Per chi come me ha la tessera ad honorem dell’Associazione dei Partigiani d’Italia, il 25 aprile 2016 è stato un giorno ambivalente. Un giorno di festa, in nome dei valori di libertà, giustizia e democrazia: ma anche di tristezza per la drammatica crisi di questi valori in Italia, che vede in prima linea, purtroppo, un partito che dovrebbe essere l’erede di due importanti tradizioni politiche, quella del comunismo italiano e della sinistra cattolica, e che aderisce alla grande famiglia del socialismo europeo. D’altronde il premier e segretario del partito democratico Renzi è volato ad Hannover al G5, non prendendo parte alle celebrazioni della Festa della Liberazione.
Che tristezza passare dal modello di “democrazia progressiva” di Togliatti, dal “socialismo nella libertà”, sia pure espresso con posizioni politiche diverse da Nenni, Basso e Saragat, dal keynesismo del partito d’azione di Parri e La Malfa, dal “Piano del lavoro” di Di Vittorio al “Clan della Banca Etruria”.
Ma ciò che più ferisce è la sicumera tribunizia con cui è stata approvata la “deformadella Costituzione repubblicana nata dalla Resistenza. A ben vedere l’attacco controriformatore (un tempo si sarebbe detto della “destra reazionaria”) ha radici antiche, quelle del tentativo di mettere in connessione la cancellazione della legge elettorale proporzionale con il superamento del modello costituzionale parlamentare.
A parte la riproposizione in versione soft del corporativismo da parte dei neofascisti del Msi sotto forma di “rappresentanza organica delle categorie”,
l’attacco alla Costituzione partì subito. Già il 2 agosto 1952 Guido Gonella, all’epoca segretario della Democrazia cristiana, chiese di “rafforzare l’autorità dello Stato”, eliminando le “disfunzioni della vita dello Stato che possono avere la loro radice nella stessa Costituzione”, e concludendo che “la Costituzione non è il Corano”: sembra di ascoltare Renzi (e Berlusconi…).
Qualche mese dopo, venne presentato il progetto di legge elettorale (scritto da Scelba e dall’ex-fascista Tesauro, rettore a Napoli e parlamentare democristiano) passato alla storia come “legge truffa”,  imposta, contro l’ostruzionismo parlamentare da un colpo di mano del presidente del Senato Meuccio Ruini, con gli strali di Sandro Pertini(“Lei non è un presidente, è una carogna!”). Com’è noto la legge fu bocciata dagli elettori, poiché il 7 giugno 1953 non scattò il premio di maggioranza previsto per i partiti “apparentati” (Dc e laici).
Quella sconfitta elettorale bloccò i tentativi di indebolire il Parlamento a favore dell’esecutivo, anche se non mancarono iniziative “presidenzialiste”: come quella del repubblicano, mazziniano e antifascista Randolfo Pacciardi con il suo movimento di ispirazione gollista “Nuova Repubblica” fondato nel 1964, del socialdemocratico Ferri nel 1971 e del liberale Edgardo Sogno con i propositi di “golpe bianco” nel 1974 in funzione anticomunista: sino alle esternazioni e alle “picconate” cossighiane.
Iniziative discutibili e alcune gravi, ma legate alla logica di Yalta e alla temperie ideologica del tempo, fondate su convinzioni ideali e non viziate da logiche di potere e dal pressapochismo di chi oggi sembra l’Apprendista stregone che gioca con le istituzioni democratiche.
Ben diverso era l’obiettivo politico della proposta di “Grande riforma” costituzionale di Bettino Craxi, che non voleva mettere in discussione il parlamentarismo, ma aprire la strada ad una prospettiva mitterrandiana di alternativa di sinistra a guida socialista.
Ai giorni nostri la riforma costituzionale, gradita ai potentati economici (la Fiat di Marchionne in primo luogo), in combinato disposto con la legge elettorale ultramaggioritaria (modello “legge-Acerbo” con cui Mussolini costruì il regime totalitario), ha come obiettivo un esecutivo “forte” che continui lo smantellamento della nostra democrazia sociale: come avrebbe detto Pietro Nenni “forte con i deboli, debole con i forti”.
Si tratta di una tendenza, purtroppo, sposata dalla sinistra all’indomani della crisi della prima Repubblica, con il varo del Mattarellum prima e l’accettazione sostanziale del Porcellum, e con lo stesso scarso contrasto al plebiscitarismo berlusconiano con la versione presidenzialista del premierato di Piero Fassino; nonché su politiche economiche di tipo liberistico, basate sull’ingresso nell’Unione monetaria europea, le privatizzazioni e l’austerity by frau Merkel.
Si, perché la Costituzione del 1948 ha sempre dato fastidio ai “liberali alle vongole” del nostro paese, secondo la bella e caustica battuta di un liberale di sinistra come Vittorio De Caprariis: fondamentalmente per i precetti in materia sociale introdotti dall’art.1 (“L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”). Dall’uguaglianza sostanziale di cui al comma 2 dell’art. 3, alla prevalenza dell’”utilità sociale” rispetto al diritto di proprietà (articoli 41 e 42), il vero obiettivo appare la cesura tra diritti politici, confinati nel semplice diritto al voto (in versione ridotta) e diritti sociali, da affidare al legislatore ordinario, per potere meglio e più agevolmente ridurli, come è avvenuto con il Jobs Act e la fine dell’articolo 18 dello  Statuto dei lavoratori.
La coniugazione di libertà e giustizia era già nei principi generali della Costituzione della prima Repubblica francese (1793): “La libertà ha la sua regola nella giustizia”. Ed è stata poi introdotta nelle costituzioni italiana, francese della IV Repubblica e tedesca – sorte dopo la fine del predominio nazi-fascista sull’Europa.
La cancellazione della parte “sociale” della Costituzione (la parte “eversiva, per dirla con Piero Calamandrei) è, alla fine, l’obiettivo vero della “deforma” renziana. Al fondo c’è la “mutazione genetica” della sinistra e il crollo del socialismo nelle sue varie declinazioni. Ma la lotta dovrà ripartire.