Il 25 ottobre si è svolto a Bologna il convegno organizzato da “Mondoperaio” e dal “Mulino” per ricordare il cinquantesimo anniversario del primo governo di centrosinistra. Moderati da Marco Gervasoni, Riccardo Brizzi, Michele Marchi e Bruno Simili, sono intervenuti Enzo Cheli, Emanuele Macaluso, Mariuccia Salvati, Ernesto Galli della Loggia, Piero Ignazi, Manin Carabba, Giuseppe Berta, Simona Colarizi, Gennaro Acquaviva, Luigi Pedrazzi, Paolo Pombeni, Guido Formigoni, Angelo Panebianco, Gianfranco Pasquino, Michele Salvati e Luigi Covatta. Giovanni Pieraccini, impossibilitato a partecipare di persona, ha mandato un contributo scritto. Nei prossimi giorni metteremo in rete la registrazione dell’evento. Di seguito anticipiamo una sintesi dell’intervento di Covatta e il testo del contributo di Pieraccini.

Capire il passato per immaginare il presente
Luigi Covatta

Il 50° anniversario del governo Moro-Nenni non è il 25 ottobre, ma il 4 dicembre. Oggi però è il 50° anniversario del congresso del Psi che autorizzò Nenni a partecipare al governo. Alla mozione autonomista (che vedeva ancora uniti Nenni e Lombardi, benchè ci fosse già stata la “notte di san Gregorio”) andò solo il 57% dei voti, mentre la sinistra di Vecchietti e Valori sfiorò il 40%.
Nella Dc Fanfani era già stato sostituito da Moro, il quale, come scrisse Cafagna nel 1980, “distinguendosi abilmente […] dai dorotei, che lo avevano officiato per sostituirlo a Fanfani, riuscì a far dimenticare l’origine dorotea […] della propria affermazione politica e del mandato ricevuto, che era quello di risolvere la crisi parlamentare ottenendo l’organico concorso socialista a un governo saldamente doroteo”.
Il centro-sinistra organico quindi comincia quando il centro-sinistra riformista è già finito. Secondo Cafagna così si determinò “un bel circolo vizioso: la Dc chiama dentro i socialisti non offrendo una politica riformatrice contro un sostegno, bensì, più prosaicamente, vendendo posti di governo contro un sostegno. Ma mentre in uno scambio politico del primo tipo (politica riformatrice contro sostegno) i socialisti avrebbero potuto ottenere una merce rivendibile all’elettorato di sinistra (e tentare così di rafforzarsi anche a spese dei comunisti), nello scambio svilito del secondo tipo (meri posti di governo contro sostegno) non ottenevano una merce rivendibile elettoralmente, ma una merce solo consumabile, per così dire, in casa, dal ceto politico socialista in quanto tale”. Ed infatti comincia la doroteizzazione del Psi, che peserà anche sull’unificazione socialista, e che nel 1976 porterà il Psi al suo minimo storico.
Il centro-sinistra riformista non era frutto solo dell’attivismo di Fanfani e dell’illuminismo di Lombardi. Aveva alle spalle una lunga e rispettabile elaborazione politico-culturale sia in seno al mondo cattolico (Lombardini, Saraceno, Ardigò, Benevolo, Andreatta), sia nell’area laico-socialista (Giolitti, La Malfa, Momigliano, Guiducci, Zevi). Un’elaborazione che si sviluppò soprattutto nell’insostituibile crogiolo rappresentato dal Mulino, nel quale si fondevano cattolici, socialisti e liberali, oltre che nei convegni degli Amici del Mondo (meno su Mondoperaio, dal momento che non era semplicissimo passare dalla direzione di Raniero Panzieri a quella di Antonio Giolitti).
Quella elaborazione andrebbe rivisitata anche per ricostruire una genealogia del riformismo italiano, che nel secondo dopoguerra si è manifestato innanzitutto attraverso quel dialogo fra cattolici e socialisti che era disgraziatamente mancato nel primo dopoguerra. Ed andrebbe rivisitata adesso, invece di ripetere giaculatorie esorcistiche sul non volere “morire socialisti” o sul non volere “morire democristiani”.
