Mancano pochi mesi alla riunione degli elettori del successore di Sergio Mattarella alla Camera dei deputati. Che vista avranno? Sarà abbastanza lunga da superare i calcoli immediati di partiti, correnti, gruppi e singoli? Certo è che mai come stavolta, nell’elezione del Capo dello Stato conterà il contesto europeo e internazionale. Si sommano giocoforza tra loro le complicate partite dell’uscita dalla pandemia globale, della ripresa economica in un Paese più di prima gravato dal debito, della inevitabile definizione di un nuovo equilibrio politico nell’Unione, fra gli Stati e al loro interno, con un populismo che sarebbe imprudente dare per spacciato non solo da noi. E il ruolo del Presidente nel sistema costituzionale, in costante crescita nel corso della Repubblica, ha raggiunto il vertice in questa legislatura man mano che aumentava la paralisi del sistema dei partiti.

Oltre che presbite, l’occhio dei grandi elettori dovrà allora perlomeno soppesare la scelta in base ai suoi possibili effetti in quel più ampio scenario. Secondo una parte dei commentatori, la figura più adatta, per capacità e per prestigio internazionale, è quella del Presidente del Consiglio Mario Draghi. Altri, concordando con questa valutazione, obiettano che verrebbe così meno la sua guida al governo, e quindi la credibilità di cui perciò godiamo nell’Unione, senza contare i rischi di un ritorno all’instabilità che può correre un sistema politico ancora tutt’altro che ristrutturato.

E’ soprattutto per questo che il discorso sulle qualità soggettive del prossimo inquilino del Quirinale si lega oggi così strettamente a considerazioni oggettive sul contesto in cui ci troviamo e alle prospettive di medio periodo.

Bisogna a questo punto aggiungere qualcosa che potrebbe sembrare lontano dalla nostra domanda sulla Camera con vista. Il 2022 non sarà semplicemente il secondo anno in cui avrà effetto il Ricovery Plan. Sarà l’anno in cui l’Italia è attesa al varco. A Bruxelles e nelle altre capitali europee, tutti ormai hanno imparato a capire che il grande problema italiano non consiste nel far passare in Parlamento una o un’altra legge “di riforma strutturale”, o “di semplificazione” o “per la crescita”, ma nell’attuarla in sede amministrativa ed anche, nel caso che ci interessa, nello smuovere investimenti produttivi. E una prima tranche di fondi europei è già giunta a destinazione. Saranno le pubbliche amministrazioni in grado di spendere, avendo perso l’abitudine a farlo nei decenni precedenti?

Il Governo Draghi avrà pure fatto il massimo sforzo, anche con alcuni significativi turnover ai vertici delle strutture. Ma il budino lo si prova mangiando, il che avverrà soprattutto l’anno prossimo.

Eccoci così tornati a Montecitorio. Dove proprio la scelta migliore per proiezione internazionale lascerebbe scoperto Palazzo Chigi esattamente nel momento della prova di governo più importante per gli anni venturi. E chi immagina che le decisioni maggiori potranno pur sempre venire impostate dalla Presidenza della Repubblica, e poi “suggerite” a un premier fidato, non tiene conto di alcuni ostacoli.

Prima di tutto, la questione non consiste nell’impostare decisioni, ma nell’attuare quelle già prese: e in questo senso la catena di comando, dovendosi estendere al rapporto governo-alta amministrazione, sarebbe comunque allentata. Inoltre la crescita dei poteri necessari a riattivare il motore dei rapporti Governo-Parlamento, che ha caratterizzato il ruolo del Capo dello Stato, è una cosa ben diversa dall’acquisizione di veri e propri poteri di governo, dove le supplenze dei Presidenti sono avvenute ben più raramente e solo negli interstizi.

Il fatto è che, in un sistema parlamentare, il collegamento potere/responsabilità politica impone che le scelte di indirizzo politico siano prese dal governo. Questo non è un “sacro principio” che può sempre essere scardinato dai fatti. L’eventuale finzione di far prendere le decisioni dal Presidente per interposta persona non durerebbe infatti più di qualche giorno, così esponendolo direttamente a responsabilità. Una via “francese” non si costruisce così. Tantomeno nell’anno che precede lo scioglimento delle Camere. E, se queste fossero sciolte anticipatamente, l’intera attuazione del Recovery Plan dovrebbe di fatto slittare, con le conseguenze che possiamo immaginare sulla già fragile reputazione italiana.

Ecco perché quello del 2022 è un sentiero tanto stretto. E perché, dal lato del governo, non bisogna illudersi su strategie alternative.

Cesare Pinelli