A dieci anni dalla scomparsa, in mezzo a trasformazioni epocali dei processi produttivi e quindi del diritto e delle politiche del lavoro, Gino Giugni ci parla ancora. Per capire perché dobbiamo renderci conto di cosa ha fatto come giurista e come politico, con una frequente e virtuosa interazione fra questi ruoli. Ci aiutano a capirlo i dieci articoli che pubblichiamo, dovuti ad autori che possono testimoniarne da ogni lato la figura e il pensiero. Allievi, colleghi, dirigenti politici o sindacali. E amici da una vita.

Giugni combattè tanto il dogmatismo dei giuristi quanto l’ideologismo dei politici di allora grazie a una stessa ispirazione: la ricerca dei fatti, dei problemi che ponevano e delle soluzioni possibili per superarli, in vista non di una qualsiasi mediazione ma dell’equilibrio più favorevole alla parte debole del rapporto di lavoro, come ricorda Silvana Sciarra. La portava avanti, quell’ispirazione, imponendola dialetticamente agli interlocutori, pur senza riuscire sempre a vincere le sue battaglie. 

Come scrive Gian Primo Cella nel trentennio 1960-1990 l’affermazione di tutto il movimento sindacale passava per una mediazione fra le due culture in competizione, e per l’individuazione di forme di coinvolgimento accettabili  con le istituzioni pubbliche nelle politiche di sviluppo: e “Giugni aveva sia questa capacità di  conciliazione fra  culture spesso contrapposte, sia queste ambizioni riformatrici che nascevano dalla combinazione fra pluralismo e socialismo, e se si vuole dalla riscoperta della tradizione del socialismo riformista italiano e dei suoi risvolti sindacali

Una cultura che, debbo riconoscerlo, noi studiosi del movimento sindacale e delle relazioni industriali, non abbiamo considerato o valorizzato abbastanza, tutti presi come eravamo fra l’innovazione che sembrava connaturata alla presenza della Cisl, e la mobilitazione rivendicativa che sembrava appannaggio quasi esclusivo della ‘grande’ Cgil, specie sotto la guida di un sindacalista straordinario come Di Vittorio”.

Era tipica di questo suo riformismo pluralistico, parallelamente, la contrapposizione al monismo organicistico proprio della teoria gramsciana dell’egemonia: di quel “controllo sociale diffuso” che diventerà patrimonio dei socialisti (Gambilonghi). Nello stesso tempo la ricostruzione di Andrea Ricciardi dimostra che egli rimase sempre un’anima libera da condizionamenti di ogni tipo anche nel partito.

Il successo di tante proposte di Giugni, e l’estremo rispetto con cui tutte venivano discusse, dipendevano dalla sua capacità di puntare “su un compromesso sempre dinamico, nel quale il conflitto industriale viene riconosciuto e civilizzato secondo definite procedure negoziali, finalizzate al raggiungimento di un accordo collettivo” (Leonardi): e su tale premessa “promuovere riforme fondate sul consenso sociale” (Sciarra).

I pilastri di questa azione – lo Statuto dei lavoratori, la concertazione, la Commissione di garanzia sullo sciopero nei pubblici servizi – erano visti da lui non come traguardi, ma come momenti di un processo che in sede di attuazione poteva rivelare limiti e quindi esigere ulteriori revisioni. Tanto che già nel 1982, lo ricorda Franco Liso, Giugni diceva che lo Statuto aveva creato non solo un contropotere sindacale al potere degli imprenditori, come era nelle intenzioni, ma due: visto il ruolo crescente dei giudici. Lo stesso vale, secondo Tiziano Treu, per l’ordinamento sindacale di fatto che egli stesso aveva teorizzato già nel 1960, e dei cui limiti sopravvenuti si accorse prima di tanti altri.

Nella mia vita ho incontrato riformatori bravissimi, ma altrettanto affezionati alle loro creature, leggi o proposte che siano: anche quando in sede di attuazione o per altre ragioni mostrano problemi. Senza contare l’indifferenza generale che in Italia circonda il rendimento di ogni riforma che sia uscita sulla Gazzetta Ufficiale. Giugni era invece un padre spregiudicato. Seguiva passo passo cosa era accaduto dopo quel momento per altri fatale, e quando era necessario proponeva revisioni anche profonde delle sue stesse soluzioni.

Mi chiedo come avrebbe reagito alla disintermediazione, che, come scrive Giuliano Amato, ha “reso la concertazione un bel ricordo. Il ricordo di un riformismo di cui il ventunesimo secolo non ha cancellato le ragioni, ma ha di sicuro reso inagibili diversi degli strumenti con i quali lo avevamo fatto valere nel ventesimo: e ancora navighiamo a vista nella ricerca di quelli che servirebbero per farlo valere oggi”. Giugni avrebbe cercato proprio quegli strumenti, tanto più perché consapevole di tante criticità preesistenti.

Nel 1989, dopo aver notato il ravvicinamento del rapporto di lavoro subordinato alla tradizionale concezione del pubblico impiego (anzitutto in termini di stabilità), ne desumeva infatti “la emarginazione di tutta una serie di forme di erogazione del lavoro, a termine, a brevi periodi, a tempo ridotto come pure il disfavore verso i rapporti plurimi o verso il volontariato o le forme di erogazione di lavoro estranee al tipo di lavoro subordinato”: e considerava “avventato presentare il diritto del lavoro italiano come una razionale espressione di cultura industriale tesa a controllare i processi economici in ragione di chiari valori sociali. Non c’è dubbio, al contrario, che esso ha alcuni contenuti di elevata irrazionalità economica, non di rado consuma ricchezza più di quanto non agevoli a produrne, tende troppo spesso a risolvere i problemi con operazioni di puro e semplice trasferimento di oneri sullo Stato, sui datori di lavoro, su determinate categorie di lavoratori a vantaggio di altre. Tali fenomeni appaiono nel modo più vistoso nel campo della previdenza sociale”. Ci potrebbe essere un quadro più aggiornato e meno retorico di questo?