di Luigi Covatta

Il 28 maggio di quarant’anni fa veniva assassinato Walter Tobagi. Ad ucciderlo furono alcuni ragazzi della Milano bene la cui massima aspirazione era quella di essere arruolati nelle Brigate rosse: le quali evidentemente godevano ancora di un notevole appeal, nonostante la retorica della fermezza con cui, per evitarne il “riconoscimento politico”, due anni prima democristiani e comunisti avevano sacrificato AldoMoro.

Walter era mio amico. Come me aveva cominciato a scrivere sulla Zanzara, il giornale studentesco del nostro liceo. Poi, una volta assunto all’Avanti!(e poi come redattore di Avvenire), non fece mancare (con lo pseudonimo di Palmiro Fiorelli)la sua collaborazione a Settegiornie ad Alternativa, i settimanali coi quali, a cavallo fra gli anni ’60 e ’70, cercavamo di superare l’unità politica dei cattolici nell’ambito di una auspicata (e mai realizzata) ristrutturazione della sinistra.

Nel 1978, da inviato del Corriere della Sera al congresso di Torino,mi trasse d’impaccio durante una conferenza stampa in cui cercavo di illustrare i contenuti del Progetto socialista navigando fra le astrazioni ideologiche.“E’ il manifesto della socialdemocraxia”, disse, cogliendo con esemplare sintesi giornalistica i due principali aspetti di quel documento: il definitivo approdo del Psi al socialismo europeo e la sua altrettanto definitiva identificazione con la leadership di Craxi.

Eravamo insieme anche il 7 aprile dell’anno dopo, quando il giudice Calogero pensò di avere debellato le Br con la retata dei “cattivi maestri”: ed insieme manifestammo il nostro scetticismo, anche polemizzando con i due docenti dell’Università di Padova che erano con noi e che non nascosero un peraltro comprensibile sollievo. Del resto Walter era stato il primo, già nel 1970, a prendere sul serio il terrorismo rosso, pubblicando con Sugarco una Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia: e quindi sapeva che i brigatisti non solo non erano da confondere con i teppisti di Autonomia operaia, ma non erano neanche invincibili samurai, come avrebbe scritto un mese prima di essere ucciso a commento dei successi conseguiti dal generale Dalla Chiesa in seguito al pentimento di Patrizio Peci.

Non fu per questo, comunque, che Walter venne ucciso: fu per il clima infame che si era stabilito nelle redazioni dei giornali da quando aveva osato sfidare il conformismo filocomunista del sindacato dei giornalisti. Una sfida che comunque non venne raccolta come tale, e cioè come stimolo ad un confronto di merito sulle questioni che riguardavano l’esercizio della professione in quella delicata fase di evoluzione del sistema mediatico: ma veniva buttata in caciara politica, rivolgendogli puramente e semplicementel’accusa di essere “un craxiano”.

L’accusa gli pesava, come mi confidò nell’ultimo incontro che avemmo, un mese prima della sua esecuzione. Non perché rinnegasse la sua simpatia per Craxi: perché lo scandalizzava quel modo di eludere le questioni che aveva messo sul tavolo, e lo spaventava l’odio che vedeva affiorare nel confronto politico.

Quest’anno cade anche il 50° anniversario dello Statuto dei diritti dei lavoratori, una legge concepita da Giacomo Brodolini e varata da Carlo DonatCattin: un’occasione anche questa per rammaricarsi del compromesso storico che non c’è stato (quello fra socialdemocrazia e cattolicesimo sociale), e per valutare i risultati del compromesso storico che invece c’è stato.

“Mi hanno odiato senza ragione”

di Ugo Finetti

“Stiamo dando l’addio a un uomo buono, a un lavoratore serio, mite e giusto”: così l’arcivescovo Carlo Maria Martini al funerale di Walter Tobagi il 30 maggio 1980. L’omelia proseguiva citando la Passione: “Mi hanno odiato senza ragione”. Come poteva un “uomo buono” aver provocato un tale odio da sfociare nell’assassinio? Nell’odio per Tobagi vi era anche invidia. A 33 anni era già un promettente storico alla Statale, il più giovane inviato del “Corriere della Sera”, un leader sindacale vincente che aveva rovesciato la maggioranza nel cdr del “Corriere” e poi nell’Associazione lombarda.

Sin dalla “Zanzara” era andato controcorrente bollando “il conformismo dell’anticonformismo” tra i giovani “figli di papà” del liceo Parini e poi nei suoi libri di storia, come “La rivoluzione impossibile” sull’attentato a Togliatti, irridendo la “storiografia sessantottesca” che faceva entrare gli avvenimenti “nella mitologia senza passare dalla storia”.

L’opposizione nel sindacato dei giornalisti, a quello che Eugenio Montale aveva definito “soviet di redazione”, fu quindi naturale. Ricordiamo alcuni esempi del cdr retto dai comunisti alleati con estrema sinistra: processo in mensa e comunicato di condanna di un articolo critico del “pansindacalismo” (caso Zappulli), e nel 1975 blocco di un editoriale di critica al regime militare filocomunista in Portogallo (caso Ronchey) e censura del titolo sulla chiusura del quotidiano socialista a Lisbona, trasformato da “I comunisti occupano il giornale socialista” in “Tensione tra Pc e socialisti” (caso Carnevali): nel 1976 fermo delle rotative con in stampa un articolo su un’assemblea all’Alfa (caso Passanisi).

Contro questo sindacalismo-soviet Tobagi animò una opposizione vincente in nome di professionalità e libertà del redattore: mettendo insieme non solo socialisti, cattolici e liberaldemocratici, ma anche chi aveva idee anarchiche o comuniste.

