In questi ultimi giorni, scrive Enzo Moavero Milanesi sul Corriere della sera del 23 luglio, c’è stato un appello del presidente francese Hollande «per varare un’eurozona più coesa e dotata, in particolare, di un Parlamento e di un proprio bilancio per efficaci investimenti pubblici»: una proposta rivolta alla Germania, all’Italia e ai tre paesi del Benelux, cioè agli Stati da cui ha avuto inizio l’avventura europea. Una proposta, si augurava Moavero Milanesi, che sarebbe opportuno discutere ampiamente e al più presto anche in Italia.

In effetti da tempo Hollande si muove – sia pure cautamente, come è nel suo stile – in tale direzione, richiamando in un modo o nell’altro gli Stati europei che lo desiderano ad assumere nuove responsabilità, eventualmente muovendosi come un’avanguardia. In una lettera di omaggio per i novanta anni di Jacques Delors, pubblicata il 19 luglio su Le Journal du Dimanche, supplemento del Figaro, François Hollande afferma: «Ce qui nous menace, ce n’est pas l’excès d’Europe, mais son insuffisance» (non è l’eccesso di Europa che ci minaccia, ma il suo deficit).

Quando  Delors divenne presidente della Commissione europea (1985), c’erano i vari Stati bloccati nei propri egoismi nazionali, commerciali e di budget. Ma Delors, scrive Hollande, seppe ridare una prospettiva, una visione, un progetto agli europei. Nessuna nazione infatti avrebbe potuto cedere parte della propria sovranità, se non avesse avuto la sicurezza di divenire più forte in seguito a tale cessione. Per uscire dalla crisi dell’epoca, Delors ebbe l’intuizione di definire un nuovo orizzonte, suscettibile di far nascere una speranza: l’Unione infatti non si può ridurre solo a delle regole, continua Hollande, a dei meccanismi, a dei disciplinari. Essa si rivolge ai popoli europei come la migliore invenzione atta a proteggere i valori e i principi che fondano la nostra comune cultura. Accanto all’economia e al senso di responsabilità è indispensabile una grande solidarietà fra i paesi membri.

Lo stesso Delors affermava di non essere mai stato succube dei tassi di crescita o del corso delle monete; mise a punto un progetto di Carta sociale europea, da cui poi è venuto fuori il programma Erasmus per i giovani studenti europei. Ma gli europei hanno lasciato indebolire le proprie istituzioni e oggi i 28 Stati penano ad accordarsi per andare avanti. Così sono cresciuti i movimenti populisti, con il loro scetticismo estremo e il disprezzo delle istituzioni europee, dovuto in fondo alla paura che hanno del mondo: vogliono tornare alle divisioni, ai muri, ai reticolati di filo spinato.

Ma noi, dice Hollande, condividiamo una moneta almeno in 19 Stati. E condividere una moneta significa ben più che cercare una convergenza; è una scelta che 19 paesi hanno fatto innanzitutto perché è nel loro interesse. Non è dunque la moneta che ci minaccia, ma l’incompletezza delle scelte effettuate. La decisione di avere una moneta comune rinvia ad una organizzazione rafforzata con i paesi che sceglieranno di farne liberamente parte e che diventeranno l’avanguardia dell’unificazione.

In un mondo dominato da nuove grandi  potenze, davanti ai gravi rischi di instabilità alle nostre frontiere, di fronte agli atti di guerra, alle catastrofi climatiche e ai contraccolpi sulle popolazioni, è proprio l’Europa che viene attesa per portare nuove tecnologie, promuovere un altro modello industriale, occuparsi dei problemi energetici ed ecologici, investire in conoscenza, ridurre le disparità territoriali, assicurare solidarietà al proprio interno e azioni di sviluppo all’esterno del proprio territorio. La Francia, continua Hollande, è cresciuta sempre quando ha saputo prendere l’iniziativa in Europa, quando ha fatto prevalere lo spirito europeo, come è avvenuto nelle speciali relazioni franco-tedesche.

Tali relazioni, estese anche ad altri paesi europei, hanno certamente avuto inizio dopo il 1945. Già l’anno scorso, rievocando la vittoria delle democrazie sul nazismo (Le Monde dell’8 maggio 2014), Hollande affermava che un’epoca di pace aveva finalmente raggiunto l’Europa. A che cosa si doveva questa eccezionale situazione? All’Unione : l’unione dei cittadini, l’unione delle economie, l’unione delle nazioni. Bisogna sempre ricordare, noi europei, ciò che dobbiamo all’Europa. Come ha detto François Mitterrand nel suo ultimo discorso al Parlamento europeo, «il nazionalismo vuol dire la guerra». Quando il processo di civilizzazione ha avuto uno stallo, abbiamo visto anche nel cuore d’Europa che cosa è successo : basti pensare all’ex Jugoslavia di ieri, e oggi ai confini tormentati con la Russia. Quindi, per Hollande, occorre sempre ripetere tale evidenza fondatrice: l’Europa vuol dire la pace.

Se oggi ci sono delle difficoltà, dobbiamo distruggere l’opera di tre generazioni e compiere all’inverso il cammino percorso negli ultimi settanta anni? Vogliamo tornare alle guerre commerciali, agli scontri sulle monete, al montare del nazionalismo? Certamente si può decidere di rifiutare l’Unione, ma sapendo a cosa si ritorna, al vicolo cieco verso cui ci si incammina. In un certo senso uscire dall’Europa vuol dire uscire dalla storia : qualunque paese si troverebbe abbandonato alla deriva. Oggi l’avvenire appartiene a Stati che abbiano una dimensione continentale; e noi, con i nostri ideali democratici, con i nostri interessi, con il nostro realismo politico, solo unendoci possiamo pesare sui destini del mondo.

A quelli che pensano di diluire il più possibile l’Europa non si può che rispondere con l’Europa della volontà, quella che vogliamo realizzare. Un’Europa che finalmente agisca dove occorre, che chiarisca i propri modelli, che faccia avanzare più velocemente i paesi che lo vogliono, che metta fine alla cieca austerità, controlli la finanza con la supervisione delle banche, difenda la propria moneta contro attacchi deleteri e irrazionali. Un’Europa chiamata a investire in grandi progetti grazie a nuovi strumenti finanziari, un’Europa che protegga le proprie frontiere, preservando la libertà di movimento e il diritto d’asilo.