La creazione di un mercato globale secondo regole di leale competizione è stata una risposta ragionevole a due guerre mondiali di devastante impatto che ebbero origine anche da una competizione economica esasperata e sovente falsata da pratiche non leali[1].

Il mercato mondiale si aggiunge a “mercati regionali” presidiati da regole e da giurisdizioni proprie (MEC, NAFTA, MERCOSUR, Common Market of Eastern South Africa, etc.) e si affianca a Trattati sovranazionali di tutela dei diritti umani, anch’essi presidiati da organi di garanzia: Corte europea dei diritti dell’uomo (EHRC), Corte Interamericana dei diritti umani, la Commissione per i diritti umani (CHR), l’African Commission on Human Rights (ACHR), etc. Con riguardo ai trattati di scambio commerciale l’Europa è stata guida ed esempio per le esperienze successive e, per molti versi, rappresenta l’esperienza più avanzata: l’Unione Europea non è solo un insieme di regole e di garanzie di osservanza ma è anche una struttura, lato sensu, governante (Consiglio, Commissione, Parlamento, Corte dei conti, Banca Europea, etc.), come accenneremo nel prosieguo[2]. I trattati di garanzia dei diritti umani, invece, trovano la loro radice nella Dichiarazione Universale approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948.

Ma il mercato globale va oltre quelli regionali e li ricomprende. La mondializzazione dell’economia è promessa di pace e crea volani di sviluppo anche nei paesi tradizionalmente arretrati, ma favorisce il decollo di imprese sovranazionali che non rispondono nelle loro scelte a nessun potere politico costituito, ma, anzi, con le loro scelte, condizionano la politica dei governi. Attrarre investimenti stranieri è un vantaggio per ogni paese, ma questa attrazione dipende dalle politiche che si fanno e da come saranno giudicate dagli investitori, il cui giudizio, dunque, finisce con il condizionarle fin dall’origine e con il condizionare i loro successivi sviluppi.

È sperabile che queste regole “tengano” anche in un contesto nel quale la competizione fra “sistemi paese” diviene più aspra e tende a trasformarsi in competizione fra “sistemi politici”. Ma è un unicum, veramente abnorme, quello di un mercato con le sue regole, amministrate da strutture di giustizia sovranazionale[3], senza un governo che prevenga e corregga quotidianamente i circoli viziosi e gli esiti non equi di una competizione che avviene sotto la protezione di esse. Non è sufficiente, cioè, la loro “tenuta” a renderci tranquilli, quando i grandi complessi economici, localizzando o delocalizzando, condizionano, insieme, la vita sociale ed anche le regole di ciascun paese (non proprio della concorrenza che tendono a divenire universali, ma, ad es., nel campo sociale e fiscale).

La scienza economica ha sviluppato analisi fondamentali sulla concorrenza fra imprese, sui benefici del libero mercato, ma anche sui c. d. “fallimenti del mercato”[4] come pure sui punti di debolezza delle scelte pubbliche[5] proprio nell’ambito di una democrazia ove dovrebbero essere maggiormente garantite. Ma non ha ancora sviluppato (a quel che mi risulta) studi altrettanto convincenti sui vantaggi e sugli svantaggi della concorrenza fra “sistemi paese”, che sembra divenire quasi un sottoprodotto obbligato di una concorrenza fra imprese nel mercato globale, in assenza di un governo sovranazionale che ne prevenga gli esiti eventualmente irrazionali e li corregga ove iniqui. Le imprese, infatti, inevitabilmente sono condizionate dalle economie e dalle diseconomie dei sistemi nel quale sono inserite e, dunque, la concorrenza fra quelle finisce con coinvolgere una concorrenza fra questi.

La concorrenza economica fra “sistemi paese”[6] o, addirittura, fra blocchi politico-economici è certo più virtuosa del confronto politico e militare esplicito o sottinteso fra “potenze” del vecchio imperialismo, ma è, davvero, priva di rischi?[7] La concorrenza fra sistemi paese, per sé, può essere riguardata con favore ove solleciti la bontà e la economicità dei servizi pubblici (l’efficacia e l’efficienza, secondo un’espressione oggi consolidata) ma lascia perplessi ove sia distorsiva rispetto alle naturali scelte dell’elettore.

