Ero un adolescente quando lessi sull’inserto economico del quotidiano la Repubblica che “il capitalismo vive di crisi”. L’editorialista ricordava il carattere ciclico delle fasi di espansione e di recessione economica, citando ovviamente il ’29.
Ci si può interrogare sui costi umani di tutto ciò e sulla possibilità di contenerli. Anzi: ripensare e riformare il modello sociale europeo, in maniera da recuperarne e rilanciarne lo spirito e i principi, dovrebbe rappresentare la vera sfida per la sinistra.
Dinanzi, comunque, a ciò che accade nel resto dell’Occidente, viene da chiedersi: in Italia stiamo attraversando la crisi o piuttosto le crisi? Di più: crisi, anche in medicina, è parola che allude a due possibilità, la risoluzione o l’exitus. Si tratta cioè di un concetto per sua natura ancipite. Il nostro paese sembra conoscere piuttosto l’impasse e la paralisi, da anni. È come se galleggiassimo su acque stagnanti, e la metafora della putrefazione rende bene il quadro. Se altrove affiorano delle spinte alla ripresa, da noi ciò che si agita assomiglia più a tic, a conati, a singhiozzi. Restiamo fermi, pur muovendoci. Un po’ come la vite.
Senza troppo concedere alle agenzie di rating, la tripla A agli Usa simboleggia una realtà reattiva, pur nella crisi. E proprio in coincidenza della bancarotta di Detroit, vera icona dell’America e del capitale.
In Italia da decenni ogni fermento resta come strozzato, ogni tentativo di innestare un’altra mentalità e un altro stile va incontro a frustrazione, generando una delusione diffusa. Non sono mancati nei decenni segnali, certo confusi, della volontà di cambiare registro, ma sempre sono stati mortificati. E che dire ora dell’aspra polemica fra Enrico Letta e Matteo Renzi? Come potrà venir interpretata dai cittadini?
Si parlava anni addietro dell’egemonia culturale della sinistra nella nostra penisola. Oggi egemone è piuttosto una sorta di conservatorismo corporativo, col quale un paese sfibrato e senza fiducia prova a sopravvivere.