Il 25 aprile  è – per tutta l’Italia e per tutti gli italiani – il giorno “della Liberazione”. Festa giustamente nazionale e festa ineludibile della connessione con l’identità moderna di un Paese che doveva anche ritrovare la sua memoria civile.

Lo ricordarono già in molti tra il 1945 e il 1948, cioè tra la Liberazione e la Costituzione. Lo ricordò per esempio Ivanoe Bonomi –  socialista di orientamento riformista, presidente del Consiglio dei Ministri dal 1944 al 1945 (lo era  anche stato in condizione drammatiche tra il 1921 e il 1922 nella fase immediatamente pre-fascista) –  in un editoriale sul Corriere della Sera del 23 dicembre 1947 dedicato al voto largamente maggioritario della Costituente a favore della Carta costituzionale che sarà in Gazzetta Ufficiale  pochi giorni dopo, l’1 gennaio 1948.

Per Bonomi si doveva ricostruire la nostra  interrotta storia identitaria riandando non solo al Risorgimento e all’Unità d’Italia del 1861. Ma anche al 1848, anno dei grandi moti popolari europei e italiani (segnatamente quelli milanesi) che lanciarono la sfida al futuro dell’Italia. Sfida che il fascismo spezzò, cancellando conquiste morali e materiali e riportando gli italiani nella tragedia della guerra mondiale e poi della guerra civile.

Detto questo, il 25 aprile è anche il giorno in cui capitale morale dell’Italia è proprio Milano e non per l’economia, la finanza, l’impresa, il commercio. Ma perché a Milano il CLNAI (Comitato di Liberazione  Nazionale Alta Italia) – presieduto da Alfredo Pizzoni, Luigi Longo, Emilio Sereni, Sandro Pertini e Leo Valiani –  proclamò l’insurrezione generale di tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti, guidando l’attacco finale di tutte le forze partigiane attive nel Nord Italia di diversi orientamenti politici raccolte nel Corpo Volontari della Libertà  contro i presidi fascisti e nazisti imponendo loro la resa. Da Milano l’inconfondibile voce di Sandro Pertini lanciò per radio la sollevazione. Ecco la sua voce:

«Cittadini, lavoratori! Sciopero generale contro l’occupazione tedesca, contro la guerra fascista, per la salvezza delle nostre terre, delle nostre case, delle nostre officine. Come a Genova e a Torino, ponete i tedeschi di fronte al dilemma: arrendersi o perire».

Eroi anonimi

Cosa fu la Resistenza italiana? Molto più della sua “consistenza”

In ogni caso trecentomila partigiani poco avrebbero potuto senza la forza militare antitedesca di americani, russi e inglesi. Ma  permisero, con i propri centomila caduti, ognuno in condizioni eroiche, di restituire dignità e diritto di parola nel consesso internazionale ed europeo al Paese che stava per nascere (i tedeschi non riuscirono ad esprimere un’energia simile).

Il giorno di festa che tuttora si celebra non racconta un fatto burocratico, un trattato, una vicenda tra gli Stati. Racconta una storia di popolo, una storia di una generazione, una storia di uomini e donne che per lo più nel sostanziale anonimato misero il loro corpo in palio pur di cambiare il corso della storia maiuscola.  Quella che appare come segnata dal destino e che in realtà dipende sempre dal negoziato umano.

Ricordo di essere andato qualche anno fa a portare il mio contributo di memoria – proprio sulla figura di Sandro Pertini – per invito di Mario Artali, compianto amico, scomparso all’inizio del 2023, nell’area monumentale del Parco della Memoria di Fondotoce, vicino a Verbania un po’ al confine nord tra Piemonte e Lombardia. Migliaia di nomi di partigiane e partigiani caduti. Nessun nome famoso. Tutti nomi scritti su piccole lapidi per segnalare l’immensa lapide della loro storia al tempo stesso comune e monumentale.