La sovranità del popolo (espressione forse ingenua ma ancor oggi innegabilmente suggestiva) viene sicuramene aggirata, sembrerebbe, quando le scelte dei popoli vengono messe in concorrenza fra loro per i vantaggi che ne derivano ad alcuni e quando un mercato trans-nazionale rende problematico il trasferimento di questi vantaggi sulle singole collettività nazionali.

La forza dei sindacati diminuisce, del resto, non solo in regimi di diffusa disoccupazione ma anche in presenza di una “libertà di stabilimento” che può essere anche una conquista rispetto a gravi proibizionismi del passato ma è anche un ostacolo costante per politiche economiche e sociali più ardite mentre rafforza, dappertutto, la conservazione.

Non è più decisiva la “sostenibilità” di ciascuna delle varie linee politiche possibili (requisito questo del tutto legittimo) ma la maggiore o minore convenienza dell’una rispetto all’altra per una ristretta cerchia di persone e ciò ferisce una delle condizioni, quella di eguaglianza, di un sistema democratico.

Non è, allora, da meravigliarsi se le statistiche mostrano come la distribuzione della ricchezza sia divenuta negli ultimi decenni sempre più ineguale. Né è lecito consolarsi con la tradizionale fiducia in una sua inerente funzionalizzazione al reinvestimento, perché le acquisite facoltà di delocalizzare ed altro finiscono con il rendere problematico anche questo esito.

In un contesto trans nazionale le stesse normative antimonopolistiche di ciascun paese rischiano di perdere mordente, sia per le valenze strettamente competitive inerenti all’interesse dei consumatori, sia per quelle più ampiamente democratiche[8]. Non è un caso se talvolta emerge, anche nei paesi più avanzati, un capitalismo aggressivo e illiberale, come spesso avviene quando il vincolo della paritaria concorrenza viene aggirato[9].

 

Qualcosa sull’ecologia.

 

Incalza, al tempo stesso, la rivoluzione informatica, i cui corollari sono non pochi, dall’emarginazione degli anziani (nuova singolare “povertà”), al “lavoro a distanza” che preannuncia il tramonto della grande fabbrica, luogo intenso non solo dell’immaginario collettivo ma anche di lotta politica e sociale. Sempre meno si distingue il lavoro autonomo da quello dipendente ma anche, insieme con le comodità ed i risparmi (individuali e sociali) di un lavoro gestito dalle mura domestiche, si attenuano le sinergie collettive che consentivano una contrapposizione quasi paritaria fra lavoratori e datori di lavori. I “colletti blu” si trasformano in “colletti bianchi”, con tutti i vantaggi ma anche le frustrazioni che a ciò si collegano[10].

La gestione, a tutta prima, più comoda del rapporto lavorativo finisce con il comportare anche la caduta delle barriere di orario, frutto, a loro volta, di antiche ed accese lotte sociali. Ad ogni ora del giorno e secondo le sue comodità, fuori, dunque, da regole prestabilite, il manager può disturbare i lavoratori che fanno parte della “squadra” che dirige. Unico limite finiscono con l’essere le necessità fisiche ed umane del manager stesso.

La concorrenza fra imprese, condotta sovente in via telematica, si traduce, a sua volta, in un  disturbo intollerabile del consumatore, cui, in questo caso, non è data la facoltà di assistere in  posizione distaccata e tranquilla ad una competizione che si svolge dinanzi ai suoi occhi per fare le sue ponderate scelte di qualità / quantità (di costo / qualità) nei tempi e nei modi che ritiene opportuni,  ma viene aggredito, attraverso il telefonino, dalle aziende in competizione, nelle ore più impensate e più comode per queste ma nei tempi e nei modi per lui più scomodi, e costretto a decisioni improvvisate, con una sequela di “sì” a domande prefabbricate, che aggirano le regole codicistiche che vietano “clausole vessatorie” non separatamente accettate.

Frequentare una biblioteca, assistere ad una proiezione cinematografica, entrare in una mostra di arte o in un luogo per qualche ragione pregiato od altro presuppone, ormai, una prenotazione telematica complessa ed escludente, che induce sovente a rinunciare a propositi genuini ma estemporanei e, dunque, a desistere.