Al congresso di Napoli del 1962 Moro si augura che “nessuno nella Dc voglia sostenere la tesi qualunquista della preminenza e sufficienza del programma”, mentre l’obiettivo da perseguire era “la creazione di un più stabile equilibrio in seno alla democrazia italiana”, cooptando “senza rischi, ed anzi con vantaggio, il Psi per la guida politica del paese e per la difesa delle istituzioni”: insomma, tutta politics e niente policies, laddove proprio sulle policies si era registrata la confluenza dei riformisti cattolici, laici e socialisti, mentre il paradigma delle politics restava l’intangibilità dell’unità politica dei cattolici e degli equilibri interni alla Dc che ne conseguivano, rispetto ai quali i bisogni del paese passavano in secondo piano: come disse Donat Cattin  al convegno di Lucca del 1967, “il partito dei cattolici– proprio per mantenere il massimo delle adesioni secondo una categoria non politica – ha finito molte volte per essere il partito della non scelta o il partito della scelta ritardata e fondata sulla necessità”.
Si può discutere – e molto si è discusso specialmente da quando si è affermato il pensiero unico neoliberista – sull’adeguatezza delle policies del centro-sinistra fanfaniano. La nazionalizzazione dell’energia elettrica oggi sarebbe politicamente scorretta, anche se abbiamo appena finito di celebrare un altro cinquantenario, quello del Vajont. La scuola media unica ha dato luogo a quella scolarizzazione di massa che ancora oggi è oggetto di critica da parte di èlites non necessariamente di destra. La riforma urbanistica, che non passò, può sembrare un’utopia in un paese in cui, al di là delle salmodie sui beni comuni, ci si scanna sull’Imu. E l’idea stessa della programmazione rappresentava indubbiamente la quintessenza del dirigismo.
Tuttavia quel progetto dirigista presumeva anche una qualche politica dei redditi, perseguiva il riequilibrio territoriale, pretendeva di investire sul capitale umano e sul capitale sociale. E poteva costituire per la società italiana lo stress test necessario per superare, nel tempo medio, le due principali anomalie italiane: quella rappresentata dal vasto consenso di cui godeva il Pci, e quella che impediva l’autonoma rappresentanza di una destra liberale e conservatrice. Invece col prevalere delle politics (che del resto era anche nelle corde di Nenni e del suo politique d’abord), cioè con la riduzione del centro-sinistra a formula parlamentare, si determinò, come dice Cafagna (Una strana disfatta, 1996) l’accumulo di “un ammasso di cambiali a carico delle generazioni future che fu la vera sostanza di quel che è stato poi chiamato pomposamente dai critici consociativismo”.
Per Cafagna, dopo che Fanfani aveva dato vita ad una “peculiare forma di autonomia del politico”, la Dc dorotea diede vita a quella altrettanto “peculiare forma di eteronomia dell’economico” che allora cominciò a svilupparsi: per cui “per il sistema delle imprese si passò dall’utilità dell’aiuto statale al bisogno parassitario di questo”, fino ad affermare “una singolare modalità vampiresca di aumento dei poteri di chi gestiva la cosa pubblica e che si nutriva di dissesti aziendali”.
D’altra parte il riformismo illuminista risultava “inabile a far blocco con interessi diffusi, eccentrico rispetto alla cultura popolare corrente, e quindi sostanzialmente improduttivo di consenso democratico immediato. […] In un mare in tempesta parlava di razionalizzare la nave rivolgendosi a passeggeri sordi e marinai ubriachi”. Per cui, “nella feccia di Romolo della realtà economico-sociale italiana”,  anche da parte del Psi fu giocoforza cercare il consenso con l’assistenzialismo: “dall’arrembaggio alle casse previdenziali dei settori di lavoro indipendente protetti dalla Dc all’uso improprio delle pensioni di invalidità, alla irriflessiva trasformazione del sistema pensionistico in sistema retributivo, alla concessione di aumenti e benefici d’età fatti sotto gli sgrulloni di una minaccia elettorale, e poi del cattivo esito del risultato della stessa elezione” (Una strana disfatta).
Cinquant’anni dopo le parole del lessico politico sono le stesse: la stabilità, lo stato di necessità, la prevalenza delle politics sulle policies. E’ cambiata, però, la forma del sistema politico: il che non toglie che anche oggi un terzo dell’elettorato è rappresentato da una forza antisistema: e che essa sia guidata da un guitto, e non da un rivoluzionario di professione, è solo il segno dell’ulteriore imputridirsi della “feccia di Romolo”.
Anche oggi, cioè, abbiamo a che fare con un “bipartitismo imperfetto”. Con la differenza che in seno all’odierna forza antisistema è impensabile che si confrontino un Amendola e un Ingrao: ma anche con la differenza che i due poli che a febbraio si sono contesi la guida del paese rappresentano, sommati insieme e a prescindere dalle loro divisioni interne, soltanto il 42,5% dell’elettorato.