Portavo anche, nell’occasione, la memoria della figura di mio padre, tenente di una compagnia di prima linea nella guerra di Grecia, sull’isola di Samo che decise nella notte del 9 settembre del 1943 non solo di non consegnare le armi sue e della sua compagnia ai tedeschi poco lontani da quell’isola (stavano a Rodi), ma di salire in montagna con i greci stessi per continuare la battaglia di liberazione europea. E anche unica via per salvare con coraggio la propria vita e quella dei suoi uomini.

Settembre 1943 – L’VIII compagnia della Divisione “Cuneo” dell’Esercito italiano – al centro con la pistola di ordinanza a tracolla il ten. Emilio Rolando – nell’isola di Samo.

Mai abbastanza, si fa sempre bene a spendere un po’ di inchiostro per raccontare il contributo dei militari italiani, allo sbando l’8 settembre, che non scapparono perché da un’isola non si può scappare e che scelsero l’unica via possibile. Cioè,  ragionando – in quel contesto ovviamente, senza sapere ancora della strage nella vicina isola di Cefalonia – sul cortocircuito della storia che quel giorno li investiva. E scegliendo, per la prima volta nella loro vita, di essere parte di un vero mosaico del cambiamento. Al tempo invisibile ma di cui poi il 25 aprile fisserà la sintesi in una data di identità collettiva finalmente pacificata.

Pacificazione e questioni aperte

È vero – qualcuno dirà – che la parola “pacificazione” è un po’ tirata per i capelli.

In ogni caso non si è mai smesso di discutere su questa parola anche sulla base di tanti approfondimenti storiografici e tante testimonianze a disposizione.

Due sono le dominanti della più recente investigazione che riguarda quella complessa fase storica.

  • Una riguarda il pluralismo delle ispirazioni dell’azione resistenziale della gioventù italiana combattente – uomini e  donne – che va sempre rivendicato (con componenti di sinistra, di centro e anche di destra, pur se in forma contenuta). Per dire quanto abbia fatto male la pretesa di parte di mostrare come prevalente il contributo della componente comunista rispetto all’importanza di questa coralità; responsabilità di una parte della storiografia comunista, anche se la contabilità dei caduti, va detto, riconosce a quella componente il suo rilievo.
  • Un’altra riguarda la pretesa della componente avversaria nella tragedia del biennio 1943-1945, cioè la componente fascista repubblichina, di chiedere legittimazione “patriottica” per la propria scelta, nel senso, viene detto, di avere dato un contributo alla “difesa coerente dell’orgoglio nazionale”.

Tanto si è scritto. Tanto si è polemizzato.

Così come ha avuto un ruolo l’indagine sui casi di eccessi di violenza di parte antifascista nell’immediata fine delle ostilità e della stessa guerra civile. Indagine che è stata negli ultimi anni rilanciata dai contributi di un giornalista italiano, Giampaolo Pansa,  che aveva una fama “di sinistra” e che ha accettato di compromettere un po’ la sua immagine rispetto a una certa parte dell’Italia  per svolgere la sua battaglia di “disvelamento”. Oggi chi lo difende dice che non hai mai rinunciato alle sue posizioni personali di difesa dell’antifascismo pur considerando “doverosi” i suoi scritti, di cui il più famoso è stato “Il sangue dei vinti”. Penso che, anche su questo, gli storici debbono continuare a portare ogni utile e non pregiudiziale chiarificazione. Chiarificazione che, per altro, l’occasione dell’80° del 25 luglio e dell’8 settembre 1943 – con i nessi tra queste due ravvicinate date riguardanti la fine del fascismo e la complessa transizione che porterà, dopo due anni, al 25 aprile 1945 –  ha impegnato molti storici a dare nuovi contributi (per esempio Emilio Gentile e Elena Agata Rossi) e molti giornalisti ad affrontare nuove interpretazioni.

Il fascismo aveva messo una nazione che non era in grado di sostenere una guerra “mondiale”, cioè su più fronti, nella condizione di disfatta. E i bombardamenti sulle nostre città – drammatici quelli su Milano – fin dal 1942 portavano alla inevitabilità dell’armistizio unilaterale. Argomento che comportava togliere la responsabilità militare della guerra dalle mani di Mussolini e riportarla al re, per rendere possibile  l’immediata diplomazia per uscire dal conflitto.

