Almeno su una cosa Matteo Renzi ha indubbiamente ragione: la sinistra che rifiuta il cambiamento si trasforma in qualcosa di diverso, muta le proprie caratteristiche genetiche, disperde il patrimonio culturale acquisito. Una sinistra che non sa decrittare i processi di modernizzazione, che non sa leggere gli input della società cui pretende di offrire rappresentanza, che non riesce a metabolizzare lo spirito dei tempi, finisce, presto o tardi, col trasformarsi in un blocco monolitico e conservatore, retrivo se non addirittura sordo e reazionario. Che poi il cambiamento auspicabile sia quello delineato dal sindaco fiorentino, è cosa da dimostrare.
La querelle sul tesseramento ha posto in risalto il problema identitario del Pd. Le logoranti discussioni sulle modalità elettive nelle primarie per il segretario, l’assurdo dibattito sugli aventi diritto, le cifre gonfiate ad arte nelle iscrizioni mostrano come all’interno del partito non vi sia alcuna chiarezza sulla struttura organizzativa da tenere in piedi. E, si badi, non è una questione di forma: un partito che non sa scegliere la propria collocazione europea e che non distingue la forma liquida berlusconiana dal radicamento capillare delle macro-strutture è un partito in difficoltà, privo di una visione d’insieme della società e del ruolo che le forze sociali devono svolgere in seno ad essa.
La crisi economica e finanziaria impone ai movimenti di massa dell’Unione europea di ripensare le forme di partecipazione all’insegna di una militanza consapevole, onde evitare l’affermazione di forze populiste che già nel secolo passato hanno alimentato confusioni ed aporie, nel mito dell’alba dorata.
Questa funzione di mediazione attiva viene oggi ignorata dal Partito democratico, sostanzialmente inerte di fronte al cambiamento e capace esclusivamente di farsi carico dei problemi giudiziari del fu Cavaliere. In questa disastrosa dicotomia politica la sinistra annaspa e finisce marginalizzata, proprio mentre il Pdl – in virtù del contrasto tra governativi e lealisti – scopre quella pluralità dialettica che gli consente di assumere l’onere della tesi, dell’antitesi e della sintesi. L’Esecutivo Letta perde terreno, tira a campare per non tirare le cuoia, finisce in balìa dei potentati di turno, siano essi gli investitori europei timorosi del rischio default e determinati (giustamente) ad imporre misure draconiane di austerità correttiva, siano essi gli alleati italiani, impegnati in una singolare ma prevedibile guerra fratricida.
E proprio allo scontro fra Romolo e Remo la sinistra demanda la definizione di una tattica alternativa. A seconda dell’affermazione dell’una o dell’altra corrente della destra, il Pd promette di reagire nel solco della prudenza adamantina. Ma è questo il compito di una forza popolare e progressista? Ancorarsi ad un dibattito esterno annullando ogni approccio policentrico e progettuale?