Riprendiamo un interessante contributo di Giovanni Scirocco apparso sulla rivista Il Mulino
Sessant’anni fa si tenne a Roma il convegno sulle Prospettive di una nuova politica economica che si sarebbe rivelato con l’avvio della stagione del centro-sinistra sotto il segno di una strategia riformatrice
Quasi sessant’anni fa, il 28-29 ottobre 1961, si tenne a Roma, presso il Teatro Eliseo, il convegno sulle Prospettive di una nuova politica economica, organizzato «Mondo Operaio», dal «Mondo», «L’Espresso», «Critica sociale», «Nord e Sud», «Il Ponte». Come scrisse Paolo Bonetti ( Il Mondo, 1949-1966. Ragione e illusione borghese, Laterza, 1975), parve allora essere giunti alla conclusione di una lunga battaglia ideologica e politica all’interno della sinistra non comunista, «una conclusione che sembrava unificare un vasto arco di forze, dai socialdemocratici alla Luigi Preti fino ai socialisti alla Riccardo Lombardi, sotto il segno di una strategia riformatrice tanto ambiziosa quanto inevitabilmente ambigua e contraddittoria nella definizione dei suoi fini ultimi», come si sarebbe rivelato, da lì a poco, con l’avvio della stagione del centro-sinistra che, pure, portò a compimento alcune delle riforme auspicate in quel convegno, prima tra tutte la nazionalizzazione dell’energia elettrica.
Purtroppo, gli atti di quel convegno, che pure ebbe una certa rilevanza, sia all’epoca che negli anni a seguire, non sono mai stati pubblicati. I testi di alcuni degli interventi apparvero sul numero di ottobre-novembre 1961 di «Mondo Operaio» e a essi ci rifacciamo. Nella sua relazione introduttiva, a nome del comitato promotore del convegno, Eugenio Scalfari confermò che l’ambizione delle sei riviste organizzatrici era di discutere la possibilità di una nuova politica economica che, al di là della congiuntura, mettesse la sinistra italiana in grado di esprimere un’alternativa politica e sociale per uscire da un decennio nettamente dominato da uno sviluppo squilibrato nella produzione e nella distribuzione della ricchezza. Questa alternativa era rappresentata, andando oltre quella che veniva definita «la casistica riformistica», dalla politica di piano, non per abolire il mercato, ma per farlo funzionare sostituendo un modello di priorità e di valori ad un altro modello: «Troppo spesso la sinistra italiana s’è attardata in un’azione puramente di critica e di retroguardia, quando era necessario invece indicare al paese la natura delle forze che stavano operando all’interno del sistema industriale ed economico, le soluzioni che esse andavano realizzando e i pericoli nuovi e gravi che quelle soluzioni comportavano».
Era necessario insistere, anche con un’opportuna politica fiscale, sull’esigenza di uno sviluppo economico equilibrato, fondato su “una politica degli investimenti in grado di soddisfare i bisogni più umani e più necessari per elevare il tono di vita delle masse”
Il rischio, sottolineato con forza da Scalfari, era quello di ampliare non solo gli squilibri settoriali e geografici già esistenti, ma anche quelli che toccavano «non soltanto i rapporti di produzione, ma i gusti dei consumatori, i loro bisogni, l’impiego del loro denaro e del loro tempo, fino ad influenzare sempre più da vicino e sempre più globalmente il modo di vivere delle masse, il costume, le ideologie», secondo una logica in cui tutti gli investimenti «sono orientati da un certo schema, da una certa scala di priorità fabbricata dai gruppi più potenti e più moderni del sistema capitalistico». Era quindi necessario insistere, anche con un’opportuna politica fiscale, sull’esigenza di uno sviluppo economico equilibrato, fondato su «una politica degli investimenti in grado di soddisfare i bisogni più umani e più necessari per elevare il tono di vita delle masse: un’istruzione migliore, la certezza d’un lavoro e d’un reddito, una completa sicurezza sociale, un’abitazione dignitosa».
Tra gli altri interventi, il più interessante, oltre a quello di Lombardi (che si soffermò sugli effetti degli spostamenti di popolazione dal Nord al Sud del Paese, ponendo però anche con forza anche il problema della partecipazione dei lavoratori, non soltanto simbolica, ma effettiva, alla elaborazione e alla esecuzione del piano), fu senz’altro quello di Antonio Giolitti, che mise in guardia (facile profeta…) «dalla inflazione della pseudo pianificazione sul piano legislativo», rispetto alla quale l’elemento decisivo era la scelta dei fini, scelta che spettava alla classe politica, negando che si potesse «continuare a delegare il potere di decisione alle concentrazioni di potere economico, che sono anche le concentrazioni di potere politico che determinano le scelte di fondo per lo sviluppo di questa società».