Non si tratta di criminalizzare gli avversari di Tobagi, che guidò in campo nazionale l’opposizione alla maggioranza della Fnsi (tra cui c’erano anche molti socialisti che la pensavano diversamente): ma di ricordare il fatto che soprattutto a Milano si era lasciata creare una “zona grigia” in pieno terrorismo e ci si era abbandonati ad attacchi esagerati contro Tobagi, tanto che le registrazioni degli animati dibattiti in “Lombarda” furono fatte sparire dopo il delitto.

Ma è sul fronte di inviato sui fatti di terrorismo che Tobagi si distinse per spessore di analisi. Era all’epoca prevalente il riflesso condizionato secondo cui se il terrorismo è di destra si allarga il possibile coinvolgimento – “strage di Stato”, “doppio Stato” – mentre di fronte al terrorismo di sinistra si restringe al massimo e si nega il minimo coinvolgimento: i terroristi sono isolati, sbandati e semmai manovrati in realtà da destra. Tobagi – sulla scorta anche della sua formazione di storico – approfondiva invece le idee e la cultura del terrorismo: quelle che Robert Conquest definì “le idee assassine”.

A Tobagi si deve in quegli anni la seria messa a fuoco del piano inclinato da estremismo a violenza, a “zona grigia” e a lotta armata. Proprio nelle settimane precedenti era stato oggetto per questo di violenti attacchi dall’”Unità” per aver segnalato l’esistenza di “proselitismo Br in fabbrica”. Nell’aprile 1980 il quotidiano del Pci lo definì “corvo della conservazione”, “anima antioperaia e antipopolare”. E’ da ricordare che le parole di Tobagi rispecchiavano quanto sostenuto all’epoca con tono anche più forte da Giorgio Amendola, che nel novembre 1979 aveva denunciato “un rapporto diretto tra violenza in fabbrica e il terrore”.

Tobagi aveva anche in questo caso animato un giornalismo di denuncia della “zona grigia” e si era esposto nel contestare apertamente i terroristi sostenendo l’azione di magistrati come Emilio Alessandrini e di Dalla Chiesa. Ed è appunto il generale Dalla Chiesa che parlando alla Commissione Moro – in luglio, quando aveva già messo sotto controllo gli assassini – evidenzia il carattere “mafioso” della sua uccisione. Secondo Dalla Chiesa i giornalisti fiancheggiatori delle Br agli inizi del 1980 rischiavano di essere isolati e individuati: “I pochi che erano riusciti fino ad allora a rimanere mimetizzati nella massa hanno corso il rischio di restare in evidenza”.

L’assassinio aveva avuto l’effetto intimidatorio di riportarli al coperto: “Il fatto del Tobagi ha riportato tutti a un livello inferiore, mimetizzando anche quei pochi che temevano di rimanere in vista”. Il testo di rivendicazione ebbe un ruolo determinante per questo effetto intimidatorio proprio per la sua “professionalità”. Che il documento – almeno “per il 90 per cento” del testo- non fosse opera dei giovani assassini è soprattutto la conclusione a cui arrivò il procuratore generale di Milano, Adolfo Beria d’Argentine, dopo averlo diviso in 14 brani e raffrontato le versioni su di essi date da Barbone a Dalla Chiesa, al Pm, al giudice istruttore e infine in Tribunale (con l’aiuto di un nucleo specializzato dei carabinieri e usando anche “l’analisi Psi” consegnata da Craxi agli inquirenti).

Anche la polemica di Craxi sull’informativa del dicembre 1979 è meno rilevante di quanto è stato sostenuto dal giudice Guido Salvini, secondo cui vi furono altre informative “successive”, “più esplicite”, poi “scomparse”. A ciò si aggiunge la Corte europea, che ha condannato l’Italia per la condanna dei giornalisti Magosso e Brindani che se ne sono occupati. Sono quindi autorevoli magistrati che in modo argomentato mettono in discussione la spontaneità e la completezza del “pentimento”.

Va anche ricordato che un “processo Tobagi” non vi fu: nel senso che nel 1983 si celebrò un maxi processo, frutto di nove istruttorie separate, in cui l’omicidio di Tobagi era uno degli oltre 800 capi di imputazione e l’assassino uno dei 164 imputati: nel ruolo – per di più – di testimone dell’accusa.

Al termine il tribunale riconobbe l’imputato colpevole, e dopo averlo condannato a solo 8 anni e 9 mesi ne ordinò l’immediata scarcerazione (affidandolo ancora per un anno ai domiciliari). Il processo si concludeva così con il padre della vittima in lacrime e l’assassino raggiante.

Una vittima delle èlites

Gennaro Acquaviva

 

Ricordando Walter Tobagi mi vengono in mente due vicende, due fatti, che lo identificano e me lo fanno rivivere per quello che è stato e che ha fatto, di importante e di grande, per tutti noi.Il primo è il suo essere stato, pur con molta discrezione, un protagonista ma anche un testimone di quel solidarismo cristiano che, nel pensiero e con la testimonianza di molti, ha potuto arricchire durevolmente il riformismo socialista dopo il 1976. Tra l’altro su di esso abbiamo potuto costruire il primo nucleo di quello che stiamo facendo dopo il 2000.

Il secondo – più importante anche perché ha rappresentato la ragione decisiva della sua morte tragica – è che Tobagi aveva capito molto del vissuto concreto del terrorismo nostrano: arrivando a vedere molte delle sue ragioni opportunistiche ed “operative”, come le connessioni con gli ambienti di relazione, specie quelli del suo mondo e della sua città. Aveva cioè capito e visto, con gli occhi della verità e dell’intelligenza, che l’impazzimento inevitabile indotto da almeno vent’anni di predicazione e pratica “rivoluzionarie” – innestate per di più da un comunismo inevitabilmente senza governo., cioè senza frutto – avevano accumulato un propellente di base su cui si era costruita la rete e la forza del terrorismo nostrano durante il lungo decennio deli “anni di piombo”. E questo era avvenuto nonsolo nelle liturgie populiste della lotta di classe, ma anche nei salotti della professionalità e dei riti milanesi.

