E in compenso di questo abisso di ignominia e di autosputacchiamento del socialismo davanti al mondo, di questa perversione della coscienza socialista delle masse operaie – unica base che possa garantirci la vittoria- ci si presentano a suon di tromba progetti di riforme miserabili, così miserabili che si è potuto ottenere di più dai governi borghesi.
Lenin, Che fare?

I. Illegittimità.

I risultati elettorali di oggi sono in continuità con l’esperienza del governo Monti. Esperienza che ha segnato il definitivo collasso non tanto del “soggetto partito politico”, quanto, più profondamente, del meccanismo di legittimazione fondamentale dell’ordinamento costituzionale repubblicano.  Ossia il rapporto tra partito politico e Parlamento, legittimazione dell’Assemblea e del sistema rappresentativo. A partire almeno dal 1948 in Italia il potere parlamentare (l’Assemblea) ha trovato la propria fonte di legittimità nel soggetto costituzionale “partito”, “titolare della sovranità”.
Quanto è avvenuto a partire dalla nomina di Monti a Presidente del Consiglio corrisponde all’ascesa del MoVimento 5 Stelle. Con Grillo, una forza antiparlamentare è, oggi, all’interno del Parlamento, e primo partito in Italia. La debolezza delle altre forze politiche – e soprattutto la delegittimazione dell’Assemblea – fanno pensare che sia inverosimile un suo “addomesticamento”. Rispetto all’antiparlamentarismo di sinistra, inoltre, quello del MoVimento 5 Stelle è reazionario, intrinsecamente “fascista” nel senso di «illegittimista». Il fascismo ha essenzialmente una  «forza negativa», reattiva, che funziona a partire dal vuoto creato da altri, dalla debolezza degli altri: è la forza che sostituisce l’assenza di legittimità (Ortega y Gasset). Ciò significa che non crea – ne è nel suo interesse farlo – alcuna nuova forma di legittimità: non aspira ad essere legittimo, ma ad acuire l’illegittimità degli altri, delle loro istituzioni, della loro debolezza. Il MoVimento 5 Stelle non è entrato in Parlamento per legittimarsi, ma per portare a compimento il processo di delegittimazione del potere parlamentare.
I deputati e senatori di Grillo sono all’interno del Parlamento per uno scopo preciso: bloccarne il funzionamento, proseguire e portare a compimento la delegittimazione dell’Assemblea. Per questa ragione il MoVimento 5 Stelle ha bisogno di nuovo elezioni, il prima possibile. Occorre valutare la situazione concreta. L’unica contromossa possibile, in questo momento, è costringerlo a rimanere in Parlamento, al lavoro assembleare, per più lungo tempo possibile. Solo così i partiti potranno tentare di frenarne l’ascesa attuale. “Bloccarlo” in Parlamento è l’unica soluzione. Il che significa, però, che Pdl e Pd dovranno trovare un’intesa per un Governo politico stabile, che possa proseguire per una legislatura intera. Non è inverosimile: sarebbe sufficiente un accordo su un programma minimo e la convergenza su un leader forte, popolare (forse Renzi?). Ad ogni modo, non ci sono, al momento, altre soluzioni. Una coalizione “neutrale”, tecnica, formata al solo scopo di riformare la legge elettorale sarebbe, per contro un errore. Di essa potrebbe approfittare soltanto il MoVimento 5 Stelle. Se si tornasse a votare da qui ai prossimi 6-8 mesi, Pd e Pdl sarebbero definitivamente sconfitti. Per loro – peraltro – l’attuale legge elettorale resta la più conveniente, la meno pericolosa. Oggi, dopo la sconfitta del Pd, una riforma in senso maggioritario della legge elettorale ed il successivo scioglimento anticipato delle Camere per il voto non potrebbe essere auspicato né dalla Sinistra né dal Centrodestra: entrambi rischierebbero di scendere al di sotto del 25%, e di consegnare a Grillo la maggioranza di Camera e Senato.