Molte di queste crescenti restrizioni nascono talvolta in circostanze eccezionali: come quelle della recente pandemia o dei ricorrenti attentati terroristici, ma poi tendono a consolidarsi irreversibilmente. Il principio inesorabile di minimizzazione dei costi, comune ormai alle aziende private ed a quelle pubbliche, conduce a scaricare sempre più sull’utente, sul consumatore, sul “chiunque” una parte considerevole dei costi di produzione od erogazione dei beni o dei servizi che tradizionalmente erano a carico di chi li produceva od erogava.

Una nuova diseguaglianza sorge fra chi dispone di una segreteria e chi non ne dispone.

Per ogni verso “avere una segretaria” diviene un decisivo strumento di protezione dalle altrui impazienze comunicative come anche dai costi e dalle difficoltà di comunicare con un qualsiasi complesso organizzato, segna una differenza fra due categorie di consociati.

Ma è anche evidente che chi compone queste “segreterie” dovrà, a sua volta, essere “segretario di se stesso” e, dunque, riemergerà solo a fatica da una serie di incombenze complessivamente defatiganti.

Ciò si dice a prescindere da scenari più inquietanti quali possono derivare dall’automazione dei lavori manuali di tipo ripetitivo, le cui conseguenze sociali ed umane sarebbero ancora da valutare.

 

Il “precariato” diviene una categoria sempre più ampia che comprende il lavoro dipendente come quello autonomo, sempre più difficilmente distinguibili[11], e diviene nuova causa di esclusione, perché penso sia difficile programmare anche una propria vita privata, una propria discendenza in queste condizioni. La crisi demografica, comunque la si voglia valutare, ha varie ragioni ma una di queste è, probabilmente, proprio il diffuso precariato.

Non so se tutto questo conferma o contraddice la profezia marxista sulla crescente proletarizzazione dei ceti medi, perché segna piuttosto un ampio rimescolamento sociale, cui si accompagna, tuttavia, un’ampia e comune frustrazione.

 

I medesimi successi di una politica del benessere contribuiscono ad erodere le condizioni della immutata persistenza di non pochi istituti che la contraddistinguono. L’aumento della vita media delle persone si collega, probabilmente, a vari fattori ma, fra questi, anche ad un welfare diffuso, frutto di non pochi sacrifici individuali e collettivi. Questo aumento, tuttavia, erode le basi di un sistema pensionistico ancora fondato, in larga misura, sulla “ripartizione” e che, dunque, preleva gli importi pensionistici da erogare agli anziani in larga misura dalla “busta paga” dei lavoratori attivi. L’aumento della vita media, in una con la tendenziale diminuzione o, comunque, con il mancato aumento del numero delle persone in attività di servizio, dovrebbe comportare e comporta un tendenziale aumento dell’incidenza di questo prelievo fino a superare i limiti della tollerabilità. Il mancato aumento della popolazione attiva (non saprei fino a qual segno in astratto auspicabile) e, anzi, la tendenziale sua decrescita si collega, a sua volta, quanto meno “anche”, ad una condizione di precariato diffuso che consegue al caotico modello di sviluppo in atto. Il sistema sembra mordersi la coda. In ogni caso diviene difficilmente governabile.

La “riforma Dini” (legge n. 335 del 1995) contiene elementi di saggezza, ma non è certo risolutiva. Prevede un sistema pensionistico di tipo “contributivo”, ma questo carattere resta un modo di computare l’importo del trattamento dovuto, ha un valore, cioè, solo giuridico e non finanziario, in presenza del fatto che manca un capitale accumulato nel corso della vita lavorativa di coloro che attualmente vanno in pensione: il  prelievo a loro carico non è stato accumulato ma è stato speso contestualmente a favore dei pensionati del passato ed i prelievi attuali dei lavoratori attivi non possono essere, a loro volta, accumulati, dovendo, invece, essere spesi per i nuovi pensionati. Non si esce facilmente dalla logica di un sistema forse troppo spensieratamente intrapreso. Né basta all’uopo l’eventuale destinazione a fini pensionistici delle indennità di anzianità, utile, peraltro, solo all’interessato. La parola “riforme”, che nasce nell’ambito di politiche largamente inclusive, acquista, talvolta, nel nuovo contesto, il sapore amaro della misurata esclusione: si tratta, in questo caso, di riforme delle riforme, che, in qualche misura, ne invertono il “verso” progressivo. Questo che dico non implica un giudizio di merito, ma vuol chiarire il disagio delle forze di sinistra di fronte a certi problemi che nascono nel cuore stesso di passati successi.