Che questa sia stata la ragione – prevalente se non esclusiva – della sua condanna a morte a me sembra fuori di dubbio. Come è per me ancora da ricordare il valore della valutazione che espressero allora, quarant’anni fa, sia il gruppo dirigente socialista – specie milanese – che Craxi in prima persona. E cioè che c’era una evidente e ricorrente correlazione tra l’ambiente terroristico che decideva realmente l’azione, e che soprattutto sceglieva la vittima, e il suo mondo di relazioni: e questo valeva con particolare accentuazione nell’Accademia e negli ambienti specialistici e professionali, anche nella Magistratura, nelle aziende come nella stampa.  Una verità ancora oggi non rilevata e non riconosciuta. Il che la dice lunga sulla caratura della nostra classe dirigente.

Un paziente indagatore della realtà e delle idee

di Claudio Petruccioli

Era uno dei giornalisti più seri e capaci dell’ultima generazione. Era puntuale, pignolo, quasi monotono a volte (e per me è un complimento). Non penso che si mettesse a scrivere “di getto”, come si dice: lavorava, intervistava, ricercava. Una volta che venne a parlarmi per un’inchiesta su Milano, se non sbaglio, era già al quarto quaderno di appunti e si era incontrato con una trentina di persone ma non aveva ancora finito.

Si occupava di molte cose, anche di terrorismo: l’ultima volta che abbiamo parlato a lungo, lo abbiamo fatto proprio sul terrorismo. Era il ventiquattro aprile, una bellissima giornata. Stavamo in prefettura, in attesa – come diceva l’invito ufficiale – “di essere presentati al Presidente della Repubblica”. L’attesa fu lunga, superò le due ore. Tobagi aveva scritto qualche giorno prima sul terrorismo. Non ero d’accordo su certe cose che sosteneva: e cominciammo a discutere. A lungo, con tranquilla pignoleria, come si faceva con lui.

Un modo di discutere quasi “geometrico”: uno dice una cosa, l’altro risponde sì ma, oppure obietta e si va oltre. Un lavoro utile, mai inconcludente, perché alla fine ciascuno ha più materiale a disposizione, anche se resta della stessa idea.

E così era con Tobagi: tu le tue idee, lui le sue; in alcuni punti vicine, in altri lontane. Ma in più – e questo lo faceva sentire vicino, collega a me come a tanti – un gusto quasi maniacale del cercare, del catalogare, del costruire. Un costruttore al quale hanno tolto il tempo di cui aveva bisogno per la sua opera paziente e meditata (dall’Unità del 29 maggio 1980).

Il ricordo di Marco Preioni

Luigi, grazie.

Leggere il tuo ricordo di Tobagi mi riporta a rivisitare e revisionare i miei ricordi e le mie impressioni dei muramenti sociali dell’ altro secolo.

Alla fine degli anni sessanta il “proletariato” era finito.

Resisteva la “classe operaia”, però destinata a trasformarsi in “altro” perchè la tecnologia che si evolve  fa cambiare “status” sociale a chi se ne serve.

Infatti quando cambia la tecnologia, la politica la segue ; perchè deve rincorre i cambiamenti, un po’ per assecondarli, un po’ per contrastarli. E cambia la società.

Quando nelle case arrivano il frigorifero e la televisione, che prima non c’ erano, la socializzazione del benessere cambia la vita della famiglia e la società cambia i valori di riferimento.

La “populorum progressio” di Paolo VI è del marzo 1967.

Il 1968 fu un “quarantotto” :   un terremoto che segnò l’ inizio formale della rottura di un equilibrio sociale cui seguì una lunga serie di scosse di assestamento.

Lo “Statuto dei Lavorartori” è del 1970.

Ma l’ imborghesimento psicologico che porterà in paradiso la classe operaia parte da una rivoluzione della meccanica automobilistica … nel 1971 la FIAT sostituisce la 850 a trazione posteriore con la 127 a trazione anteriore : è un cambio di filosofia tecnica che fa cambiare le aspirazioni di vita con l’ aspettativa ad un diverso “confort” e diversa socialità.

La società è disorientata : la rudezza proletaria è attratta dalla mollezza borghese e i rammolliti borghesi si atteggiano a rudi neo-proletari … Giangiacomo Feltrinelli arriva a Segrate con una alto-borghese Volvo e salta in aria come un rude proletario attaccato ad un traliccio nel marzo 1972.

Muore la casta dei “signori” e nasce la “società signorile di massa”.

E mentre i “quadri” FIAT pensano a fare carriera, nel 1972 a Torino si sente già aria di quello che sarebbe poi diventato il terrorismo  reazionario ed antiprogressista degli anni di piombo … attaccamento “romantico” alla visione estetica di un mondo del lavoro che sta per essere sconvolto dalla rivoluzione tecnologica della informatica e della robotica che uccidono la catena di montaggio e trasformano gli operai in “partite IVA”.

Io frequentavo allora il corso di Amministrazione Aziendale di via Ventimilia e nella tarda primavera del 1972 avevo conosciuto una ragazza di Biella che abitava in zona di Corso Giulio Cesare, periferia “sub-borghese”, est di Torino, in un appartamento che divideva con altre due ragazze.

Andavo a trovarla quasi tutti i pomeriggi, fino a quando arrivarono quattro o cinque frequentatori di quella “casa-comune” che mi cacciarono perchè avevano saputo della mia iscrizione ad Amministrazione Aziendale, scuola dei “padroni”, mentre loro erano figli di operai :  mi minacciarono di bruciarmi la macchina se mi fossi fatto ancora vedere.

Si stavano quindi formando già allora quelle “cellule” che poi portarono ad episodi terroristici contro dirigenti industriali, sindacalisti, poliziotti, magistrati.