Del resto anche il nuovo sistema politico nacque eludendo lo stress test sulle policies (che semmai venne lasciato volentieri ai governi minoritari e “tecnici” di Amato, Ciampi e Dini), ma invece utilizzando lo strumento iperpolitico della riforma elettorale, nella convinzione (fallace) che il blocco del sistema della prima Repubblica dipendesse esclusivamente dalle due parallele convenzioni ad excludendum, quella verso il Pci e quella verso il Msi.
Anche per questo gli eredi del Pci, per dirla ancora con Cafagna, sarebbero rimasti “meri postcomunisti”, e gli eredi della Dc, per dirla con Marco Follini (C’era una volta la Dc, 1995), dopo avere sperimentato nel corso dell’epopea referendaria “il bipolarismo virtuale”, si trovarono a mal partito col “bipolarismo reale”, rinunciando alla “possibilità di riconvertirsi nel polo moderato”: per cui già allora si manifestò una forza antisistema, quale per molti versi era nel 1994 Forza Italia. E così anche oggi la “politica” prevale sulle “politiche”, e dalle “politiche” peraltro non nasce una “politica”: proprio come avvenne cinquant’anni fa, quando si preferì garantire la stabilità degli schieramenti dati invece di forzare il sistema verso un bipartitismo “perfetto”.

pierorit

Una svolta storica
Giovanni Pieraccini

Mi dispiace molto di non essere presente con voi in occasione della riflessione sul primo Governo Moro, poiché io sono l’ultimo ministro in vita e perciò l’ultimo testimone. Tempo fa speravo – e forse lo sperava anche lui – che fosse possibile in occasioni come questa l’incontro del vecchio Ministro della Programmazione con il vecchio Ministro del Tesoro Emilio Colombo, rievocando un’antica alternativa, ma ormai anche Emilio Colombo è chiuso nell’eterno silenzio.
Il primo centro-sinistra che qui si rievoca non fu un’operazione trasformista dei socialisti per andare al Governo e non fu neppure per la Democrazia Cristiana il solo scopo di isolare i comunisti. Fu qualcosa di più profondo. Fu una svolta di rilievo storico determinata da un profondo mutamento della società italiana. Dopo la liberazione e l’avvento della democrazia era come se il Paese si fosse risvegliato, avesse acquistato fiducia, il coraggio dell’iniziativa, la forza delle lotte sociali. C’era il “miracolo italiano” con l’aumento dei consumi, della produzione, della produttività, dei progressi tecnologici, delle auto, degli elettrodomestici; ma c’era contemporaneamente un paese inquieto e dolorante: milioni di emigranti delle campagne del Sud alle città del Nord, squallidamente sistemati in misere abitazioni, sofferenze per i lavoratori nelle fabbriche, occupazione di terre incolte, squilibri ed un crescente bisogno di giustizia. Era un’Italia che mutava in uno “sviluppo senza guida”, pieno di occasioni e di pericoli, carico del peso dell’ingiustizia su tanti esseri umani.
Così negli anni ’50 si sviluppò un grande dibattito, politico, economico, sociale. I socialisti dettero un notevole contributo, ma anche i cattolici, i liberali (quelli del Mondo). Non possiamo qui soffermarci su questo dibattito, ma ricordare almeno personaggi chiave come Ugo La Malfa, Riccardo Lombardi, Pasquale Saraceno. Vi parteciparono numerose riviste di alto valore culturale e vi partecipò anche l’Avanti! che ebbi l’onore di dirigere dal 1958 al 1963.
Ma il fermento intellettuale non riguardò soltanto la politica: fu anche una grande stagione per il cinema, le arti figurative, la letteratura, il teatro, la musica, ricca di molte personalità. Fu la stagione delle avanguardie e dell’ingresso della nuova Italia nella modernità.
Il cammino per giungere al Governo di centro-sinistra fu complesso e difficile, con molte opposizioni, fino al governo Tambroni che drammaticamente dimostrò l’impossibilità di dare al Paese una soluzione di destra, finchè giunsero finalmente i tempi delle possibilità concrete. Avevamo da affrontare potenti nemici, dallo schieramento conservatore e reazionario , alla Chiesa, agli Stati Uniti. C’era diffidenza ancora sull’autonomia socialista e da varie parti si pensava che si volesse andare al Governo per aprire la via ai comunisti. Ma intanto erano cambiati i protagonisti. C’è Kennedy e la Nuova Frontiera in America, c’è Krusciov a Mosca e in Vaticano c’è Giovanni XXIII. Ricordo che un giorno, lamentandomi con La Pira della durezza persistente contro di noi del Papa e della Chiesa, mi rispose serafico: “Abbi fede nella divina provvidenza”, e la divina provvidenza ci dette Giovanni XXIII.
