Sul n. 3/2014 del “Mulino” Carlo D’Adda torna su una sua vecchia tesi, ovvero che senza crescita l’Italia molto difficilmente riuscirà ad uscire dalla recessione che attualmente l’attanaglia. Le dichiarazioni ottimistiche dell’attuale squadra di governo, per importanti che siano, non saranno sufficienti a portare il paese fuori dal tunnel della crisi: “Se le prospettive sul futuro non migliorano e la domanda non si risveglia l’economia difficilmente ripartirà”, a meno che l’attuale governo non trovi il modo, fino ad ora mai tentato, di “finanziare a debito spese (produttive) immediate”.
A tal fine occorrerà chiedere all’Europa di compiere, nell’interesse di tutti i paesi che la compongono (in particolare di quelli afflitti da disavanzi pubblici strutturali, come ad esempio l’Italia), uno scatto di razionalità e di buon senso, per consentire di gestire i disavanzi “al netto dei debiti contratti a scopo produttivo”; in altre parole, per finanziare investimenti con i quali lo Stato acquisisca “attività finanziarie che possiedono un prezzo di mercato”, quali potrebbero essere, ad esempio, quelle utili alla realizzazione di progetti di ammodernamento di tutte le infrastrutture delle quali il paese ha bisogno per aumentare la competitività del proprio sistema produttivo.
Non si tratterebbe, osserva D’Adda, di una “regola” eccezionale, se si considera che di norma, quando valutano il “rischio cliente”, le banche non controllano solo la sua esposizione debitoria, ma considerano ancora più responsabilmente la qualità e la natura dei suoi attivi patrimoniali. L’applicazione di questa regola ai paesi europei non avrebbe nulla di rivoluzionario: soprattutto per quelli fra essi che maggiormente stanno subendo gli esiti negativi della crisi, fornirebbe strumenti e opportunità per realizzare gli interventi da sempre auspicati dai paesi cosiddetti “virtuosi” (Germania in testa), ma anche per sostenere la domanda aggregata, e conseguentemente la promozione della crescita.
Tra gli investimenti pubblici finanziati a debito potrebbero figurare, secondo D’Adda, anche i titoli rappresentativi dei capitali conferiti dallo Stato al sistema delle banche ordinarie per la loro ricapitalizzazione: una più adeguata dotazione di mezzi propri permetterebbe alle banche di indirizzare i loro impieghi verso l’economia reale, che con la crisi (ma non solo a causa di essa) ha risentito dell’effetto negativo del “credit crunch”. Ovviamente, secondo D’Adda, la ricapitalizzazione dovrebbe essere vincolata al sostegno dell’economia reale, onde evitare che la maggiore disponibilità di risorse prenda la via della sottoscrizione di titoli del debito pubblico, come è accaduto nel recente passato.
A parte il problema del reperimento delle risorse necessarie per finanziare l’attuazione delle riforme utili al rilancio della crescita, occorre che sin d’ora le forze politiche si convincano della necessità che dopo il superamento della crisi, posto che sia reso possibile, dovranno essere adottati nuovi obiettivi di politica economica, volti in particolare ad aumentare la competitività del sistema-paese; in funzione di ciò dovrà essere migliorata la produttività, sino a portarla ai livelli di quella dei Paesi europei più forti.
Inoltre dovrà essere ridotto l’indebitamento pubblico, in quanto un sistema economico altamente indebitato e gravato da un pesante “indicatore di rischio” (espresso dall’alto rapporto debito pubblico/Pil) non potrà mai riprendere efficacemente a crescere. L’aumento della competitività e la riduzione del debito dovranno essere orientati all’attuazione di una politica industriale in grado di modificare la “composizione settoriale della domanda complessiva”, oggi eccessivamente squilibrata a vantaggio della produzione di beni e servizi a basso valore aggiunto. Ciò renderà necessaria la chiusura di comparti produttivi poco competitivi, collocati soprattutto nel settore pubblico; ma, si può aggiungere, sarà anche necessario superare le difficoltà connesse alla presenza di un eccesso di attività produttive caratterizzate da una limitata dimensione, ereditata da un passato che ha assunto come dogma irrinunciabile la ridotta dimensione delle imprese.
I nuovi obiettivi di politica economica dovranno essere perseguiti nella consapevolezza che l’Italia non può imputare all’euro tutte le difficoltà del presente: infatti, osserva D’Adda, non è colpa dell’euro se l’Italia ha adottato la moneta comune malgrado la sua eccessiva posizione debitoria verso l’estero; tuttavia, senza indulgere in continue lamentazioni, occorrerà ottenere dall’Europa che l’Italia possa disporre di una “maggiore flessibilità del bilancio pubblico” sino al superamento della crisi: perché, finchè l’economia nazionale sarà in recessione e il Pil continuerà – se non a decrescere – ad aumentare in misura quasi trascurabile, la spending-review sarà causa del contenuto incremento del Pil e con esso del mancato rilancio della crescita. Il circolo perverso nel quale è incastrata l’economia nazionale è di per sé evidente.
Finchè l’Italia rimarrà prigioniera della logica negativa che caratterizza la sua sopravvivenza, è estremamente improbabile, secondo D’Adda, che essa possa trarsi dall’immobilismo in cui versa; il perdurare della recessione, però, potrebbe costituire il presupposto consolatorio di una sicura ripresa, se si ipotizza che le imprese italiane accessibili a “buon mercato” potrebbero essere acquistate da “imprenditori ricchi e capaci del Nord Europa”; questi potrebbero pretendere dalla nostra classe politica quelle riforme che essa “dice di volere, ma che forse detesta”. Tale possibilità, per quanto realistica, non è condivisa da D’Adda, e per il bene del paese egli spera non abbia a realizzarsi.
Si possono comprendere le perplessità sull’eventualità che l’Italia, dopo aver rinunciato alla propria sovranità monetaria e all’impiego dei propri tradizionali strumenti con cui ha sempre sostenuto la capacità di esportazione delle sue imprese, perda anche il controllo della proprietà di parti consistenti della propria base produttiva. Ma dopo la chiara manifestazione dell’incapacità della classe politica a realizzare le riforme minime attese (legge elettorale e snellimento delle strutture burocratiche), l’unica speranza di affrontare seriamente una politica riformista secondo le linee auspicate non può che dipendere dal fatto che “veri” imprenditori esteri siano interessati a fare shopping sul mercato della attività produttive italiane. Essi potrebbero portare una ventata di imprenditorialità schumpeteriana in un paese come il nostro, incartato in un insopportabile immobilismo, con una classe politica che manca di idee e una classe imprenditoriale prevalentemente impegnata a catturare rendite, anziché a produrre profitti.
Se gli imprenditori esteri, con la loro azione, riuscissero a premere sulla classe politica italiana per indurla a compiere tutte le riforme che autonomamente l’imprenditorialità italiana non riesce ad ottenere, essi svolgerebbero il ruolo proprio degli “imprenditori istituzionali”: ovvero quel ruolo particolare che gli imprenditori esteri hanno svolto in Cina allorché il governo, per convertirsi all’economia di mercato, ha “affidato” ad essi il compito di creare le condizioni perché fossero introdotte quelle riforme istituzionali che di per sé esso non riusciva ad introdurre. Stando allo spettacolo cui la nostra classe politica ci costringe ad assistere, c’è proprio da augurarsi che quanto prima ciò possa avvenire.