Per la mia vicinanza a Torino negli anni settanta sapevo così chi fosse Fulvio Croce, Presidente dell’ Ordine degli Avvocati, assassinato dalle Brigate Rosse il 28 aprile 1977.

Avevo infatti accopagnato mio padre, allora Presidente dell’ Ordine Avvocati di Verbania,  ad un incontro al Tribunale di Torino con gli altri suoi colleghi del Distretto proprio perchè era stato chiesto loro di sostituire d’ ufficio gli avvocati che i brigatisti avevano minacciato di morte se non si fossero rifiutati di partecipare al processo.

Ovviamente quando Croce venne assassinato, in casa mia ci fu enorme preoccupazione e anche scoramento perchè il sacrificio di Croce purtroppo non fu compreso dal mondo pusillanime della politica e venne rimosso  quasi subito da quello ambiguo del giornalismo.

Mentre Montanelli, che si era schierato, fu gambizzato nel giugno 1977.

Moro venne sequestrato nel marzo 1978.

Nel dicembre 1979 la Scuola di Amministrazione Aziendale di Torino divenne teatro del ferimento di cinque docenti e cinque studenti ad opera di Prima Linea che volevano fermare i corsi di formazione alla gestione imprenditoriale del lavoro, colpevole della sua complicità col “capitale”.

Tobagi fu assassinato nel maggio 1980, quando ormai il vento del furore terroristico stava virando ma volteggiava ancora nel cielo giornalistico e salottiero milanese.

Ad ottobre 1980, il giro di boa :  la marcia dei “40.000 quadri FIAT”, colletti bianchi a braccetto con tute blu, insieme par lavorare in contrapposizione a studenti ed operai insieme per sabotare la produzione.

Da allora sono passati 40 anni.

Col continuo e rapido mutamento tecnologico, siamo arrivati ora alla “società inter-net-connessa” … materializzazione del mondo di “fahrenheit 451”, con la “democrazia diretta” gestita dalla “piattaforma Rousseau” e stiamo assistendo al declino della “società signorile di massa”  a causa del “distanziamento sociale”.

Ciao

marco

 

Il ricordo di Paolo Bellinazzi

­ Caro Covatta,

con il tuo articolo mi hai “tirato fuori” letteralmente, come si tira fuori un dente, qualcosa che avrei preferito dimenticare, tra cui la morte di Luciano Pellicani, che è stata  per me la morte di un amico, di quelli che oggi se ne trovano di rado. Se penso a quello che abbiamo dovuto passare negli anni del terrorismo anche per colpa dei comunisti, diciamolo pure, mi viene da vomitare. Se penso agli anni e all’atmosfera,  in cui fu assassinato Tobagi, che tu hai così bene evocato, mi viene da comprare un lanciafiamme per usarlo contro quei disgraziati giovani che lo hanno ammazzato. Se penso a quel Socialismo Cristiano che pure avrebbe potuto esserci e vincere la partita  al posto del compromesso storico, non capisco come quest’ultimo abbia potuto sopraffarci. Mi viene un gran rimorso perché temo di non aver fatto abbastanza per far passare quella istanza sacrosanta Socialista e Cristiana di cui tu hai parlato. Adesso che ho tolto il dente sto meglio perchè mi è passato il dolore. Ma mi è restato il “vuoto” del “buco”. E mi chiedo passandomi la lingua sulla  ferita della gengiva  ancora fresca , desolato, come sia potuto accadere tutto  ciò..

Scusami per le immagini letterarie infelici e per la foga con cui ti rispondo, ma davvero c’è da domandarsi se l’Italia di oggi, in cui non si sopportano neppure delle leggerissime mascherine chirurgiche, da parte di chi starebbe così bene “mascherato”, sia davvero la figlia di quell periodo storico, in cui persino il compromesso storico ebbe una sua indubbia grandezza politica.

Cordiali saluti

Paolo Bellinazzi

I veri eroi del nuovo pantheon democratico. Walter Tobagi[1]

Stefano Rolando

 

Questo ritratto sta negli anni sessanta di questo libro “Quarantotto” – con uno strappo narrativo rispetto ai contenuti qui di seguito proposti – perché in quegli anni, sui banchi di due diversi licei o meglio nelle redazioni di due giornali studenteschi gemelli, stringemmo amicizia. Perché in quegli anni nacque in noi ragazzi la passione del giornalismo, che Tobagi tradusse al più presto possibile in professione. E perché il contesto della nostra formazione fu rilevante nel suo magnifico percorso di vita e di lavoro a cui, nel 1980, misero fine coloro che, in fondo, odiavano noi, la nostra formazione e i nostri valori.

Queste riflessioni sono del 2005, dopo che su Tobagi quasi tutto era stato scritto. E sono state scritte nel giorno in cui finalmente una lapide con una sua frase fu posta a memoria del luogo prescelto per l’esecuzione. Non avevo ancora letto i recenti memoriali di brigatisti o terroristi, più o meno pentiti, che per aver spezzato una o più vite hanno avuto la immensa ed esagerata possibilità di raccontare la loro vita, di spiegare le loro scelte, di attenuare le loro responsabilità. Qualunque sia stato l’esito giudiziario, la loro responsabilità è scritta nel marmo. Come è scritta nel marmo la frase di Walter Tobagi. Come lo spiega bene, ora con il libro Spingendo più in là la notte, della fine del 2007, Mario Calabresi, giornalista di Repubblica, figlio del commissario Luigi Calabresi, ucciso a Milano il 17 maggio 1972. Nella sola Milano tra il ’71 e l’81 il fatturato del terrorismo sarà di 36 morti e 33 gambizzati.

 

 

Per anni non sono riuscito ad andare sul luogo del delitto. Ci sarò passato cento volte accanto, perché dista poco sia da casa mia che dall’università. È un quartiere – quello del parco Solari – della media borghesia milanese, grigiotto, ora abbastanza restaurato, commerciale e trafficato. In cui arrivandoci non in una ora di punta nulla può richiamare la condizione di teatro così violento e crudele. Ci hanno ammazzato vigliaccamente un padre di due creature piccole, un professionista affermato di soli 33 anni, una persona diritta, un giovane con alte passioni civili e una testa, la propria, per ragionare, distinguere, criticare, spiegare e amare.

