I partiti comunisti hanno in genere avuto un’ala destra e un’ala sinistra; però era il “centro” a detenere lo scettro. Il centro si appoggiava ora a un’ala ora a un’altra, ma conservava il timone. E le lotte intestine volte a delineare tattica e strategia spesso si svolgevano al suo interno. Ecco perché il “rinnovamento” poteva essere concepito solo “nella continuità”, e “la diversità” solo “nell’unità”. E da qui il mito, in Italia, del “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”.
Inutile aggiungere che il meccanismo principale di siffatto congegno era la cooptazione. E ciò offre la spiegazione di ciò che ha notato giovedì scorso Stefano Menichini sul quotidiano Europa: Gianni Cuperlo, ragazzo prodigio della Fgci, pur intuendo già ai tempi del Pds l’esigenza di un ricambio ai vertici del centrosinistra, solo ora prova a candidarsi alla guida del Pd. E Matteo Renzi è fra i pochi ad aver sfidato proprio la logica della cooptazione, pur con modalità talora discutibili.
Insomma: il Pd, il partito delle primarie aperte ai sedicenni, il soggetto plurale quasi all’americana, dalle mille anime e dai mille volti, resta ancorato a quella logica. La quale, nella situazione attuale, è volta a garantire fra l’altro gli “equilibri” fra correnti e cordate. Da tanti lustri non vige più il vecchio centralismo, ma la pratica della cooptazione resta. Da qui la scelta del sindaco di Firenze di non partecipare alla riunione di Fare il Pd. Correntone o non correntone, infatti, quella era proprio l’assemblea di coloro che accettano l’antica pratica.
Già ai tempi del Pci si dibatteva sull’esigenza di separare il ruolo di funzionario da quello di dirigente. Il funzionario è espressione dell’apparato e ne segue le direttive; il dirigente viene eletto in seguito a un confronto politico. Tale distinzione rappresenta una consuetudine nelle principali forze socialdemocratiche, eppure in ambito postcomunista non si è mai affermata. Oggi il “partito dei funzionari” è solo un ricordo, ma il rischio è che – a motivo delle cordate interne e del permanere del criterio della cooptazione – non si affermi neanche un vero gruppo dirigente, ai vari livelli. E quasi paradossalmente il fenomeno potrebbe perpetuarsi persino con l’eventuale vittoria di Renzi: il leaderismo, infatti, potrebbe non comportare affatto un rinnovamento diffuso.
Il combattivo sindaco vorrebbe cambiare l’Italia, più che il Pd. Forse in maniera quasi subliminale egli coglie l’impossibilità di dar vita a una moderna forza di sinistra eludendo, anche sul piano organizzativo, il confronto con l’esperienza e la tradizione socialista.