Sul Fatto quotidiano di sabato Giangiacomo Migone, già senatore del Pds, si fa intervistare per aggiungere il suo pacato dissenso a quello stentoreo dei dissidenti in carica. Teme l’avvento di un “Parlamento di baciapantofole”, sostiene che per l’immagine dell’Italia è più dannoso Berlusconi del bicameralismo perfetto, e nel motivare il suo rifiuto dell’elezione di secondo grado del nuovo Senato ricorda: “Io sono stato eletto tre volte con un sistema di collegio e quello che mi dava più autorevolezza era proprio il mandato dal basso”.
Mi è venuto in mente che anch’io, come lui, al Senato “sono stato eletto tre volte con un sistema di collegio”. Un’altra volta ero stato eletto alla Camera, col sistema delle preferenze. Ma, appena compiuti i quarant’anni, i dirigenti del mio partito decisero di mettermi in salvo in un sicuro collegio senatoriale. Per cui si può dire che sia io (nel mio piccolo iscritto fin da giovane alla Direzione del partito) che lui, indipendente di sinistra, venimmo “paracadutati”, se non proprio “nominati”.
Non è quindi il caso di enfatizzare troppo la nostra (remota) legittimazione “popolare”. Così come non è il caso di eccepire troppo sulla legittimazione dei parlamentari in carica. “Nominati”, del resto, sono anche i senatori ora pronti a procombere a difesa dello status quo istituzionale: alcuni, anzi, sono “nominati” due volte, come quelli di Sel, eletti col premio di maggioranza conseguente ad un patto di coalizione prontamente violato il giorno dopo le elezioni.
Si può semmai eccepire sul metodo con cui si sta discutendo una riforma costituzionale inusualmente proposta dal governo. A condizione, però, di non aggiungere all’articolo 138 quel comma 22 per il quale la revisione della Costituzione non può essere sottratta alla competenza del Parlamento, ma il Parlamento in carica, in quanto composto da “nominati”, non è abilitato a rivedere la Costituzione. Perciò, da parte mia, ho sempre sostenuto che la via maestra per la riforma della Costituzione è l’elezione di un’Assemblea costituente; e peraltro, insieme con i (pochi) altri che la pensavano come me, sono sempre stato subissato di contumelie da parte dei guardiani dell’articolo 138.
Quanto al merito, almeno noi senatori del secolo scorso dovremmo avere l’onestà intellettuale di riconoscere che da trent’anni ci si sciacqua la bocca con la necessità di correggere il bicameralismo perfetto e di costituire un “Senato delle regioni”, senza avere mai trovato il modo di specificare di che cosa si trattasse: ed ora che al quesito lo sventurato Renzi ha risposto, è troppo facile fare il tiro al piccione su di lui e sulla ministra Boschi.
Infine, la legge elettorale. Devo essere io a difendere quel sistema maggioritario che vent’anni fa venne imposto a furor di popolo anche grazie al sostegno di molti opinionisti che ora ricadono nella sindrome del “complesso del tiranno”? E devo essere io a ricordare che le radiose giornate che segnarono la fine della prima Repubblica cominciarono con un referendum contro il sistema delle preferenze? Senza dire che fu proprio quella legge elettorale (probabilmente per eterogenesi dei fini, sicuramente perché consentiva alleanze multiple) a favorire l’ascesa di Berlusconi, che a quanto vedo resta la magnifica ossessione di Migone.
Vae victis, e va bene. Ma a nessun vinto può essere imposta la pena suppletiva di dover richiamare i vincitori a restare coerenti con le ragioni della loro vittoria, e a non cambiare di spalla al proprio fucile secondo contingenza e convenienza.