Ero suo amico dai tempi del liceo, quasi coetaneo. Lui Parini, io Carducci, lui redazione Zanzara io Mister Giosuè, lui cattolico e socialista io repubblicano e poi socialista, lui passato dall’Avanti! all’Avvenire e infine al Corriere della Sera, io – da collaboratore esterno – dall’Avvenire all’Avanti! e infine alla Rai. Lui sempre a Milano, io a Roma da dieci anni.

Per prendere la macchina al garage di via Valparaisio da via Solari (parallela alla via Foppa, dove aveva casa Bettino Craxi), c’è da percorrere una vietta come tante a Milano, case allineate, molte di anteguerra e pochi negozi. È la via Salaino, un altro pittore, di minore fama. Ci sono tornato venticinque anni dopo, nel maggio del 2005 quando il Comune di Milano, l’Ordine dei Giornalisti e la “Lombarda”, che lui presiedeva, gli hanno dedicato una targa. Lì all’inizio della via Salaino, sul marciapiede di sinistra, sotto una pioggia battente, il 28 maggio 1980 Marco Barbone e Mario Marano – mentre Paolo Morandini fa il palo e Manfredi De Stefano è l’autista che raccoglie il manipolo degli assassini mettendolo al sicuro – gli scaricano addosso le loro pistole.

E finisce la vita di Walter Tobagi, uno un po’ speciale, pur se come tanti, coetaneo della Repubblica e della Costituzione, giornalista di ricerca e di analisi, politicamente moderato e riformista. Sindacalmente impegnato e diverso dalla sinistra ideologica che da qualche anno comincia ad inquadrarlo come un nemico. Nemico nelle redazioni e nelle assemblee dove per tutti gli anni settanta dichiarare guerra agli Stati Uniti d’America era il minimo che si doveva fare nella spirale dello scavalcamento a sinistra (sindrome storica dei comunisti diventata nevrosi con il sessantotto).

Nemico per i terroristi, attorno a cui scrisse sistematicamente a partire dal caso Moro e di cui scrisse un mese prima di morire l’ormai famoso articolo sul Corriere “Non sono samurai invincibili”.

Nemico per una diffusa mentalità neo-massimalistica coltivata in tante famiglie borghesi per la quale i genitori siaccontentano della loro appartenenza al PCI ma sono orgogliosi dei loro figli aggregati alla modernità rivoluzionaria.

Quelli della Brigata 28 marzo sono appunto i figli di dirigenti di spicco e marcatamente di sinistra dell’editoria milanese (Barbone), di un gruppo petrolifero (Marano) o di giornalisti notissimi (Morandini) che coabitano con la loro dialettica nella famiglia del partito “di lotta e di governo, rivoluzionario e conservatore”, eccetera eccetera, in cui una frangia non irrilevante si colloca nella apparente terra di nessuno del “né con lo Stato né con le Brigate Rosse”. Si capirà presto che quella “terra di nessuno” non esisteva e che anche chi, negli anni, è stato educato al rifiuto sprezzante dei riformisti e della cultura socialdemocratica continuerà – una volta che tutto sarà stato chiarito e spiegato – a parteggiare per Sofri e non per Tobagi.

 

Quelli della Brigata 28 marzo devono mettere in evidenza platealmente i loro requisiti rivoluzionari per accedere dalla porta principale nelle Brigate Rosse. Marco Barbone dirà: “Una carogna come questo da ammazzare non lo ritroveremo più”. Ci avevano provato con Guido Passalacqua, giornalista di Repubblica riuscendo solo a ferirlo. Poi con il giudice Guido Galli crivellato a morte davanti all’Università Statale perché “appartenente alla frazione riformista e garantista della magistratura”. Si chiamano Brigata 28 marzo perché il 28 marzo del 1980 i reparti del generale Dalla Chiesa fanno secchi a Genova quattro brigatisti di punta della colonna genovese – che viene sterilizzata – tra cui l’omicida del sindacalista del PCI Guido Rossa. I samurai del salotto rivoluzionario milanese (in un clima di stretta, che proprio l’azione dei nuclei speciali di Dalla Chiesa sta producendo in tutto il nord Italia) pensano di investire sulla vendetta.

 

Aveva dedicato l’ingegno della sua preziosa giovinezza a sgominare i fantasmi della demagogia e dell’irrazionalità”, dirà a caldo Carlo Tognoli, sindaco di Milano. Un obiettivo naturale, per l’inquietudine violenta e irrazionale di un brandello di generazione fuori dalle regole arginate dalla cultura costituzionale.

Leonardo Sciascia non è entrato nella vicenda specifica della guerra tra la sinistra riformista e quella massimalista (che è una guerra che dura per tutto il Novecento e che ha fatto morti come una guerra vera, educando al sospetto e alla cultura della trama generazioni dopo generazioni) ma entra nel merito di una cultura criminale, dicendo “L’hanno ammazzato perché aveva metodo”.

Ma sono Indro Montanelli, Giorgio Bocca, Massimo Fini, Giampaolo Pansa, a cogliere il senso assurdo – perché ormai senza una qualche legittimità di contesto, come fu la guerra di liberazione – di una prolungata guerra civile, di uno scontro culturale tra due blocchi della sinistra e della stessa borghesia.

Ha scritto Indro Montanelli: “Il PCI, lo si è detto, esitò a lungo prima di prendere una posizione risoluta contro il terrorismo, nel timore di parere reazionario e amico dei padroni. Il sindacato fu anch’esso perplesso e ambiguo[2]. Giorgio Bocca (citato dallo stesso Montanelli) a proposito del sindacato dice: “Sa che l’ideologia e i metodi dei terroristi derivano in parte dai metodi e dalle ideologie delle lotte operaie. Certo c’è differenza ora tra il picchettaggio duro e lo sparare all’avversario di classe, ma è difficile dire dove finisce l’illecito e comincia ad essere terrorismo[3].

