lavoratori rispetto al sesso, il contenimento e la riduzione della diffusione della segmentazione della forza lavoro, e rinforzerebbe la propensione di molta forza lavoro disoccupata ad indirizzarsi verso lavori part-time, e di altri lavoratori specializzati di abbandonare i lavori full-time.
Ancora: un sistema di sicurezza sociale fondato sull’istituzionalizzazione del reddito di cittadinanza concorrerebbe a ridurre il bisogno di attuare programmi volti ad avviare attività improduttive per la creazione di un alto numero di posti di lavoro fittizi, in quanto la corresponsione di un reddito incondizionato rende più facile, per coloro che lo ricevono, decidere come impiegare il loro tempo libero fuori dal mercato del lavoro. Infine, l’erogazione del reddito di cittadinanza incoraggerebbe lo svolgimento di un’attività lavorativa per l’autosostentamento; quest’ultimo, comportando per la forza lavoro una minor propensione ad inserirsi sul mercato del lavoro, renderebbe possibile l’innalzamento della qualità e del gradimento del lavoro e quello del contributo della forza lavoro al miglioramento del benessere sociale.
Bisogna riconoscere che se è vero che nell’interpretazione liberista del liberalismo non sono mancati celebri pensatori, come Hayek e Friedman, che hanno sostenuto la desiderabilità di un “reddito universale garantito”, è altrettanto vero che alcuni altri, come Nozick e von Mises, hanno sempre criticato, inorriditi, la plausibilità e la desiderabilità della corresponsione universale di un reddito incondizionato. E’ solo con l’interpretazione repubblicana del liberalismo di pensatori come Rawls e Dworkin che le due libertà (libertà negativa e libertà positiva), proprie dell’interpretazione liberista del liberalismo, sono state coniugate con una terza libertà (quella dal bisogno) per garantire a tutti una totale autonomia di giudizio, il cui perseguimento ha costantemente allertato le preoccupazioni dei liberisti, di regola sempre propensi a svolgere il ruolo di “diga di contenimento” del riformismo, anche se condiviso, del repubblicanesimo.
Tuttavia, pur riconoscendo le differenze tra le proposte dei liberisti e quelle dei repubblicani, anche queste ultime , come le prime, implicano che la libertà dal bisogno e la giustizia distributiva siano sempre perseguite condizionandole al rispetto degli equilibri tra gli automatismi economici. La tesi di Rawls, infatti, secondo cui le disuguaglianze distributive sarebbero giustificate solo se contribuissero a fare aumentare il prodotto sociale sotto condizione che l’incremento vada a vantaggio dei più sfavoriti, è intrinsecamente limitata dalla necessità che il miglioramento “di chi sta peggio” avvenga sotto condizione che siano rispettate le leggi di mercato e dello stabile funzionamento del sistema economico orientato alla crescita.
Non si può regolare perciò l’introduzione del reddito di cittadinanza con qualche riforma dell’attuale sistema condizionato di garanzia sociale; esso può essere introdotto e regolato solo se sarà possibile rivoluzionare nel medio-lungo periodo il Welfare State esistente: finalizzando inoltre la “rivoluzione” anche al perseguimento di altri obiettivi, quali quelli connessi al controllo degli esiti negativi di una crescita continua attraverso l’individuazione di una “banda di contenimento” delle disuguaglianze distributive compresa tra il livello del reddito di cittadinanza inteso come reddito minimo per tutti e un “tetto massimo” per i salari più alti.
Non so se il reddito di cittadinanza, così come lo ripropone Sabattini, sia effettivamente praticabile. So però che l’attuale sistema di ammortizzatori sociali, forse insostenibile, è comunque iniquo. Non sarebbe il caso, prima di inseguire Latouche, procedere per gradi? Per esempio sostituendo la cassa integrazione con forme più universalistiche di sicurezza sociale, come sostenevano una volta i sindacalisti più lungimiranti?
Luigi Covatta, riguardo all’introduzione del reddito di cittadinanza, si chiede se esso, così come è inteso in letteratura, sia realmente praticabile senza seguire Latouche e se, in sua vece, non sia meglio un cambiamento degli attuali ammortizzatori sociali per realizzare forme più universalistiche di sicurezza sociale. Per tanti motivi, la logica che sottende il reddito di cittadinanza non può essere minimamente confrontata con la logica che sta alla base della politica di breve respiro finalizzata a tamponare ricorrentemente le iniquità distributive che il tradizionale welfare State continua ad approfondire nel tentativo di rimuoverle.
