L’uscita del libro di Aldo Agosti (Il Partito provvisorio. Storia del Psiup nel lungo Sessantotto italiano, Laterza, 2013) sulla storia del Psiup del tutto casualmente fa da pendant al libro di Giuseppe Bedeschi (La Prima Repubblica, 1946-1993. Storia di una democrazia difficile, Rubbettino, 2013). E’ un paradosso, ma i paradossi non sarebbero tali se non contenessero una certa dose di verità. La nascita del Psiup è di molto posteriore alla fine del centrismo degasperiano, ma allo stesso modo sancisce la fine della possibilità della sua sostituzione con un altro modello di sviluppo, quello del centro-sinistra riformatore. La scissione del Psiup indebolì il Psi più di quanto percepì chi decise di rimanere: anzi, molti di loro, si illusero che liberandosi della zavorra “carrista” il partito più unito sarebbe stato più forte. Il punto era che ad indebolire il Psi fu soprattutto la perdita di quadri, ben 130.000, che in un partito ancora morandiano nella struttura organizzativa fu una ferita a morte.
Importante fu anche l’indebolimento parlamentare, perché i 24 deputati ed i 10 senatori costituirono gruppi autonomi in Parlamento, strumento di potere e cassa di risonanza politica. Sempre ragionando per paradossi, il socialismo come forza centrale per la costruzione di una sinistra italiana su modello europeo avrebbe potuto sopravvivere se il centro-sinistra avesse mantenuto le promesse riformatrici sul piano economico e sociale dei suoi inizi, ovvero se la scissione fosse stata ancora più ampia e avesse coinvolto tutti i settori critici del Psi in misura tale da mettere in minoranza nel Psiup i “carristi” (uso questa espressione per comodità polemica e perché mi ringiovanisce di quasi 50 anni).
Già allora le motivazioni per le quali aderirono Lelio Basso, Vittorio Foa , Raniero Panzieri (nel ’58 erano uscite le sue Tesi sul controllo operaio in collaborazione con Lucio Libertini), ma anche Giuliano Amato, poco avevano a che vedere con quelle di Vecchietti e Valori. Se in quel partito fossero entrati tutti gli esponenti della sinistra propriamente detta, come Bertoldi o Balzamo (per non parlare di Lombardi e Codignola), la storia sarebbe stata diversa, perché avrebbe garantito un’autonomia rispetto al settore maggioritario e continuista del Pci, che da quella scissione trasse l’errata convinzione che non dovesse affrontare il processo revisionista con anticipo rispetto ai tempi dettati dalla crisi del comunismo sovietico, come invece è avvenuto.
L’indebolimento del Psi consentì alla Dc di riprendere l’iniziativa politica e di sostituire un disegno riformatore della società con un semplice rafforzamento della sua centralità, obiettivo che accomunava tutte le sue componenti, compresa la sinistra: la più ostile ad un rafforzamento della componente socialista per varie ragioni, tra le quali il suo integralismo, che invece sarebbe stato maggiormente rispettato dai comunisti. Sul piano economico e sociale la nazionalizzazione dell’energia elettrica del 1962 e lo Statuto dei Lavoratori del 1970 testimoniano le potenzialità del centro-sinistra riformatore, che per svilupparsi avevano bisogno di un diverso assetto politico, cioè di una sinistra più forte ed unita e di un movimento sindacale libero da ipoteche di partito. Invece il Psi fu indebolito, ed è tragico dover constatare che lo Statuto dei lavoratori soltanto in questi tempi è considerato una conquista irrinunciabile, mentre allora fu osteggiato dal Pci e da settori della Cgil che appoggiarono persino un referendum abrogativo parziale dell’art. 19. La nazionalizzazione dell’energia elettrica non fu al servizio di un disegno di politica industriale, ma la creazione di un centro di potere e corruzione, con la creazione di un’aristocrazia operaia e impiegatizia, nella quale la Cisl aveva uno dei suoi punti di forza, ma che beneficiava un po’ tutti, come del resto il consociativismo al suo apogeo in quegli anni. Un equilibrio di conservazione, il cui peso si sente ancora oggi.
La stagnazione politica ebbe come sottoprodotti gli anni di piombo che fiaccarono ulteriormente la sinistra, obbligandola ad una solidarietà nazionale nella quale la giusta risposta alla violenza terrorista si pagò anche come repressione sociale. Per giungere ad una conclusione, la sinistra italiana di ispirazione socialista non è rimasta debole in Italia per la presenza di un più forte ed organizzato movimento comunista (la stessa situazione c’era in Francia e nella Spagna del franchismo), ma per la presenza di una forte Dc, con componenti di sinistra e per la presenza del Vaticano. In Francia il Mrp si sciolse nel 1967 e in Spagna le prime elezioni politiche dimostrarono l’inconsistenza di un ipotesi bipolare all’italiana con una forte Dc e un forte partito comunista: Joaquìn Ruiz Giménez e Santiago Carrillo furono spazzati da Adolfo Suarez al centro e da Felipe Gonzalez a sinistra. Alla costruzione del Ps di Epinay contribuì una componente cristiano-sociale con il cattolico Jacques Delors, e in Spagna alla formazione del Psoe Gregorio Peces-Barba, altrettanto cattolico: due esempi che dimostrano che anche in paesi latini la contaminazione è possibile e positiva, e non solo nei paesi del Nord Europa protestante. In Italia le premesse si erano create in due occasioni andate sprecate: con l’Acpol di Livio Labor nel Psi, e coi Cristiano-sociali nei Ds.
Dove la sinistra è rappresentata da un partito socialdemocratico la democrazia cristiana è la rappresentante del polo conservatore e i cristiano sociali sono parte integrante della sinistra. Solo in Italia la componente politica della sinistra cristiana si oppone ad ogni compromissione con il socialismo europeo, e con questo condiziona il Pd. Da qui lo stallo di ogni governo di progresso e di un’evoluzione della sinistra italiana verso il socialismo europeo, che va di pari passo con le tradizioni anticlericali del socialismo italiano. Nel mancato incontro tra socialismo e cristianesimo sociale diamo a ciascuno la sua parte di responsabilità.