Bisognava quindi dare alla programmazione dei contenuti concreti capaci di suscitare consenso, partecipazione attiva, slancio ideale, anche attraverso quello che Giolitti definiva come «uno sforzo di fantasia»: se il fine era di sanare gli squilibri esistenti sul piano economico, sociale, territoriale, non si doveva aver timore di affermare «un ideale egualitario sia pure in un certo senso modernizzato rispetto al contenuto tradizionale di questa parola», quindi non solo in termini quantitativi (anche se restava prioritario il problema della disoccupazione di massa), ma anche qualitativi, perseguendo ad esempio «una reale autodeterminazione dei consumi», agendo anche sulla composizione della domanda. In questo senso, Giolitti non si faceva perciò remore nel criticare «il mito della sovranità del consumatore, della perfetta libertà che sarebbe garantita alle scelte economiche dal meccanismo della economia di mercato» e che invece spesso non esprime scelte consapevoli e bisogni reali. A questo riguardo poteva avere una funzione estremamente importante la cosiddetta «programmazione dal basso», capace di dare espressione alla domanda potenziale di beni pubblici oltre che di beni privati, come istruzione, assistenza sanitaria, servizi di trasporti, anche su base regionale.
Una scelta, quella delineata da Giolitti, che egli stesso non aveva timore di definire essere stata fatta «sulla base di una valutazione degli interessi contrastanti, di gruppo, di classe, che dividono la nostra società», ma soprattutto fondata su «un metodo democratico effettivo nella determinazione degli obiettivi e degli strumenti di politica economica», contrapponendo «all’idolo del Reddito nazionale» l’ideale di una società «configurata dalle linee della nostra Costituzione».
Se il fine era di sanare gli squilibri esistenti sul piano economico, sociale, territoriale, non si doveva aver timore di affermare “un ideale egualitario sia pure in un certo senso modernizzato rispetto al contenuto tradizionale di questa parola”
Altri due punti centrali furono sollevati nell’ambito del convegno. Il primo, l’eterna questione dell’efficienza della burocrazia e della sua riforma, su cui intervennero, con toni molto critici, Ernesto Rossi (legandola anche al tema della scuola), e Stefano Rodotà. Fu Ugo La Malfa a ricordare che la burocrazia può essere buona o cattiva a seconda della volontà politica di chi la dirige e della sua capacità di dare ad essa il senso di una «missione» cui dedicarsi. Il secondo, sollevato da Altiero Spinelli, dell’inserimento dell’economia italiana, attraverso quello che all’epoca era il Mercato comune, in un sistema che imponeva sempre più una programmazione a livello europeo.
Erano spunti e suggestioni che, per certi versi, in una situazione politica indubbiamente assai diversa, possono valere anche per l’oggi. Prima tra tutte, per una questione di metodo: anche oggi, in epoca social, esistono riviste di politica e di cultura ben fatte, spesso redatte e dirette da giovani che hanno qualcosa da dire ai fini, ma non solo, di quello «sforzo di fantasia» evocato all’epoca da Giolitti (e che non riescono a dire nei tradizionali circuiti televisivi e della carta stampata) e che sarebbe bene si conoscessero, scambiassero le loro opinioni, collaborassero facendo massa critica. Poi, di contenuto, riassumibile nello stesso titolo del convegno dell’Eliseo: Prospettive di una nuova politica economica. Siamo nella fase di avvio del Piano nazionale di ripresa e di resilienza (Pnrr) da cui, per l’entità delle risorse messe a disposizione e delle scelte da fare, dipenderà probabilmente per anni il corso e le caratteristiche dello sviluppo del nostro paese. Mi pare che ci siano pochi dubbi sul fatto che le chiavi di questo meccanismo siano state messe in mano, nella sostanza, ad un tecnico, di straordinario valore, ma che evidentemente è abituato a confrontarsi in primis con altri tecnici. In pratica, sulle caratteristiche del Piano e, soprattutto, sui suoi fini, non solo l’opinione pubblica, ma lo stesso Parlamento sono stati tagliati fuori. Sarà possibile discuterne (e magari fare qualche proposta) almeno a livello di riviste?
Giovanni Scirocco
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