Will Hutton, Presidente dell’inglese Big Innovation Centre e vicino al Labour Party, in un articolo apparso su “Reset.it” si chiede dove stia andando la sinistra europea, col preciso intento di indicargli un possibile percorso per contribuire a “costruire un capitalismo buono”. L’analisi che Hutton compie sulle trasformazioni genetiche che il capitalismo attuale ha subito rispetto all’origine coglie nel segno, ma la terapia che propone lascia qualche dubbio e molti motivi di perplessità.
Il capitalismo, secondo Hutton, deriva la sua legittimazione dal fatto di rappresentare la miglior soluzione finora concepita per organizzare un sistema sociale e la sua economia, in modo tale da consentire di poter vivere un’esistenza degna di essere vissuta al maggior numero di persone. A partire dal 2008, tuttavia, il capitalismo ha incominciato a “disintegrarsi”, per via del fatto che le istituzioni finanziarie si sono sovrapposte a quelle reali per alimentare un “boom” di consumi finanziati in presenza di crescenti disuguaglianze.
La crisi ora si manifesta a più livelli: a livello intellettuale, economico e morale. La componente intellettuale risiede nel radicamento dell’idea che il capitalismo ed i liberi mercati possano “gestire il rischio esistenziale in piena autonomia”. Quella economica deriva dalla propensione a sovrainvestire nella produzione di beni e servizi il cui consumo è stato finanziato con un’espansione illimitata del credito del quale è venuto meno il mercato, a fronte di un eccesso di indebitamento privato. La componente morale infine risiede nel fatto che troppi imprenditori, motivati unicamente dalla ricerca del profitto, hanno perso di vista la loro responsabilità sociale.
Di fronte alla crisi dilagante e perdurante, lo Stato appare incapace di proporre interventi correttivi, nonostante che leader politici, economici e intellettuali di ogni orientamento discutano della possibilità di un nuovo paradigma organizzativo del sistema sociale per fare emergere nuove modalità di gestione del sistema economico.
Per Hutton, il capitalismo, che affonda le sue radici su due tradizioni, il protestantesimo individualistico della Riforma e l’affermazione illuministica della rilevanza sociale ed economica della “sfera pubblica”, negli ultimi trent’anni, con la globalizzazione delle economie nazionali, ha smarrito la sua dimensione illuministica per l’esaltazione sacrale dell’individualismo. In conseguenza di ciò, si è consolidata una cultura politica ed economica che considera prioritaria la creazione di condizioni che favoriscano l’autonomia manageriale e la massimizzazione del valore per gli azionisti, a scapito della salvaguardia del valore sociale del sistema delle imprese. In questo modo, le organizzazioni imprenditoriali hanno perso la capacità di mettere gli individui nella condizione di dare un senso al proprio lavoro; ciò perché hanno smarrito il modo di esprimere valori e finalità in cui i lavoratori possano identificarsi.
Oggi, le imprese, per Hutton, dovrebbero riconquistare il loro antico ruolo di organizzazioni responsabili, per contribuire a proporre nuove regole del gioco, in modo tale da promuovere l’equità, la coesione sociale, il benessere e la sostenibilità del funzionamento del sistema economico nel lungo periodo. Per perseguire tali obiettivi occorrono leader politici ed economici che abbiano piena consapevolezza delle proprie responsabilità nei confronti dell’intero sistema sociale e che sappiano ricuperare l’istanza illuministica della funzione regolatoria della “sfera pubblica”.
I leader hanno davanti a sé alcune sfide ineludibili, nel senso che devono innanzitutto garantire lo svolgimento di un’attività lavorativa ricca di senso e costruttiva; in secondo luogo, devono rispondere con decisione alla forte e diffusa domanda di equità nella distribuzione del prodotto sociale per rimuovere gli squilibri nei rapporti intersoggettivi all’interno dei luoghi del lavoro; in terzo luogo, devono garantire un più alto grado di interdipendenza tra organizzazioni politiche ed economiche, provvedendo nel contempo a salvaguardare la competizione tra le imprese. Si tratta di sfide che richiedono risposte sorrette da un robusto slancio di altruismo, di empatia e di bontà da parte soprattutto degli imprenditori. Perché, conclude Hutton, il “capitalismo buono” non è una condizione dotata di nesso solo con la crescita e il superamento della crisi in atto; è anche il requisito fondamentale per il rilancio del successo imprenditoriale e della sua legittimazione presso l’intera società civile.
La proposta di Hutton non è altro che una mistificazione, in quanto presume che il capitalismo post-fordista possa autocorreggersi, pensando che improvvisamente i suoi protagonisti da “diavoli”, quali essi sono, possano trasformarsi, perché folgorati da un profondo senso di colpa per ciò che hanno concorso a determinare, in “angeli”. Con questo assunto significa però mettersi fuori dal mondo. In realtà, per il ricupero di un equilibrato funzionamento dei sistemi economici in crisi, occorrono appropriate politiche pubbliche con le quali i leader politici, autenticamente riformisti e legittimati dal consenso della maggior parte della società civile, riescano a realizzare, nel lungo termine, riforme strutturali. In assenza di queste non sarà possibile ricuperare il ruolo e la funzione della sfera pubblica, in quanto mancherebbe la possibilità d’imbrigliare l’arroganza dei “turbocapitalisti” in funzione del rispetto anche degli interessi collettivi. Solo in questo modo è plausibile pensare di poter costruire un “capitalismo buono”, non come graziosa concessione di organizzazioni imprenditoriali che hanno perso il senso della loro “mission” sociale, ma come realizzazione sociale di una nuova organizzazione della società e della sua economia per realizzare un futuro migliore del mondo attuale, prima che i suoi rudi costruttori finiscano di distruggerlo, in nome di una crescita senza limiti e regole per una presunta civiltà del benessere nascosta dietro la “foglia di fico” del mito dell’efficienza.