Ha certo ragione Gianni Santamaria (su Avvenire di domenica 4 ottobre) a paventare «un clima più complessivo nel quale i due episodi, giunti “casualmente” a 24 ore di distanza l’uno dall’altro alla vigilia di un evento tanto atteso come il sinodo sulla famiglia, si inseriscono». I due episodi sono il teologo polacco che fa outing e Bergoglio che incontra un ex alunno e il suo compagno con famiglia al seguito, mentre oggi si attende il sinodo sulla famiglia. È sul clima che purtroppo non c’è chiarezza, anche se le virgolette poste ai margini della parola “casualmente”, danno qualche indicazione. Perché le due letture che possiamo dare sono: o un clima storico complessivo che rende esplosive situazioni che prima non lo sarebbero state (come per esempio quella di Roma: per decenni i romani hanno abbozzato, ora che c’è Marino lo incolpano del fatto che Roma è simile a una città del Sudamerica svantaggiato). Oppure un clima mediatico in cui esistono trappole e strategie difensive.

Il fatto che il cronista metta le virgolette fa pensare che il clima a cui allude non sia storico. E in effetti, proprio sotto, c’è una lapidaria intervista a monsignor Cozzoli. Diciamo che l’impaginazione delle due pagine del Corriere della sera di sabato 3 ottobre messe sotto accusa danno l’idea di essere abbinate con malizia: tutta pagina 18 è occupata dall’intervista al teologo Krysztof Olaf Charamsa, mentre pagina 19 è divisa fra l’annuncio del sinodo e l’articolo su Bergoglio e l’ex alunno gay. Ma anche la pagina dell’ Avvenire domenicale da la stessa impressione: pagina 7 è divisa in un articolo sul sinodo (a firma Gianni Cardinale), l’articolo di Gianni Santamaria e l’intervista al monsignore. Parliamo ancora di un clima storico o di un clima mediatico?

Al di là di questo, concentriamoci un momento sulle simpatiche dichiarazioni di Cozzoli. Parte dicendo che «sorprende che un ministro ordinato della chiesa, il quale ben ne conosce la teologia, la tradizione e il magistero, riduca a scoop mediatico un problema abbastanza complesso e degno di intelligente attenzione come quello dell’orientamento e della relazione omosessuale»: e rilancia individuandovi un «intento dichiaratamente provocatorio». Abbiamo qui una prima dose dell’abituale scontro fra istituzioni di potere e spinte popolari dal basso: le prime parlano di indebite esibizioni e le seconde rivendicano il proprio diritto a “squarciare il velo di silenzio”.

È chiaro che all’istituzione fa comodo gestire i tempi con cui si presentano i problemi. Ma purtroppo i tempi delle istituzioni sono sempre notevolmente più lunghi di quelli umani, e quelli chiesastici massimamente se non sono in ballo i denari (ricordiamo con che velocità la Chiesa si è adeguata alle regole bancarie per uscire dalla blacklist europea e tornare alla verginità economica). In questo non c’è nulla di male, di regola: anzi, è normale che ognuno voglia fare le cose secondo le tempistiche che gli fanno comodo. Peccato che Cozzoli non si fermi qui. Accusa Charamsa di «presunzione» perché «contrappone un suo magistero al magistero della Chiesa, facendolo valere come la verità all’altezza dei tempi»; inoltre «egli sa bene di cavalcare l’onda mediatica paladina della liberalizzazione dell’amore, ridotto a sentimento e orientamento soggettivo».

Qui sono gli impliciti a valere: se Charamsa non può effettivamente raccogliere nel suo punto di vista la verità complessiva dei tempi, ciò non vuol dire che la Chiesa lo faccia, anzi. Dunque, per essere misericordiosi, ammettiamo che implicitamente qui Cozzoli fa autocritica. Oppure, se non la sta facendo – come pare, dato che accusa Charamsa di cavalcare l’onda mediatica – è evidentemente in malafede, perché sa (e sarebbe strano che non lo sapesse) che senza attualizzazione soggettiva il concetto trascendente dell’amore non ha nessuna valenza: è come il concetto dell’eternità, di cui l’uomo non ha nessuna esperienza, ma che intuisce dal fatto che il tempo scorre. Deduce cioè dalle varie posizioni temporali l’esistenza di un Tempo assoluto trascendente che le contiene (Dio come “eterno presente”). Ma compito della Chiesa sarebbe appunto mediare fra le istanze soggettivizzanti e la verità trascendente (che purtroppo non è a disposizione di altri se non di Dio, che coincide con essa) affinché risultino armoniche.