 

Il mito del prodotto lordo nazionale, il desiderio di evitare confronti politici troppo accesi, conducono ad erodere “beni comuni e pubblici” come la stabilità finanziaria o l’equilibrio ambientale. Le generazioni presenti, in tal modo, rischiano di attribuire a sé un vantaggio su quelle future, che potrebbero finire con il trovarsi a “pagare i conti” di “feste” non godute. Tutto ciò è contrario alla naturale solidarietà fra generazioni e può divenire fonte di future “povertà” le cui dimensioni potrebbero sfuggire al nostro controllo.

 

Incalza, al tempo stesso, l’immigrazione di massa che ormai travolge le barriere dei fabbisogni di lavoro programmato, perché nasce da condizioni di un disagio, all’evidenza, intollerabile. L’immigrazione economica, regolata con leggi accurate[12] si confonde con la richiesta di asilo e con il rifugio nelle varie forme riconosciute dalla Costituzione, dal diritto europeo e dal diritto internazionale[13]. In questo contesto non è facile distinguere e selezionare immigrazione legittima o illegittima, perché i costi, i rischi, le sofferenze di questi “viaggi della speranza” in qualche modo sono prova della disperazione da cui nascono e, dunque, delle condizioni di un legittimo rifugio.

Le condizioni di prima accoglienza sono di estremo disagio ed anche il seguito non è privo di sofferenze. Al di là del “caporalato” che registra talvolta nelle campagne modi di nuovo schiavismo, si può notare, nelle città, un certo ordine di carattere etnico nelle attività che gli immigrati vengono a svolgere che, in qualche modo, mostra solidarietà interne ai gruppi ed anche una capacità di regolare i rapporti fra di loro. Ne nasce un mondo frastagliato nel quale l’eguaglianza si coniuga con la diversità, anche se talvolta il lavoro autonomo e precario che ne deriva confina davvero con l’emarginazione.

Al tempo stesso, le crisi aziendali, conseguenza di una competitività non estinta, come anche i disimpegni, conseguenza di una mobilità del capitale ormai priva di limiti, i continui mutamenti tecnologici, che mettono fuori gioco antiche e consolidate specializzazioni, creano sacche di dolorosa e, talvolta, irreversibile emarginazione il cui segno visibile è un numero crescente di persone che si rivolge alla carità privata.

 

Non so se il quadro delle esclusioni e delle diseguaglianze delineato è completo, anche se temo sia approssimato per difetto.

 

In questo contesto la dimensione europea sembra irrinunciabile, perché troppo facilmente governi nazionali isolati risulterebbero altrimenti preda del condizionamento dei poteri privati ed anche della concorrenza fra sistemi paese. Un’area ampia di equilibrato progresso produttivo, scientifico, culturale può attrarre e condizionare forze produttive che altrimenti sarebbero irresponsabili.

Le risposte politiche in sede nazionale ed europea all’insieme dei fattori che generano diseguaglianze non sembrano incongrue anche se sono insufficienti.

Abbiamo già accennato alla “riforma Dini” del sistema previdenziale (legge n, 335 del 1995). Essa “getta – in certo modo – il cuore oltre l’ostacolo”. Il “sistema contributivo” che crea ha un carattere solo figurativo e formale, ma in realtà difetta e non può non difettare di una base di accumulo patrimoniale adeguata e, dunque, il necessario sostegno delle pensioni in effetti corrisposte avviene attraverso la “ripartizione” dei contributi in atto versati dai lavoratori attivi. Ciò non esclude l’utilità di un modello che esibisce un criterio accettabile di commisurazione del dovuto e che generalizza questo criterio favorendo i passaggi da una forma di lavoro ad un’altra, anche al di là delle distinzioni giuridiche e formali.

Contiene, inoltre, forme previdenziali a carattere residuale, come la “gestione autonoma” (art. 2, comma 26, della legge) che coprono aree rimaste scoperte dalla precedente rete di garanzie[14].