Ha detto con precisione lapidaria Massimo Fini – che insieme a Franco Abruzzo e a Walter Tobagi aveva rappresentato discontinuità rispetto alla linea filocomunista in seno al sindacato dei giornalisti – che “Tobagi non fu ucciso da dei veri terroristi, fortemente anche se malamente motivati, alla Curcio o alla Franceschini, ma da dei figli di papà male educati, che avevano perso completamente il senso delle cose per mano dei loro genitori che fino al giorno prima (e per la verità anche dopo) avevano coccolato e vezzeggiato quei loro pargoli tanto “rivoluzionari” di cui andavano orgogliosi[4].

Giampaolo Pansa – nel suo percorso di riesame degli equivoci della “sinistra ideologica italiana” – ha scritto: “Tobagi sul tema del terrorismo non ha mai strillato. Però pur nello sforzo di capire le retrovie e di non confondere i capi con i gregari era un avversario rigoroso. Il terrorismo era tutto il contrario della sua cristianità e del suo socialismo[5].

Anche il nome di Leo Valiani (l’uomo che Sandro Pertini considerava dotato di maggiore coraggio fisico, insieme a Giancarlo Pajetta, in tutto il gruppo dirigente della resistenza italiana) era stato trovato in un elenco di una quarantina di persone in vista, “giustiziabili” dai terroristi dei “Reparti Comunisti d’Attacco” dopo l’assassinio del giudice Emilio Alessandrini, insieme a quello di Franco Abruzzo e di Walter Tobagi. Ed è Leo Valiani (il procuratore capo della Repubblica Mauro Gresti dirà che Tobagi e Abruzzo erano più esposti perché “Valiani vive oggi da clandestino come nel ’43-’45”) a fare questa riflessione: “L’Italia repubblicana non ha fatto, sotto i colpi del terrorismo, la stessa fine dell’Italia liberale sotto i colpi dello squadrismo. I politici, i sindacalisti, i magistrati, i poliziotti ed i carabinieri, i giornalisti, e le grandi masse del paese, hanno imparato qualche cosa dall’amara esperienza del primo dopoguerra. Se hanno saputo difendere la repubblica, lo si deve anche ad uomini come Tobagi ed al loro sacrificio. Buono, generoso quale era, se fosse rimasto in vita, Tobagi non se ne vanterebbe. Ma noi gli dobbiamo sempre un accorato omaggio[6].

 

Quando eravamo al liceo ci conoscemmo attorno al marzo del 1965. Lui stava nella redazione della Zanzara organo degli studenti del Parini, che era diretto quell’anno da Stefano Magistretti. Io a mia volta dirigevo la redazione del Mister Giosuè, che vantava la sua nascita proprio negli anni della Resistenza. Così le due redazioni – che stampavano il giornale dalla stessa tipografia in via Boscovich della signora Aurelia Terzaghi – decisero di fare un numero unico, con due testate distinte, per il ventennale della Resistenza, cioè per il 25 aprile del 1965. Walter scrisse due articoli importanti: un’inchiesta sulla conoscenza degli studenti di quel periodo storico e un’intervista al giornalista ex partigianoallora più noto a Milano, Giorgio Bocca.

Grazie a quella vicenda, rimanemmo amici nel passaggio dal liceo all’università. Entrambi alla Statale, lui a Lettere (che ricordo, quando lo annunciò sottovoce, ci sembrò una scelta in linea con la sua mitezza ma anche con il suo bisogno, espresso nei suoi articoli del liceo, di comprendere in primis i processi culturali), io a Scienze Politiche. Fu lui a dire una parola di introduzione a Leonardo Valente – direttore di Avvenire – che favorì la pubblicazione dei miei primi articoli significativi. E avendo compiuto il mio ingresso a ventidue anni proprio nell’Ordine dei giornalisti e proprio nella “Lombarda” grazie alle pubblicazioni costanti sulla stampa cattolica italiana (sia Avvenire che Settegiorni, diretto da Orfei e Pratesi, occupandomi di diritti umani, di politica internazionale e di America latina in particolare), lo raccontai con fierezza a Walter durante un “panino” nell’iperaffollato bar della Statale, che se ne uscì in una grande risata dicendomi che il pubblico del giornale (lui era già all’Informazione) mi considerava uno stagionato esperto di America latina, forse un diplomatico di lungo corso; e che non lo avrebbe detto a nessuno che ero invece uno studente formato nelle file dei laicissimi repubblicani. Era la passione per il giornalismo a rendere forse più importante le cose che scrivevamo rispetto a dove avevamo l’opportunità di scriverle.

 

Poi Roma e Milano, qualche diradazione. Sono i miei amici socialisti a tenere con lui un legame stretto, Ugo Finetti a Milano e Claudio Martelli a Roma. Saranno loro a scrivere le parole più addolorate subito dopo quel maledetto 28 maggio (Martelli ci tornerà su ampiamente con un programma televisivo nel 2004 centrato su un’intervista a Marco Barbone). La scelta del PSI per me arriva nel momento della maggiore crisi di quel partito, dopo le elezioni del 1976, quando si tocca elettoralmente il fondo. Ma si capisce che, occupando lo spazio politico “più giusto”, solo combattendo per le proprie idee si potrà risalire la corrente. È la prospettiva degli “autonomisti”. Fu la mia. Fu quella di Walter Tobagi, anche da prima. Lui la praticò – per dirla con Sciascia – “con metodo”. Fino a lavorare sul sistema del terrorismo, non cedendo di un millimetro là dove la confusione dei giovani postsessantottini e di tanti adulti, cercava di tenere dentro il proprio perimetro politico anche i percorsi dei “compagni che sbagliano”.