«L’attenzione [al tema dell’omosessualità] non è affatto assente nella Chiesa, specialmente nella ricerca teologica e nella mediazione pastorale, delle quali è espressione autorevole il confronto sinodale in atto», continua Cozzoli, tacciando di «colpevole ignoranza e voluta e asserita interferenza» le dichiarazioni del teologo polacco. Peccato che l’intervistatore (dal cognome meno suggestivo di Cardinale e Santamaria: Gambassi) non domandi quali sono stati i risultati di tutto questo interrogarsi, sennò probabilmente scopriremmo che il “chi sono io per giudicare” di Bergoglio è una mera trovata populista, giacché nel pratico si raccomanda agli omosessuali l’astinenza.

Certo, è una trovata geniale questa. La si potrebbe anche applicare nel campo della sicurezza stradale: per non fare incidenti basta non guidare, inutile cercare metodi per ridurli: anzi, perché non abolire direttamente la viabilità? Qui la Chiesa si sottrae (populisticamente ed effettualmente) alla questione: chi sono io per giudicare se è nato così, l’importante è che la sua natura non trovi mai applicazione. In tal caso la parola di Dio e l’attualizzazione fenomenica vanno su due binari differenti: il capostazione abdica alla sua funzione mediatrice e palesa la propria superfluità.

Ma Gambassi non si fa scoraggiare e fa la domanda-madre: «E l’omosessualità nel clero?». Questa domanda è molto colpevole, ma per ingenuità. È come chiedere a un medico cosa c’è da dire sulle malattie che colpiscono altri medici: qual è lo scopo? Se la teniamo in questi termini, ovviamente, non ha scopo. Diventa invece chiaro quale esso sia se il termine di paragone cambia. “E la corruzione nelle istituzioni dello Stato?” è il vero bilanciamento: la domanda esprime ansia per il “problema” nel gruppo sociale che dovrebbe risolverlo. Peccato che questo problema non richieda soluzione perché non l’ha, non essendo realmente un problema. Dunque porre quella domanda serve a creare artificialmente un problema a cui Cozzoli può fornire una risposta artificiale: si stupisce infatti non della dichiarazione in sé, ma del «carattere rivendicativo della stessa, elevata a “bandiera” della causa omosessuale. In fondo non è un problema un prete omosessuale. Vi sono (conosco anzi) dei preti omosessuali che non hanno bisogno (come tanti omosessuali peraltro) di esibire la propria omosessualità perché serenamente riconciliati con essa. Preti che vivono con libertà la propria verginità».

Innanzitutto, a livello elementare, sorprende che questa perorazione della discrezione arrivi da una persona che indossa una divisa per palesare la propria identità, e che «conosce» omosessuali che non fanno problemi, come se ciò contribuisse a screditare il turbolento Charamsa. A un livello più sofisticato, c’è da osservare che la rivendicazione è parte integrante del dibattito: altrimenti non si capisce che senso abbiano le rivendicazioni sull’obiezione di coscienza da garantire ai medici pagati dallo Stato laico italiano. Non ci sarebbe da rivendicarla, ma solo da attendere pazientemente che lo Stato la riconosca (cosa che già succede, coi problemi all’utenza che sono noti). «Il problema è il tradimento del proprio impegno a vivere in castità perfetta, e a farsi paladino della relazione omosessuale» dice Cozzolino. Essendoci una virgola si suppone che siano due questioni separate, anche se la compresenza nello stesso periodo le amalgama.

Se sono due questioni separate non si capisce perché, rimanendo casti, non si possa essere paladini della relazione omosessuale, posizione che nell’ambito della strombazzata ricerca teologica dovrebbe essere consentita (a meno che la ricerca teologica non escluda a priori alcune posizioni, invalidandosi automaticamente come “ricerca” e denunciandosi come “definizione, selezione”). Se invece sono questioni interdipendenti, si conferma che non esiste davvero una ricerca della mediazione, e la Chiesa è nuovamente disertrice rispetto al suo compito dottrinale di armonizzazione fra verità e fenomeno.