Casa Reale e Stato Maggiore agirono dunque – di intesa con una parte  del gruppo dirigente fascista che poi si  espresse nel corso del Gran Consiglio del 25 luglio – per creare quelle non rinviabili condizioni. L’unica condizione di “interesse nazionale” possibile.

Mussolini era finito. E’ stato raccontato come uno  ormai disposto a scendere dalla corsa. Solo il ricatto nazista lo riattivò e gli impose di rigenerare al nord, sotto la vigilanza poliziesca tedesca, uno Stato fantoccio, la Repubblica Sociale,  che genererà l’inevitabilità della guerra civile ritardando la fuoriuscita dell’Italia e degli italiani dalla catastrofe. Anzi entrando nella fase più dura e assassina, complicità nei genocidi nazisti inclusi.

Quale “orgoglio nazionale”? Quale “difesa della Patria”? Quale “coerenza morale”?

Il fascismo repubblichino fu una ridotta servile del peggio del totalitarismo del ‘900.

Se ci sono stati giovani che ci hanno creduto, ora diciamo pace all’anima loro.

Se ci fu coraggio in taluno, non sempre il coraggio, se è puro ardimento, è parte di una filosofia giusta e coraggiosa. La fiamma tricolore che nasce dalla tomba di Mussolini per invocare la riscossa – simbolo del post-fascismo italiano dal 1946 a oggi, con forme e contenitori diversi – è parte di questa manipolazione storica. Il Venticinque Aprile separa vinti e vincitori, certamente. Ma la Costituzione figlia del 25 aprile, pacifica nella sostanza giuridica e morale tutti.

Con un solo punto di intolleranza. Esprimere l’impossibilità di riconoscere che la riabilitazione dell’antipatriottismo fascista sia legittimo.

Per capire la natura profonda della trasformazione umana, civile e culturale tra il clima di violenza che ha caratterizzato l’età del fascismo, dalle origini agli ultimi giorni, dunque il senso di altrettanta profonda trasformazione dei caratteri simbolici stessi della cultura che sarebbe cambiata in Italia grazie alla riscossa costituzionale e antifascista, innumerevoli sono gli episodi che riguardano la mutazione della classe dirigente.

Ho citato prima Ivanoe Bonomi perché il Corriere della Sera proprio di recente ha ripubblicato, nelle anastatiche delle sue prime pagine storiche appunto, quella pagina del 23 dicembre del 1947.

Ma accanto all’editoriale di quel giorno c’è anche il pastone politico di quel giorno.

Che dà conto del clima in Aula a fronte dei 453 sì e dei 62 no al testo della Costituzione, dopo un lungo e serrato lavoro di preparazione.

Tra le dichiarazioni di voto viene citato Giorgio La Pira, democristiano e futuro sindaco di Firenze (che sarà anche uno degli ispiratori della trasformazione politica negli anni ’60 con il primo centrosinistra), che chiede che l’invocazione del testo dica “In nome di Dio, il Popolo italiano. si dà la presente Costituzione.” Eccetera

Togliatti, Concetto Marchesi e Piero Calamandrei intervengono con pacatezza per individuare un fattore di divisività e il presidente Umberto Terracini (a cui quella pagina dedica molte lodi) invita a ritirare la proposta “con la stessa nobiltà di cuore che la aveva spinta a suggerire quella introduzione“. L’articolo racconta di un La Pira che, accettando, allarga mestamente  le braccia. E racconta anche  di Francesco Saverio Nitti (liberal-radicale, capo del governo tra il 1919 e il 1920, a lungo in esilio durante il fascismo) e subito dopo di Palmiro Togliatti, segretario dei comunisti italiani, che si alzano dai loro scranni e vanno verso La Pira per abbracciarlo.

Il Venticinque Aprile, per tante di queste storie simboliche che nascono tutte dallo spartiacque del ‘45, è dunque una data irrinunciabile del calendario civile dell’Italia.