Non sono fra i sostenitori più entusiasti della nuova legge elettorale. E per dirla tutta, non sono neanche fra i fedelissimi del maggioritario. Quando avevo ruolo per farlo, proposi di adottare il sistema tedesco, ma De Mita e Occhetto preferirono la legge Mattarella, senza neanche valutare il varco che essa apriva alle alleanze multiple, come quella che aiutò Berlusconi a vincere le elezioni del 1994.
Debbo però confessare che, se gli argomenti della Boschi non sempre mi convincono, quelli dei suoi oppositori bastano e avanzano a farmi fare il tifo per l’Italicum.
Non mi riferisco solo agli oppositori di palazzo: quelli che votano contro una legge già da loro approvata nell’altro ramo del Parlamento (monocameralismo praecox?), quelli goticheggianti col lutto al braccio e il crisantemo all’occhiello, o quelli che hanno abboccato all’amo di Renzi per certificare la propria irrilevanza e le proprie divisioni. Le manovre parlamentari hanno sempre una logica che trascende quella aristotelica.
Mi riferisco invece alle opposizioni più paludate. Per esempio a quella che manifesta sul Corriere di oggi un illustre costituzionalista. Per Michele Ainis “l’Italicum determina l’elezione diretta del premier”, e così introduce “una grande riforma della Costituzione”, ma “lo fa con legge ordinaria anziché con legge costituzionale”. C’è da chiedersi dove fosse Ainis quando il nome del candidato premier doveva essere indicato nelle schede elettorali, e dove fosse, soprattutto, quando, un quarto di secolo fa, cominciò la manipolazione sistematica delle leggi elettorali. Senza dire che non fu il bicameralismo paritario a consentire a Scalfaro di nominare Dini, a Ciampi di nominare D’Alema ed Amato, e a Napolitano di nominare Monti, Letta e Renzi. E che non fu per carenza di check and balances che Ciampi non rinviò alle Camere la legge Calderoli.