I recenti episodi di terrorismo mettono a dura prova principi e convinzioni su cui si fonda la nostra civiltà. Al di là delle retoriche sulla difesa della nostra way of life, stiamo reagendo con relativa souplesse a misure che limitano la nostra libertà personale, e addirittura a revisioni costituzionali che dilatano a dismisura la sospensione delle garanzie democratiche. D’altra parte presso l’opinione pubblica sembrano venir meno i principi di tolleranza e di solidarietà che pure fanno parte della nostra identità culturale, come dimostrano diversi episodi di xenofobia ed il diffuso rifiuto di concedere asilo a profughi provenienti da zone di guerra e da regimi dispotici.

Indubbiamente le caratteristiche peculiari dell’attacco in corso favoriscono questa regressione. Sotto attacco, infatti, è l’insieme dei nostri valori: la libertà di pensiero e di espressione, l’uguaglianza degli esseri umani, la separazione fra politica e religione, la stessa dimensione della statualità. Per cui è comprensibile che quanti vogliono resistere alla tentazione di dar vita ad una “guerra di civiltà” ben più drastica di quella a cui tempo fa alludeva Huntington ripieghino su una certa flessibilità nella difesa, se non degli immortali princìpi, di alcune loro applicazioni normative (nonché delle garanzie procedurali ad esse connesse, come dimostrano le polemiche in corso su alcune sentenze della magistratura).

L’Occidente ha già combattuto, e per giunta al proprio interno, una “guerra di civiltà” nella prima metà del secolo scorso. Da essa è uscito con una vittoria militare, ma anche con quel tentativo di sanzione giuridica che fu il processo di Norimberga. In quel caso, tuttavia, la frattura culturale fra vincitori e vinti (e fra giudicanti e giudicati) era meno radicale di quanto non sia oggi Ora invece l’evanescente statualità del nemico – che già a Norimberga aveva in qualche modo costituito il fondamento giuridico del processo – sembra autorizzare l’inapplicazione non solo dello ius belli, ma anche delle procedure proprie dello Stato di diritto (lungo la deriva inaugurata da Bush col Patriot Act).

A questa robusta manomissione dei diritti politici e dello stesso diritto internazionale fa però paradossalmente riscontro, in Occidente, una sempre più radicale rivendicazione di diritti individuali, specialmente in campi finora scarsamente normati: i comportamenti sessuali, le biotecnologie, e perfino l’accesso ai nuovi mezzi di comunicazione, per i quali si pretende una assoluta franchigia nel momento stesso in cui si è disponibili all’introduzione di regole restrittive della libertà di espressione dei mezzi di comunicazione tradizionali.

Da questo paradosso derivano due conseguenze, entrambe pericolose. Innanzitutto si rischia di incentivare anche in Occidente una regressione dalla dimensione della statualità, per lasciare il passo ad un esasperato individualismo che dà luogo anche alla sempre più diffusa diserzione dalla partecipazione politica, con tutto quello che ne consegue riguardo alla qualità democratica delle nostre società. In secondo luogo si rende ancora più impervia la strada dell’integrazione fra culture diverse, che pure è inevitabile nel contesto globale in cui siamo irreversibilmente collocati. Se infatti è possibile (e giusto) pretendere da chiunque il rispetto di alcuni standard della nostra civiltà (per esempio la parità fra i sessi, la laicità dello Stato e della giurisdizione, la libertà d’espressione), impossibile è chiedere lo stesso rispetto per l’ideologia gender o per  forme esasperate di individualismo.

Sembra quindi matura una riflessione generale sulla teoria dei diritti e sui limiti ai quali è ormai necessario parametrarla: superando  diatribe inconcludenti come quelle sul multiculturalismo (sempre più palesemente inadeguate ad orientarci per fronteggiare la sfida che ci viene portata), ma anche derive iperlibertarie altrettanto inadeguate a difendere i cardini della nostra civiltà.