II. Autosputacchiamento.

Da un punto di vista teorico, e più ampio, si impone una riflessione interna alle forze di sinistra. Occorre articolare il dato storico e politico essenziale implicato nella sconfitta della sinistra democratica.
C’è bisogno di una chiarificazione definitiva. Dopo la fine del Pci la politica della sinistra democratica si è fondata sulla separazione di quelle che Veltroni definì, nel 1996, le «due anime, una ideologica e una governativa», sostenendo la necessità di «rompere con questa sinistra radicale per guadagnare credibilità come forza governante». Nell’Agenda Italia 2000 si precisava: «Vogliamo assumerci in pieno, insomma, la responsabilità che ci deriva dall’essere partito di governo, partito del riformismo possibile».
Questi due “scarti” essenziali – il passaggio dall’opposizione a “partito di governo” e dall’ “ideologia” al riformismo – sono stati resi possibili a partire da una scelta “tattica” precisa, nel corso del 1992-1993, da parte del gruppo dirigente allora facente capo a D’Alema e Veltroni: rifiutare l’ «unità socialista» e lasciare che la magistratura liquidasse il PSI. Ogni anno che passa, il Partito Democratico paga le conseguenze di questa scelta. Quelle scelte non segnano soltanto la fine del socialismo italiano, ma anche l’errore storico e teorico della sinistra democratica. La trasformazione della socialdemocrazia da «partito di rivoluzione sociale» in «partito democratico di riforme sociali» è avvenuta attraverso la rottura con quella che Veltroni chiamava “ideologia”. Rottura che implicava la tesi secondo cui alla socialdemocrazia non servano «teorie», «ideologie», ma soltanto il «riformismo» (ora – e concedo a Bobbio l’intuizione, datata 1985,  – dove tutti sono riformisti, nessuno è riformista).  Il Partito democratico ha creduto di poter diventare «partito di governo» sulla base di un programma di «riformismo di sinistra». Ha evitato, così, il problema fondamentale: quello di pensare a fondo che la maggioranza degli italiani è intimamente reazionaria, qualunquista, antiparlamentare. Formula magica: affermare la fine del marxismo renderà false le analisi marxiste sull’Italia e gli italiani (come se essi smettessero, d’un tratto, d’essere il «popolo più analfabeta, la borghesia più ignorante d’Europa»). Corrispondente contraccolpo nella realtà: la sinistra cancella la parola «comunista»,  gli italiani diventano «anticomunisti» (non lo erano mai stati, fino al 1989).
Queste elezioni, per il Pd, hanno indicato definitivamente il fallimento della sua linea politica “riformista” e “di governo”. Non posso riprendere, in questa sede, le riflessioni già svolte su questa rivista circa la necessità di definire la sinistra a partire dal concetto di «rivoluzione». Posso soltanto limitarmi a constatare che la sconfitta della sinistra democratica è anzitutto la sconfitta di una linea politica che è stata definita a partire dalle scelte della sua classe dirigente negli anni 1989-1994, e che si è compiuta, con il 1996, nell’idea che il “riformismo socialdemocratico” potesse garantire alla Sinistra di divenire «partito di governo» nel senso di «partito di maggioranza parlamentare».
Si impone una riflessione, radicale. Fare della sinistra una forza politicamente di avanguardia. Condannare l’esperienza “riformista”, con tutto ciò che ha comportato: il moralismo politico, lo “spontaneismo” della società civile e della sinistra di Vendola (con i suoi nuovi moralismi: ambientalismo, “diritti” degli omosessuali, delle donne, della famiglia, dei lavoratori, e così via), i nipotini di Padre Bresciani (gli “intellettuali” del Pd, intimamente reazionari e gesuitici), l’ottimismo progressista e liberale. Ossia il sogno inconfessato del Partito democratico, unica condizione per essere “partito di governo”: diventare una forza liberale di centrodestra (questo è il senso dell’antiberlusconismo degli ultimi vent’anni: il fastidio per il fatto che un Centrodestra, nel paese, c’era già).