Il lavoro è molto cambiato negli ultimi 20 anni ed il cambiamento ha coinvolto quasi tutta la popolazione lavorativa del nostro paese. Il cambiamento è stato molto profondo al punto che oggi è quasi impossibile trovare un mestiere, una professione o semplicemente un posto di lavoro che sia identico a com’era vent’anni fa. E quei pochi che sono identici sono una sorta di reperto archeologico. Piccole e grandi modifiche ci sono state dappertutto ed hanno riguardato sia il contenuto del lavoro, sia le macchine e gli strumenti, sia soprattutto le relazioni interpersonali, la socialità e la cultura. Ma l’attenzione che il paese ha dedicato a questi cambiamenti sembra essere inversamente proporzionale alla loro profondità. Sui grandi mezzi di comunicazione c’è stata una sorta di rimozione del problema del lavoro che cambia. Il lavoro reale e i lavoratori in carne e ossa sono quasi scomparsi dalla televisione, sostituiti dai ruoli di successo nel mondo virtuale: i presentatori, gli attori e i divi televisivi, i calciatori, le modelle e le veline e così via.
Anche il dibattito specialistico tra gli addetti ai lavori (ricercatori, attori sociali, politici) si è concentrato sui fenomeni emergenti e sui casi di attualità piuttosto che su una interpretazione profonda del cambiamento. La discussione, anche in occasione delle grandi riforme legislative del mercato del lavoro che hanno punteggiato gli ultimi due decenni, si sono concentrate su alcune grandi categorie interpretative ricorrenti: le più note sono il precariato, il post-fordismo e la riforma del welfare.
Questi temi sono però solo la punta dell’iceberg e riportano ai fenomeni emergenti più evidenti. Da un punto di vista concettuale questi approcci assomigliano molto a categorie “negative”, nel senso che non ci aiutano a interpretare il nuovo, ma ci segnalano che cosa non c’è più. Non ci dicono che cosa c’è di nuovo, ma che cosa non c’è più del vecchio. Ad esempio la categoria della precarietà ci dice che il lavoro più nuovo, soprattutto dei giovani, è sempre meno “sicuro” rispetto a prima e ha meno continuità di quello del periodo precedente, ma ci dice poco sui perché di questo fenomeno, su come dobbiamo interpretarlo e soprattutto su come possiamo regolarlo e “umanizzarlo”. Anche nella categoria del post-fordismo prevale la negazione: il lavoro di oggi non presenta più le caratteristiche di standardizzazione, semplicità e subordinazione al capo di quello dell’epoca fordista.
E invece la crisi attuale sta riportando alla ribalta i lavoratori reali e l’esigenza di capire che cos’è il lavoro con categorie nuove. Esse ci aiuteranno a trovare sia la soluzione ai tanti problemi quotidiani dei luoghi di lavoro, che toccano le imprese e i sindacati, sia la strada per un nuovo patto sociale adatto a questa epoca storica.
Le idee guida di questa rubrica sono due.
In primo luogo capire le forme complesse del cambiamento e le lunghe catene che lo causano, cercando di trovare categorie interpretative moderne e adeguate ai problemi di oggi. Ad esempio quale è il nuovo contenuto intellettuale e relazionale del lavoro e cosa implica, oppure quale rapporto si sviluppa tra le scelte di mercato “mondializzato” delle imprese e le reti professionali e sociali che si creano tra i lavoratori.
In secondo luogo discutere sui sistemi di regolazione e di tutela del lavoro più adatte all’epoca che stiamo vivendo. Ad esempio quali sono gli aspetti più critici per le persone e per le imprese, e quali le forme più efficaci e adatte di umanizzazione del lavoro oggi.