Certamente, il reddito di cittadinanza, così com’è proposto all’interno della linea di pensiero che lo ha elaborato dal punto di vista economico, e giustificato dal punto di vista sociologico, filosofico e giuridico, non può essere adottato “cassa fulminante”, con un atto normativo di una qualsivoglia maggioranza politica pro-tempore investita del governo del Paese; esso esprime un obiettivo di medio-lungo periodo, al quale dovrebbe conformarsi tutta l’azione politica diluita nel tempo e rivolta a stabilizzare il sistema economico e sociale, a rimuovere le iniquità distributive e a realizzare condizioni di supporto al funzionamento del mercato del lavoro, per supplire ed integrare la logica capitalistica che ha perso la capacità di garantire crescita ed occupazione in termini socialmente sostenibili. Senza inseguire Latouche, occorre però tener conto del fatto che il funzionamento dei moderni sistemi economici porta all’insorgenza di problemi (connessi appunto alla crescita, all’occupazione ed alla sostenibilità sociale) che le procedure tradizionali del welfare State, sia pure sorretto dalla lungimiranza dei sindacalisti, non sono più in grado di risolvere.
Il reddito di cittadinanza, oltre ad esprimere un obiettivo di politica economica e sociale, esprime anche una prospettiva di azione politica la cui percorribilità, senza evocare soluzioni utopistiche rivoluzionarie, può essere sperimentata solo se si riesce a supportarla, come afferma Pierluigi Ciocca in una recente relazione svolta ad un convegno organizzato da “Iniziativa socialista”, con un pensiero che sia una sintesi della tradizione interventista tracciata da John Maynard Keynes, per il controllo dell’instabilità del funzionamento del sistema economico, da Amartya Sen e John Rawls, per la rimozione delle disuguaglianze distributive e da William Nordhaus ed Herman Daly, per contrastare o impedire il degrado ambientale. Sintesi, questa, che deve giustificare un’azione politica da compiersi senza traumi rivoluzionari e senza “ricette conviviali” à la Latouche.
Le preoccupazioni che Covatta adombra nel suo commento riguardano un aspetto importante del reddito di cittadinanza: il suo finanziamento. Nel periodo di transizione utile al raggiungimento dell’obiettivo finale, le risorse devono essere trovate, non solo attraverso la riforma degli attuali ammortizzatori sociali, ma anche attraverso una riforma “ab imis” del welfare State tradizionale. Questa riforma complessiva, considerate le forze politiche in campo oggi ed i molti vincoli esterni esistenti, è naturale sia percepita difficile a compiersi; difficoltà, questa, che giustifica fondatamente la previsione che l’introduzione del reddito di cittadinanza possa essere reso possibile, non tanto attraverso l’istituzionalizzazione “tout court” dei “principi teorici” che giustificano il suo accoglimento perché sia posto alla base di un nuovo sistema di sicurezza sociale, quanto attraverso un’azione politica attuata nel tempo per approssimazioni successive, perché risulti adattata senza traumi alla realtà del sistema sociale. Al riguardo, va tenuto presente che la letteratura sul come finanziare il reddito di cittadinanza è cospicua e che alla sua formazione hanno contribuito economisti di grande prestigio. Allo stato attuale della discussione, si può tuttavia concordare con chi sostiene che il problema merita ulteriori approfondimenti; ad esso su questo Blog potrebbero essere dedicate riflessioni ulteriori che è possibile supporre che lo stesso Luigi Covatta possa condividere.
In conclusione, occorre riconoscere che l’attenuazione di tutti i motivi di perplessità che saranno sollevati dall’introduzione del reddito di cittadinanza dipenderanno, non solo dalla buona volontà e dalla lungimiranza di sindacalisti, ma anche e soprattutto dalle idee metaeconomiche che potranno nascere solo dal modo nuovo in cui dovranno intrecciarsi le riflessioni riguardanti l’attività politica, le istituzioni e la cultura (inclusa in quest’ultima l’economia), perché sia individuata la via da percorrere per realizzare un’organizzazione del sistema sociale che sappia smentire, sia le posizioni “filistee” dei liberisti, che quelle “draconiane e naïf” dei rivoluzionari utopisti di ogni tipo, incluso tra questi Serge Latouche.
Le idee metaeconomiche non implicano il rifiuto della logica capitalistica, ma solo la sua correzione perché sia condivisa all’interno di una sistema sociale animato da essere umani che godano del diritto di essere liberati dal bisogno sin dalla nascita, senza più la necessità della lungimiranza dei sindacalisti; essendo tale diritto un diritto naturale e, in quanto tale, garantito in un sistema democratico alla stessa stregua in cui è garantita la libertà in tutte le sue dimensioni (libertà di, libertà da e libertà di autonomo giudizio su tutto). Non è questo un buon viatico per chi spera di poter ritrovarsi a vivere in una sistema sociale costruito sui valori da sempre professati dal socialismo democratico?