In realtà la frase è più complessa: «Il problema è il tradimento del proprio impegno a vivere in castità perfetta, e a farsi paladino della relazione omosessuale, esibendo un proprio compagno come “bandiera” dell’amore gay, che la Chiesa deve riconoscere». Punto. Quindi questo polacco non solo fa outing, ma ha anche un compagno, e dice alla Chiesa che “deve” riconoscere la situazione. Certo una pressione terribile per un’istituzione così modesta come la Chiesa cattolica: c’è da chiedersi come farà a ignorarla. È ribalta così le posizioni: è questo tizio che sconvolge la povera Chiesa, non è la Chiesa a svolgere la funzione di rimozione e messa al bando degli omosessuali che vivono come tali e a incoraggiare un simile atteggiamento nei fedeli più vulnerabili a simili trappole ideologiche. Tutto parte da una domanda colpevolmente ingenua, ricordiamolo.

A rafforzare l’idea che qui si sia fatto un ribaltamento è la excusatio non petita del monsignore, che continua deplorando che la Chiesa sia chiamata “a sconfessare l’ordo amoris iscritto nel libro della natura e della vita e in quello della Parola di Dio, che la Chiesa annuncia da sempre», un «disegno con una sua grammatica e una sua semantica, che non è ad libitum dei sentimenti e degli orientamenti soggettivi».

Non dobbiamo qui farci prendere dall’irritazione per la nota morale sessuale della Chiesa cattolica, ma osservare come l’ordo amoris sia un trinceramento e non il paradigma trascendente alla luce del quale dare senso all’esistente. È una lama con cui espungere ciò che all’istituzione non piace, non un metro del vivere che apra all’interrogazione superna. Non clima storico, nemmeno mediatico, ma strettamente politico. Inoltre, di sfuggita, osserviamo che dire che la Chiesa lo annuncia da sempre serve a creare confusione: è da sempre rispetto alla vita della Chiesa, non da sempre rispetto all’ordo amoris medesimo, che è indifferente nei confronti della Chiesa: sennò non sarebbe assoluto ed eterno. È lo stesso stratagemma di mettere «ad libitum» in una frase che altrimenti direbbe tutto da sola: un disegno che non è dei sentimenti e degli orientamenti soggettivi. Siamo tornati nel mediatico, perché non suona bene dire che l’ordine amoroso divino è indifferente alla creatura, cosa che incrina anche l’autorevolezza dell’istituzione chiesastica in materia, in quanto a sua volta creatura.

Giustamente Gambassi chiede quale sarebbe, se non quella mediatica, la via per manifestare queste questioni, e Cozzoli, a palla alzata, non fa altro che schiacciare: «Avrebbe fatto meglio a riconoscere l’incapacità a mantenere l’impegno di castità perfetta assunto prima dell’ordinazione sacerdotale. Ammetta, in altre parole, l’indisponibilità a vivere il proprio celibato. E non pretenda dalla Chiesa un sacerdozio a misura delle proprie aspettative». Il pallone è della Chiesa, e se non la fai vincere se ne va e se lo porta via, così non gioca più nessuno. Un altro rovesciamento, perché di nuovo è sotto accusa il singolo, non l’istituzione, che evidentemente è impotente a risolvere la questione.

Infine, il capolavoro eccezionale: era Charamsa a doversela sbrogliare «evitando tutto il clamore mediatico intenzionalmente dato al suo abbandono e incolpando se stesso e non la Chiesa di non poter continuare a svolgere il ministero di prete». Fine intervista. Quindi, torniamo a dire, quale sarebbe la funzione della Chiesa in questo? Deve interrogarsi senza fine arrogandosi un primato ermeneutico evidentemente masturbatorio? È la soluzione preferita dalle istituzioni quella di rimandare indefinitamente la soluzione dei problemi, rendendosi utile come una procedura processuale con infiniti gradi di giudizio. Ma qui è leggibile un altro problema, che è quello del tempo. Infatti, sebbene non sia che un prodotto dei commentatori e degli esegeti e non un dettato del testo sacro, l’inconciliabilità di omosessualità vissuta e sacerdozio viene elevata a regola intangibile. È sintomatico di un modo di vedere la storia come prodotto dell’emanazione dell’unico Dio, che come tale non necessita di un precedente per valere: perché tutto quello che si inanella nella realtà è sempre un’emanazione della volontà di Dio, incluse le regole posticce aggiunte alla parola stessa di Dio. In altre parole, anche se non ha addentellato in Dio, l’inconciliabilità è un suo prodotto, come la calvizie che sopraggiunge a una certa età in chi non è mai stato calvo: non necessita di precedente. Peccato che lo stesso valga per “indebite pressioni” come quelle di Charamsa.