Che i salmi che hanno accompagnato l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica finissero in gloria era prevedibile. Ma solo Eugenio Scalfari poteva far finire in gloria anche tutta la complessa storia dell’Italia repubblicana . Solo il suo superego bulimico, cioè, poteva fare un sol boccone della Repubblica dei partiti solidi e di quella dei partiti liquidi, rivelandoci – sulla Repubblica del 1° febbraio – che Berlinguer perseguiva nient’altro che il socialismo liberale, e che Moro era d’accordo con lui.
Da modesti cultori della materia, in verità, noi non ce ne eravamo mai accorti. Ma forse eravamo distratti dalla lezione di Norberto Bobbio sulle aporie della “terza via”, dai caveat di Massimo L. Salvadori sulla teoria gramsciana dell’egemonia, dalle riflessioni di Giuliano Amato sulle condizioni politiche e istituzionali di una democrazia dell’alternanza, perfino dagli articoli di Bettino Craxi sul socialismo pre marxista. Perdevamo tempo, quando invece l’obiettivo era a portata di mano se solo avessimo imboccato la strada del “governo degli onesti” o ci fossimo uniti al coro delle prefiche che accompagnarono alla tomba Aldo Moro, inconsapevole (e renitente) vittima sacrificale del connubio fra Giustizia e Libertà.
Scalfari ora vorrebbe una bacchetta magica per trasformare il Pd in “un partito d’Azione di massa”. Ma già nel 1983 aveva provato a trasformare la Dc di De Mita in “un partito repubblicano di massa”, come osservò uno sferzante Carlo Donat Cattin dopo l’infelice esito di una campagna elettorale condotta sotto il peso dell’endorsement scalfariano. Stia quindi attento Renzi. E se proprio vuole – come secondo noi dovrebbe – avvicinarsi al socialismo liberale, scelga mentori più attendibili del fondatore di Repubblica.