Ci incontrammo a Venezia in occasione di un convegno sull’informazione promosso dalla Fondazione Rizzoli nel giugno del 1979[7]. Lui giornalista-sindacalista (e curatore di quell’evento), io dirigente della Rai, in rappresentanza di Paolo Grassi di cui ero l’assistente. Se ricordo bene il convegno avveniva a Palazzo Grassi. E ci dedicammo un po’ di tempo all’intervallo, passeggiando nelle calli circostanti. Quello che mi disse Walter – un anno prima della tragedia – non l’ho ritrovato da nessuna parte, né sui resoconti, né sui libri che hanno raccontato il caso. Mi disse: “Adesso basta, di raccontare i fatti, gli eventi, i morti, i comunicati deliranti. Io adesso mi metto a studiare l’economia delle BR, mi metto a capire da dove prendono i soldi, come funziona il sistema di interessi che ci deve essere dietro”. Ho sempre pensato che un’intenzione così sia dovuta filtrare in un mondo che lo pedinava per strada, che lo registrava ai convegni, che lo rubricava in tutte le sue mobilissime attività.

Oggi – quasi trent’anni dopo – penso che il tributo pagato dai riformisti italiani alla guerra innescata dai terroristi di estrema sinistra, pagato dai tanti che hanno scelto concretamente la via del cambiamento graduale possibile per sconfiggere la via del cambiamento assoluto predicato astrattamente, ha nell’arco che va dall’assassinio di Walter Tobagi all’assassinio di Marco Biagi un percorso inequivoco che deve essere scelto, nel rinnovamento della politica italiana come l’unico pantheon accettabile per parlare dei problemi d’oggi con i profili simbolici di veri eroi che hanno avuto attorno a quei problemi il maggior coraggio possibile, il “coraggio della ragione[8].

Dopo quasi trent’anni – a proposito – Marco Barbone, dopo miti pene e pochissima prigione, lavora nel settore editoriale, si dice essendosi avvicinato alle posizioni di Comunione e Liberazione. Mario Marano – per essersi pentito solo tra il primo e il secondo grado – ha scontato qualcosina in più, è naturalmente libero e, ha dichiarato lui stesso, “con una visione cristiana della vita”. Paolo Morandini – pochissima galera – vive a Cuba. Manfredi De Stefano è morto in carcere a Udine nel 1984. Gli altri sono da tempo fuori dai guai[9]. Quando scarcerarono gli assassini di Tobagi Bettino Craxi era a Palazzo Chigi. Lasciò l’edificio e si trasferì a via del Corso per dettare da lì alla stampa, con la libertà di uomo di parte, tutta l’indignazione per la magistratura che aveva accolto le inaudite domande dei difensori.

Sulla lapide posta a memoria, allo sbocco di una via di Milano troppo tranquilla che rende dunque quella lapide in sé oggetto di scandalo, c’è una frase tratta dalla vita privata di Walter Tobagi, una lettera a sua moglie Stella. Si vedrà cosa voglio dire quando cerco di sottolineare quanto la propria vita, la propria famiglia, la propria intimità, peralcuni di coloro che hanno avuto la grazia di nascere nella pace e nella tenace ricostruzione dell’immediato dopoguerra, si mescola profondamente con il sentimento della collettività.

Anche nel pensiero che in quel sentimento ci siano drammi. E per Walter il dramma della negazione stessa della pace e della vita: “… al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione, che io avverto molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani (…) per contribuire a quella ricerca ideologica che mi pare preliminare per qualsiasi mutamento, miglioramento nei comportamenti collettivi”. (W. Tobagi, dicembre 1978)

 

 

La peste che uccise Walter

di Giampiero Mughini

 

 

«Dai, andiamo». E i due ragazzi di poco più che vent’anni, una mattina di maggio del 1980, scattarono per «colpire al cuore» e uccidere. Il loro bersaglio era un uomo di poco più che trent’anni, appena uscito da casa con un ombrello con cui ripararsi dalla pioggerellina primaverile.

Gli spararono quattro colpi, un quinto quando era già a terra, probabilmente morto. L’uomo ucciso era un giornalista, uno che aveva lavorato duro per emergere, prodigo nel raccontare quanto ostinato nel tentare di capire la cronaca del nostro tempo, un uomo mite e cristallino dai lineamenti rotondi, un padre divorato dall’affetto per i suoi due figli: il nostro carissimo Walter Tobagi.

Uno dei due assassini, un rampollo piccolo piccolo della borghesia milanese, il «pentito» Marco Barbone, ha raccontato la dinamica dell’agguato in un’aula milanese dove si sta celebrando uno dei tanti processi per terrorismo. Ha mostrato, nel ricordare, dolore e vergogna per quel gesto senza ragione e senza ragioni, ciò di cui è augurabile mai più riesca a liberarsi. A pochi metri di distanza lo ascoltava Ulderico Tobagi, padre di Walter. Nell’aula, e contrariamente a quanto avveniva e avviene nei processi per terrorismo, il silenzio era sepolcrale.

Alla domanda, posta prima dal pubblico ministero e poi dall’avvocato della famiglia Tobagi, se qualcuno avesse influenzato la gang terroristica nella scelta di mirare a Walter, Barbone ha risposto risolutamente di no. Personalmente, non avevo mai creduto che quel delitto avesse dei mandanti, dei corresponsabili che non fossero i sei sciagurati cercatori di gloria terroristica della «XXVIII Marzo».

Perché sparare a Walter, un uomo dolce, obiettivo nel suo lavoro giornalistico, un cronista misurato e onesto come pochi? Ricordo che la domanda ce la ponemmo, al circolo culturale Mondoperaio, quelli che ricordammo Walter poche settimane dopo la sua morte, e c’era Sandro Pertini in prima fila ad ascoltare.