Le precedenti riforme dei modi di “ricongiunzione dei servizi”, a costo zero, nelle forme del “pro “pro quota” o della “totalizzazione”[15] completano un quadro di sostegno a posteriori ad una “mobilità e varietà di lavoro” difficilmente contenibile.

L’introduzione del “reddito di cittadinanza”, forse in modi non ancora adeguatamente meditati, intendeva estendere la rete previdenziale ad un contesto di turbolenti trasformazioni nelle quali l’occupazione risulta sempre meno garantita[16]. Dovrebbe completare il quadro, una legge sul “salario minimo”, idonea non solo a contrastare forme nuove di schiavismo ma anche ad incoraggiare il lavoro.

Il volto dell’Europa si è progressivamente trasformato nel corso di questo secolo. Attraverso l’introduzione dei “fondi strutturali” che segue quella dei “programmi integrati”, l’Europa non si limita a garantire una “leale concorrenza nel mercato e per il mercato”[17] ma svolge una politica di intervento attivo nei “settori strategici”, nei casi e nei modi, cioè, in cui il mercato, per sé, non è in grado di offrire risultati ottimali, nei casi indicati come “fallimenti del mercato”. La “filosofia” che regge i fondi strutturali corrisponde, a livello europeo, a quella degli “aiuti di Stato” consentiti al livello nazionale[18]. La politica economica europea si salda, dunque, in positivo a quella degli Stati nazionali, non è più un insieme di divieti, a volte solo irritanti nella loro pretesa di essere lungimiranti, stabiliti nel presupposto (talvolta fallace) delle capacità universalmente salvifiche del mercato e della concorrenza.

Su questa strada si pongono, appunto, in modo imponente i Programmi Nazionali di Ricostruzione e Resilienza sostenuti anche con finanze comuni, dopo le devastazioni di una crisi finanziaria di spaventose proporzioni (cfr. Decreto-legge n. 59 del 2021, convertito in Legge n. 101 dello stesso anno)[19].

Tutto questo è sufficiente?

Forse sarebbe, allora, anche ragionevole rendere più efficiente il sistema istituzionale europeo. La governance europea offre felici elementi di resistenza alle deviazioni delle scelte pubbliche rispetto all’interesse comune, ai “fallimenti” della public choice, eguali e contrari rispetto a quelli del mercato[20]; ma è troppo spesso paralizzata da una sorta di “unanimismo strisciante” che è nelle regole ma viene applicato anche oltre quel che esplicitamente prescrivono[21]. Costruire un federalismo più vicino al principio di maggioranza, che eviti o riduca i “costi di transazione” di un troppo faticoso unanimismo è qualcosa che ha a che fare con le antiche e le nuove diseguaglianze.

La lentezza delle procedure istituzionali sembra talvolta inadeguata a fronteggiare la rapidità degli eventi economici e sociali[22] e talvolta questa lentezza è stata all’origine del fallimento di regimi che quasi se ne facevano vanto (ricordo il liberum veto polacco). Ma la riforma delle procedure richiede, ancora, procedure lente.

È inutile nascondersi dietro un dito: non si può eludere, qui ed ora, un forte impegno politico per fronteggiare problemi di proporzioni inquietanti.

 

 

 

 

[1] Cfr., ad es., F. KAUFMANN, Lo Stato democratico e lo Stato autoritario (The Democratic and the Authoritarian State), trad. it. a cura di N. Matteucci, Bologna 1973, 245 ss. (Parte III, cap. 8).

[2] Cfr., ad es., Y. SHANY, op. cit.

[3] Si tratta del c d. Dispute Settlement: un primo grado ha carattere piuttosto di arbitrato transattivo (Panels); un secondo grado (Appellate Body) ha carattere più nettamente giurisdizionale: l’azione appartiene solo agli Stati. Cfr., ad es., Y. SHANY, The competing Jurisdictions of International Courts and Tribunals, Oxford University Press 2003.

[4] Ricordo, ad es., F. CAFFÈ, Lezioni di politica economica, Bollati Boringhieri, Torino (1978). Nuova edizione rivista e aggiornata da Nicola Acocella, 2008. Cfr., più di recente, G. CHIRICHIELLO, Teoria economica – Approfondimenti di micro economia e di macro economia, 2008.

