Tante espressioni del lessico politico si ripropongono a distanza di decenni. Unità socialista era il nome delle liste promosse nel 1948 da Giuseppe Saragat, con il contributo ad esempio di ex azionisti. E Alternativa democratica, con la quale la mia generazione identifica la linea del Pci dopo l’esaurirsi della “solidarietà nazionale”, era il nome della mozione di Lelio Basso al congresso di Napoli del Psi del 1958.
Lo ricorda Silvano Andriani in un pezzo assai interessante pubblicato ieri su l’Unità.
Dinanzi alla visione positiva dell’anomalia italiana, per la quale un grande partito comunista e un grande partito cattolico avrebbero potuto realizzare in Italia equilibri “più avanzati” rispetto alle altre realtà occidentali, proprio personalità come Basso e una rivista quale Problemi del socialismo ne offrivano una opposta: solo il superamento dell’anomalia, “attraverso una divisione della Dc e un’evoluzione” in senso socialista del Pci, “avrebbe consentito un’alternanza delle forze politiche al governo”.
La traduzione concreta di tali atteggiamenti fu complessa e tortuosa, e il nostro resta un paese sui generis. Ma, conclude Andriani, in definitiva “c’è chi pensa che per cambiare l’Italia bisogna essere tutti d’accordo e quelli che invece ritengono che la parte innovatrice debba prevalere su quella conservatrice”. Con una clausola, certo: la grande coalizione si realizza “se nessuno degli schieramenti in campo ottiene la maggioranza”. Come è accaduto, aggiungo io, con le ultime elezioni politiche.
E un approccio consociativo, purtroppo, da noi vige anche all’interno dei partiti. Ogni volta, in un modo o nell’altro, si elude un confronto vero, per l’appunto, fra innovatori e conservatori. Con il rischio dello stallo e, specie a sinistra, della subalternità.