Figli di una sottocultura settaria e isterica, di un vero e proprio ingorgo mentale, i sei assassini respiravano l’atmosfera ideologica di una certa Milano, feltrinelliana e operaista, un terreno in cui il terrorismo attecchì come la sua pianta più naturale. «Abbiamo sparato a Tobagi perché era un giornalista emergente», ha detto Barbone nel suo linguaggio talvolta legnoso ma sempre sicuro. E per quella sottocultura Walter era difatti un bersaglio possibile.

Innanzitutto per la sua attività nel sindacato giornalisti. Andrà ricostruita un giorno, ciò che da tempo Valerio Riva e Massimo Pini promettono di fare, l’atmosfera predominante nelle case editrici e in tante redazioni dei giornali a metà degli anni Settanta, le malefatte del feltrinellismo strisciante e nevrotico. Ora, Walter aveva infranto il talmudismo di sinistra, il sindacalese cattocomunista, in due punti specialmente importanti: che nell’attività sindacale non fosse sacra l’alleanza di giornalisti socialisti e comunisti, ma fosse invece possibile progettare un’alleanza tra i primi e i giornalisti laici, anche se politicamente moderati; che la politica rivendicativa egualitaria e protezionistica cara alle componenti maggioritarie del sindacato dei giornalisti avesse fatto il suo tempo e fosse un ostacolo allo sviluppo di un sindacato moderno, attento a «rappresentare» la qualità e la quantità delle prestazioni professionali dei suoi iscritti. Per questa sua attività Walter era indicato a dito negli ambienti giornalistici e sindacali milanesi.

Stiamo parlando di cose che nulla hanno a che vedere con il codice penale, ma che hanno tuttavia disegnato una mappa ideale non solo milanese, per lunghi anni. Fatevi raccontare da Luciano Pellicani, a riprova di quale fosse la tonalità ideologica dominante nelle redazioni, qual è stata la sua via crucis per riuscire a trovare un editore che gli pubblicasse il suo libro forse più bello, “I rivoluzionari di professione”, poi edito da Vallecchi nel 1975. Fatevi raccontare da Giampaolo Dossena le settimane di euforia sindacalese che anni prima avevano contribuito ad affossare e uccidere la più coraggiosa casa editrice degli anni Sessanta, il Saggiatore di Alberto Mondadori.

Nell’autunno 1975, dopo l’agguato terrorista a Indro Montanelli, in una riunione sindacale alla Mondadori di Milano discussero a lungo se mandare o meno un attestato di solidarietà al direttore del “Giornale”: ciò che un combattente dell’antifascismo come Giorgio Amendola era stato il primo a fare. Scelsero di no, quasi che le pallottole conficcate nelle gambe di un giornalista moderato fossero meno gravi e drammatiche di quelle conficcate magari nelle gambe di un eventuale giornalista di sinistra. In una successiva assemblea Lamberto Sechi, allora direttore di “Panorama”, deplorò vivamente quella scelta: non un applauso dall’assemblea che confortasse il suo discorso e il suo ragionamento.

Tra un’aberrante inclinazione ideologica e un agguato a fuoco non c’è nessuna relazione di causa ed effetto. La responsabilità di chi agisce è innanzitutto sua, di chi ha scelto quel determinato momento e strumento per compiere quella determinata «operazione». Non ho mai amato gli schizzi socioculturali tracciati a colpi di accetta, quale che fosse il versante culturale in cui andavano di moda. E tuttavia, è strano che quando Marco Barbone, Antonio Marocco, Mario Ferrandi alias «Coniglio», Daniela Brambati, raccontano nei dettagli «la peste» da cui erano stati presi e che a loro volta diffondevano, non ci sia nessuno a riconoscere come propria la paternità di questi ragazzi, troppi e troppo omogenei fra di loro perché i loro percorsi siano considerati puramente individuali, tali da non far regola. Nessuno che si ricordi di avere insegnato che la violenza è rivoluzionaria, di avere predicato il «beau geste» eversivo, di avere educato allo sprezzo e alla minaccia per gli esponenti della cultura riformista e moderata, di avere fatto, insomma, da untore di quella peste micidiale.

 

 

 

[1] Questo brano, con questo titolo, è stato pubblicato dodici anni fa nel libro: Stefano Rolando, Quarantotto – Argomenti per un bilancio generazionale, Bompiani, 2008.

[2]Indro Montanelli, Mario Cervi, Milano ventesimo secolo, Rizzoli, 1990.

[3] Giorgio Bocca, Noi terroristi, Garzanti, 1985.

[4]Intervista di Daniele Biacchessi a Massimo Fini in Giallo e Nero (Radio 24, 2005).

[5]Giampaolo Pansa, citato da Carlo Carotti in “La Rivisteria”, 152, dicembre 2005, p. 18-29

[6]Leo Valiani, “Perché lui?”, in Testimone scomodo. Walter Tobagi – Scritti scelti 1975-80.

[7]Fondazione Rizzoli, convegno sul tema Il giornale e il non-lettore (Venezia, 15-17 giugno 1979), atti a cura di Walter Tobagi e Carlo Remeny, editi da Sansoni nel 1981

[8]Il coraggio della ragione è il titolo di un libro distribuito nel 1980 da Sugar.co, curato da Gianluigi DaRold e introdotto da Ugo Finetti, per raccogliere e rendere noti i più significativi articoli di Walter Tobagi dal 1964 al 1980 (il libro è ormai introvabile, sono grato a Carlo Tognoli che avendone io presa in mano nel suo studiolo di via dei Bossi una copia non ha esitato a regalarmela).

[9] Sull’assassinio di Walter Tobagi torna nel 2005 Daniele Biacchessi, giornalista milanese di Radio 24, ricostruendo eventi e contesti. Walter Tobagi. Morte di un giornalista, Baldini Castoldi Dalai editore.