Il discorso con gli Stati Uniti fu quello che sviluppammo con i kennedyani ed un ruolo non secondario lo svolsi io stesso, in particolare con Schlesinger. Con loro entrai alla Casa Bianca.
Fu un’epoca di grandi speranze alimentate dall’incisiva e coraggiosa opera di riforme del primo governo di Amintore Fanfani, soprattutto con quelle delle nazionalizzazioni dell’energia elettrica e della scuola. Fu esso che aprì la strada al Governo Moro. Il centro-sinistra non ci sarebbe stato senza l’opera di Fanfani e di Moro. Soltanto Fanfani aveva la capacità di decisioni rapide e coraggiose, anche radicali, e credo che la storia del primo governo organico di centro-sinistra sarebbe stata diversa se il Presidente del Consiglio fosse stato Fanfani. Tuttavia senza Moro quel primo governo non ci sarebbe stato, poiché solo lui aveva quell’incredibile capacità di mediazione, di accordare, di appianare i contrasti così da giungere all’inatteso risultato che l’intera Democrazia Cristiana accettasse il centro-sinistra.
Ciò ebbe però un alto costo poiché entrarono nel governo in posti chiave i “Dorotei” – i moderati – non per attuare le grandi “riforme di struttura” ma per boicottarle. Avevano in Emilio Colombo, Ministro del Tesoro, il loro potente leader.
Si deve dire che ancora una volta la situazione era mutata nei suoi protagonisti. Sembrava soffiare ormai per noi un vento contrario. Gli anni del miracolo stavano lasciando il passo ad una congiuntura negativa. Nel 1963 era morto, assassinato, Kennedy, ed era morto Giovanni XXIII; e nel 1964 era stato destituito Krusciov per lasciare il posto alla grigia restaurazione di Breznev. Nel 1964 morì anche Togliatti. E noi socialisti eravamo più deboli nella nostra forza contrattuale per la scissione del PSIUP.
Fu la congiuntura negativa l’alibi per Colombo ed il Governatore della Banca d’Italia Carli per bloccare le riforme. Era vero che occorrevano misure anticongiunturali, ma è anche vero che la situazione fu dipinta assai più grave di quanto fosse. All’inizio del 1964 si parlava di milioni di disoccupati che stavano per sopraggiungere ma che non ci furono. Se ricordiamo oggi le cifre di quella congiuntura possiamo stupirci. La crescita economica era intorno al 3%,la disoccupazione al 4%, la finanza pubblica capace di finanziare il deficit, tanto che fu deciso di rinunciare al prestito americano già concesso.
Tuttavia il 26 maggio 1964 apparve sul Messaggero una lettera inviata al Presidente Moro, ma da lui ignorata, in cui il Ministro Colombo denunciava il “pericolo mortale” per l’economia e “per la stessa democrazia” se si fosse continuato ad insistere sopra “la dogmatica delle riforme di struttura”. Era una campana a morto suonata in modo irregolare, fuori delle normali vie della correttezza politica. Dopo 225 giorni di vita si avviava alla fine il Governo Moro. Il Presidente stesso aveva la responsabilità della lentezza, dei rinvii, dell’incertezza nell’azione per un eccesso di cautela e di prudenza. Ma neppure lo schieramento socialista era compatto poiché si accentuavano i dissensi fra autonomisti e lombardiani. C’era il “riformismo rivoluzionario” di Riccardo Lombardi. Lombardi era una personalità straordinaria, ricco di cultura e di fascino, con un vasto seguito tra giovani ed intellettuali. Era convinto che si potesse costruire il socialismo con le riforme e che il socialismo dovesse essere fondato sulla libertà: per questo autonomisti e lombardiani marciarono sempre insieme fino alla costruzione del governo. Ma Lombardi concepiva le riforme di struttura come colpi progressivi inferti al capitalismo fino ad abbatterlo.
