Dilagano i commenti ai risultati elettorali. Generalmente vanno in soccorso dei vincitori (compresi quelli degli sconfitti). Tutti comunque sono accurati, e molti condivisibili. Inutile quindi aggiungersi al coro. Più utile, forse, tentare qualche esile contrappunto.
Nell’autunno del 1993 i ballottaggi li vinse la sinistra, e diventarono sindaci Rutelli, Bassolino, Cacciari, Castellani, Bianco, Orlando. Occhetto ne trasse auspici favorevoli per il successo della sua gioiosa macchina da guerra, e  finì come finì: un caveat indirizzato a quanti già vedono Di Maio a palazzo Chigi.
Un altro caveat potrebbe riguardare quanti scrutano alla maniera di Lombroso i tratti somatici degli  homines novi che occuperanno le stanze del Campidoglio e di Palazzo Civico. E’ già successo, e proprio in seguito all’errore di valutazione di Occhetto: quando nel 1994 Berlusconi riempì le aule parlamentari di pubblicitari, manager e avvocati d’affari (per i penalisti ci sarebbe stato tempo), mentre Bossi le riempiva di attacchini.
Del resto Ezio Mauro, sulla Repubblica di ieri, invita Renzi a “non rottamare la storia”. E questa è storia. Il caveat, comunque, non può non essere condiviso da chi, come noi, ha fatto rivivere un’antica testata e proprio in questi giorni distribuisce un numero monografico che purtroppo rischia di essere l’unico a celebrare adeguatamente il 70° della Repubblica.
Un caveat, però, che non può essere rivolto solo a Renzi. La storia, come Mauro sa benissimo, è stata già rottamata un quarto di secolo fa: ed è stata rottamata innanzitutto da quanti oggi lamentano l’abbandono delle vecchie bandiere, ed allora pensarono di liberarsi della storia del Pci accodandosi ad una “carovana” che non si sapeva da dove veniva e dove andava.
Dopo la storia, la geografia: quella urbana, almeno, usata a piene mani per denunciare la sconfitta della sinistra nelle periferie “operaie”, definizione comunque discutibile, perché molto approssimativa in epoca postfordista. Ma anche prendendola per buona come metafora di tradizionali insediamenti sociali, essa induce a formulare un altro caveat. Sono almeno vent’anni che a Mirafiori vince la destra (per non parlare della marcia dei quarantamila che nel 1980 pose fine alla deriva operaista del Pci d’allora). Mentre alle periferie romane (mai state “operaie”) ci pensavano Buzzi e Odevaine, sputtanando due simboli (le cooperative e i Comuni) del primo riformismo socialista.
Infine un caveat a quanti stanno rovistando nelle librerie per ripescare qualche copia delle opere di Rousseau. Siamo sicuri che la democrazia diretta sia il sistema più adatto a governare società complesse ed interdipendenti? Che per esempio il referendum sulla Brexit, comunque finisca, sia il mezzo più efficace per decidere del futuro di una nazione e di un continente? E che Churchill abbia avuto torto nel coartare la “volontà generale” quando promise al suo popolo lacrime e sangue? O non è che, lasciando al popolo il diritto di decidere direttamente sui parchi giochi e sulla raccolta differenziata, si lascia campo libero alle corporations ed alle burocrazie per governare tutto il resto?