“La grande bellezza” di Paolo Sorrentino può essere proposto anche come una metafora della politica del nostro tempo. Il film appare come una sorta di “Festa dell’insignificanza”, un divertissement surrealista, una parabola dagli accenti felliniani, in cui si alternano personaggi alle prese con elucubrazioni stravaganti, parolai, narcisi e un po’ vanesi. Già, il recente romanzo di Milan Kundera, in bilico fra il ridicolo e la tragedia, tra il faceto e l’abbrutimento, in cui Kundera sembra riprendere i sentieri già percorsi da Luigi Pirandello a proposito dell’umorismo, percepito come sentimento espressivo della fragilità umana da cui nasce l’inevitabile commiserazione per le debolezze altrui e anche per quelle personali.
Kundera descrive un’era che fa della propria vacuità esistenziale quasi un punto di arrivo culturale. Ed è proprio il ribaltamento delle tematiche circa la banalità della vita lo strumento scelto dall’autore ceco per scolpire il suo pensiero: la risposta ad ogni angosciante interrogativo giace nella superficialità che ci consente di accettare l’insignificanza per ciò che è, ossia essenza stessa della vita, ma al tempo stesso origine di un buonumore spesso drammatico. Infatti, citando Hegel, Kundera suggerisce: “Solo dall’alto dell’infinito buonumore puoi osservare sotto di te l’eterna stupidità degli uomini e riderne.”
Ebbene, nella “Grande bellezza” troviamo tutto l’impasto kunderiano, tra ironia, pessimismo e vacuità, che porta in scena proprio il protagonista del film, Jep Gambardella (un grande Tony Servillo, a cui si può rimproverare, forse, un eccesso di leziosità), dandy dei party sulle terrazze sopra il Colosseo, conscio della mendacia, dell’ipocrisia, dell’apparenza: che “è tutto un trucco”, tra ansia esistenziale e “vetrinizzazione sociale”, tra l’”effimero” culturale e la transavanguardia, in un mondo amaro e nichilista, anche con richiami proustiani alla “ricerca del tempo perduto” (nel suo caso rappresentato dai libri non scritti e da un amore giovanile).
Una metafora della vita dei giorni nostri, fondata sull’apparenza, tra grandi ricchezze concentrate in poche mani e povertà sempre più diffuse, che sembra fatta apposta per descrivere la politica italiana: partiti personalizzati e leaderistici, assenza di rapporto diretto con i cittadini, vacuità culturale, volgarità diffusa nell’ordalia dei media, con talk show urlati e notiziari da Miniculpop, privilegi castali insopportabili e inchieste giudiziarie.
Alla mente torna quel “Tramonto dell’Occidente” contenente un grido di dolore per l’avvilimento dei concetti di esistere e di conoscere, soppiantati da una modernità all’insegna dell’apparire.