La nazionalizzazione dell’energia elettrica era un colpo allo stomaco del grande capitalismo e credo che la sua realizzazione l’abbia convinto della realizzabilità del suo programma, anche se purtroppo si finì per dare un’enorme massa di mezzi finanziari alle ex società elettriche (che li impiegarono malissimo). La legge urbanistica doveva colpire a morte la rendita fondiaria, e la programmazione doveva equivalere “allo spossessamento dei poteri di decisione economica della classe imprenditoriale”. Non è chi non veda l’utopismo che esiste in questo programma quando il PSI aveva soltanto il 14% di voti di fronte alla grande democrazia cristiana che controllava tutta l’economia pubblica, il mondo imprenditoriale, le strutture stesse dello Stato e l’alta burocrazia. E’ certo che in politica occorre anche la fantasia creatrice ed accendere fedi e speranze: e forse per questo è tutt’ora vivo il fascino di Riccardo Lombardi, mentre noi autonomisti – che sostenevamo non un riformismo spicciolo, ma il profondo riformismo della programmazione, dell’economia guidata dai pubblici poteri per superare gli squilibri territoriali e sociali – siamo stati dimenticati: eravamo troppo grigi, troppo piatti, quasi insignificanti. In Italia i riformisti sono quasi sempre non solo minoritari, ma quasi di scarso rilievo. Così ci hanno dimenticato.
La riprova in questi giorni l’abbiamo nella rievocazione della catastrofe del Vajont. Nessuno, nemmeno i ministri, ha ricordato ciò che fece lo Stato. Quando diventai Ministro dei Lavori Pubblici mi trovai davanti come primo problema la tragedia del Vajont. Appena un mese dopo, in attesa delle conclusioni della Magistratura, punimmo i responsabili della Pubblica Amministrazione. Cacciammo i due prefetti di Udine e Belluno, sospendemmo due ingegneri del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici e i due ingegneri capo del Genio Civile di Udine e Belluno. Tutta la stampa dette grande rilievo alle rapide decisioni, e ci fu un largo consenso nell’opinione pubblica. Ma facemmo di più. Nominai un comitato formato dai massimi urbanisti e preparammo un piano territoriale organico per la ricostruzione, unico esempio di programmazione urbanistica di un comprensorio. Facemmo e finanziammo la legge che passò a larghissima maggioranza. Credo che ormai non ci sia più non soltanto il ricordo delle misure punitive, ma neppure di quel comprensorio, quasi certamente sommerso dall’espansione disordinata e dal cemento.
Mi trovai presto alle prese con il mio compito maggiore: la legge urbanistica. C’era il testo preparato da Sullo e sconfessato alla vigilia delle elezioni dalla stessa DC come un progetto personale. Contro di esso si era scatenata una violentissima campagna di deformazione dipingendolo come una minaccia di togliere agli italiani la proprietà della casa. Naturalmente era falso, ma efficacissimo. Si trattava ora di mantenere la sostanza della riforma che colpiva la rendita fondiaria togliendo le asprezze e, se possibile, scacciando la paura di perdere la casa da parte degli italiani. Fu fatto anche qui un Comitato di grandi urbanisti. Al posto del diritto di superficie ponemmo la vendita all’asta di terreni urbanizzati e riducemmo gli espropri generalizzati ai distretti urbanizzati. Il testo della legge era pronto per andare al Consiglio dei Ministri quando (anche in questo caso su Il Tempo del 24 marzo del 1964) apparve, evidentemente sottratto chissà come, il testo integrale del disegno di legge, e di nuovo si scatenò una furibonda campagna come se nulla fosse mutato. Io divenni “Il nuovo nemico” per la potente coalizione di interessi che guidava la campagna, i costruttori edili e le grandi e minori società edilizie laiche, cattoliche e dello stesso Vaticano. Non riuscimmo a chiarire bene la sostanza della legge né a mobilitare le forze sociali al nostro sostegno. Era la legge contro le rendite fondiarie, ma non si mossero né i sindacati, né le forze di sinistra. Così il disegno di legge non arrivò mai al consiglio dei ministri né allora né poi. Una legge urbanistica generale non fu mai fatta.
Sono convinto che la vera causa della caduta del Governo Moro fu proprio la legge urbanistica, comprese le minacce di De Lorenzo e il “rumore di sciabole”. Segni era fermamente contrario alla legge e aveva fatto sapere che non la avrebbe mai firmata, neppure se fosse stata approvata dal parlamento. Erano troppo grandi gli interessi colpiti.