[5] D. MÜLLER, Public Choice, II, Cambridge University Press 1989 – trad. it. Napoli 1997 (ed. G. Gnocchi – Casa ed. Idelson).

[6] Cr, ad es., . GNES, La scelta del diritto – Concorrenza tra ordinamenti, arbitraggi, diritto comune europeo, Milano 2004; J. ALLARD – A. GARAPON, Les judges dans la mondialisation. La nouvelle révolution du droit, edit. du Seuil 2005, etc.

[7] Cfr. A. BRETON, Competitive Governments, Cambridge University Press 1992, 192, 195, 250 ss.; D.C. ESTY – D. GERADIN, Regulatory Competition, in Regulatory Competition, etc. (D.C. Esty – D. Geradin eds.), Oxford Un. Press, New York, 2001, 30 ss.

[8] Si tratta dei due poli di riferimento delle politiche anti-monopolistiche: cfr. G. AMATO, Il potere e l’antitrust, Bologna 1996; W. ROEPKE, Democrazia ed economia (saggi), Bologna 2004.

[9] Ricordo F, KAUFMANN, cit., nella nota n. 1 (ma cfr. anche p. 71 ss., 297 ss.) Ricordo anche P. CALAMANDREI e la sua fine analisi della teoria del c. d. “diritto libero”, su cui mi limito a citare uno scritto relativamente tardo: La crisi della legalità, del 1944, ora in Opere giuridiche, III, Napoli 1966.

[10] Ricordo l’oramai classico” studio di C. WRGHT MILLS, I colletti banchi (The Withe Collars) trad. it., Torino 1966.

[11] Nasce la categoria del rapporto di “lavoro para subordinato”: cfr., ad es., Corte costituzionale, sentenze n. 115 del 1994 …, 149 del 2010 —. 234 del 2022, etc.

[12] Fino al “testo unico” dato dal decreto legislativo n. 286 del 1998 e successive modificazioni fino al decreto-legge n. 198 del 2022 convertito in legge n. 20 del 2023.

[13] La sentenza della Corte costituzionale n. 194 del 2019 contiene una accurata ricostruzione del diritto di asilo, della protezione, internazionale, della protezione umanitaria, del rifugio.  Cfr. anche F. LENZERINI, Il principio di non refoulement dopo la sentenza Hirsi della C. E. del D. dell’uomo, in Riv. dir. int. 2012, 721.

[14] Un’autentica trattazione sul punto è rinvenibile nelle sentenze della Corte costituzionale n. 104 e 238 del 2022, attente, come avviene di recente, alla ricostruzione del “quadro normativo”.

[15] Cfr. decreto legislativo n 42 del 2006 e successive modificazioni.

[16] L’istituto ha subito successive modificazioni ancora una volta ben registrate nella giurisprudenza della orte costituzionale: cfr. sentenze n, 122 del 2020, 126del 2021, 19 del 2022.

[17] Concorrenza nel mercato ò quella fra imprese per la vendita dei loro prodotti; concorrenza per il mercato ò quella fra imprese per l’aggiudicazione di contratti pubblici (ciò avviene, in diverso modo, negli appalti e nelle concessioni).

[18] cfr. art. 107 e seguenti del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea, nel testo dopo Lisbona.

[19] Che da noi contengono anche un corposo capitolo ambientale.

[20] La costruzione di questa governance si deve anche a Jean Monnet, diffidente rispetto allo sfibramento degli istituti di governo attraverso diffusi negoziati fra gruppi di interesse, già evidenziato in sede politologia (ricordo il fondamentale saggio di Arthur Bentley dei primi del novecento) prima di essere analizzato in sede economica: cfr. A. ISONI, L’Alta Autorità del carbone e dell’acciaio -Alle origini di una istituzione pubblica, Lecce 2006.

[21] Come mi sono permesso di osservare in varie occasioni.

[22] Ricordo il luogo di Tito Livio citato a memoria dal cardinale Pappalardo nell’omelia pronunciata durante i funerali del generale Dalla Chiesa (dum Romae consulitur, Saguntum expugnatur). Nell’esempio richiamato dal cardinale, alla lentezza delle discussioni politiche fece riscontro l’impressionante rapidità di un fatto militare.