E venne l’epoca del 2° Governo Moro: l’epoca della programmazione, ed ancora una volta fui io il Ministro del Bilancio. Non fu lavoro breve né semplice la formulazione del “Piano Pieraccini”, poiché si partiva da zero e occorreva impiantare tutte le strutture e stabilire i poteri del nuovo Ministero: però purtroppo con un grave handicap, poiché la Ragioneria generale dello Stato, strumento essenziale per la manovra economica, non era nelle mani del Ministero del Bilancio, ma del Ministero del Tesoro. Comunque il programma quinquennale diventò legge (poichè evidentemente non si fidavano di un semplice documento votato dalle Camere). Ma l’argine legislativo non bastò.
Compimmo notevoli errori che vorrei ricordare: il più grave fu che non ponemmo fra la priorità la riforma dello Stato e della burocrazia. Fu un errore commesso fin dalla Liberazione quando prevalse la tesi della continuità dello Stato, con il peso mortale del centralismo del potere e della burocrazia. La continuità dello Stato è ancora presente e danneggia anche l’economia dei nostri giorni.
Facemmo una programmazione omnicomprensiva, dove c’era previsto tutto, dallo sport alla cantieristica, dalla pubblica istruzione alla cultura. Non era una programmazione “polacca”, come diceva la Confindustria, e neppure “neocapitalista”, come dicevano i comunisti, poiché era fondata su ampie consultazioni, anche regionali, e sull’attiva partecipazione degli imprenditori, dello Stato, del Sindacato: ma di sovietico aveva questa sterminata ampiezza che copriva tutti i campi delle attività umane. Abbiamo scritto dell’utopismo che si annidava nel pensiero di Lombardi, ma devo qui confessare che c’era anche in noi un bel po’ di utopia, poiché era assai poco realistico che l’immensa macchina a orologeria si muovesse armonicamente con i suoi mille ingranaggi. Era una visione di tipo illuministico, di fiducia nella ragione, ma non funzionò. Avremmo dovuto concentrarci su alcuni obiettivi prioritari, con in testa la Riforma dello Stato, anziché disperdersi in mille obiettivi.
Infine non abbiamo dato la necessaria priorità alla ricerca scientifica e tecnologica. Negli anni ’60 erano morti Mattei e Olivetti, era stata smantellata la politica nucleare con l’arresto di Ippolito, quasi demolendo tutti i punti di forza di valore internazionali che avevamo. Ma noi non reagimmo efficacemente, non ci impegnammo per la difesa concreta e la rinascita della scienza. Formulammo soltanto delle dichiarazioni di priorità e nel Programma aumentammo le risorse, cercammo di impiegare l’organizzazione, ma la ricerca scientifica, le scienze, lo sviluppo tecnologico non furono una vera priorità, come non lo sono ancora oggi. Ed il Paese appare sempre più lontano dai Paesi più sviluppati. Fui anche Ministro della Ricerca Scientifica, ma senza portafoglio, senza mezzi e senza reali poteri. Ciò ha significato una perdita di capacità di sviluppo e di competitività un distacco dai paesi più avanzati.
La nascita del centro-sinistra fu comunque una svolta importante nella nostra storia perché la società italiana divenne una democrazia fondata sui diritti civili progressivamente conquistati: il divorzio, l’aborto, il processo di riduzione del divario uomo-donna, i diritti dei lavoratori, le libertà sindacali, la realizzazione degli istituti della Costituzione ancora non attuati.
Dopo la caduta del comunismo prevalse l’economia del mercato e la sua ideologia. Non ci fu una politica alternativa della sinistra. Tutti i poteri dell’economia internazionale sposarono l’ideologia del mercato come capace di risolvere i crescenti e gravi problemi e fu la politica della stabilità e del rigore: in realtà fallita, ma tenacemente perseguita ancora oggi.  Bisogna, per superare la crisi, ricostruire una politica di sviluppo guidata dai pubblici poteri e, come allora, disegnare un piano di economia mista. E’ difficilissimo e perciò la crisi appare sempre più grave nonostante le dichiarazioni di ottimismo per un futuro non lontano.
Ormai siamo in un mondo completamente diverso, anzi alle soglie di una nuova era nella storia degli uomini. E’ il mondo della Rete, dell’informatica, della bioetica, della conoscenza sempre più profonda delle sorgenti della vita, con i genomi, i bosoni, la possibilità perfino di manipolare il DNA. Non sappiamo quale nuova società, quale nuova economia, quale nuova organizzazione sociale sostituiranno le vecchie obsolete strutture. Ma sappiamo che resteranno comunque fondamentali i valori per i quali lottammo e cioè che in ogni caso al centro della società ci deve essere l’uomo con la libertà e la giustizia.