“Pubblichiamo la tavola rotonda pubblicata da Mondoperaio qualche settimana dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980. Questo contributo, per quanto risalente, resta di grande attualità e ci aiuta a comprendere quanto siano antichi e persistenti i mali della macchina pubblica italiana, specie nei contesti emergenziali e di crisi.”

Tavola rotonda: Giuliano Amato, Sabino Cassese, Massimo Severo Giannini
Da Mondoperaio, fasc. 12/1980

Amato:

Il terremoto che ha travolto Campania e Basilicata ha colpito non solo le case, ma anche lo Stato, che si è dimostrato incapace di reagire tempestivamente. Come sempre in queste situazioni, cause generali e cause specifiche vengono confuse e sovrapposte in giudizi sommari che finiscono col diventare generici. Se la risposta data dagli apparati pubblici al sisma di novembre è l’espressione sintomatica di una malattia profonda di quegli apparati, può essere utile, per tentare una diagnosi e suggerire qualche indicazione terapeutica, riesaminare anzitutto i fatti, non dandoli per scontati. È vero che lo Stato non ha funzionato nelle zone terremotate? E, se non ha funzionato, dove e perché?

Giannini:

Lo Stato non ha funzionato. È vero. Ma è un discorso troppo generico. Nel caso del sisma il compito principale spettava a un organismo specifico: la Protezione Civile, che
ancora una volta si è rivelata un servizio non modernizzato.
 Per esempio, il corpo dei Vigili del Fuoco, che
è a sua disposizione, è stato recentemente riorganizzato in funzione di interventi di urgenza a carattere strutture. episodico. Ma non in funzione dei
grandi disastri, come invece avviene non si è fatto più niente. Si è solo
negli Stati Uniti, dove questi corpi non sono federali, ma dipendono dai
poteri locali — i singoli Stati, le
contee, i borghi — agiscono secondo
piani di intervento molto tempestivi, mandano avanti pattuglie di ricognizione con potenti apparecchiature radio, e le loro informazioni servono a predisporre l’intervento di reparti specializzati, secondo le particolari esigenze della situazione. Da noi, niente di tutto questo. La Protezione civile è stata riorganizzata, recentemente, in base a una normazione che risale al periodo della guerra, quando, in seguito alle incursioni aeree, si constatò che in ogni città vi era un sistema diverso di prese d’acqua, di allacciamenti per gli interventi d’urgenza, ecc.. Si pensò, così, di creare un organismo centrale per procedere all’unificazione degli apparati e delle infrastrutture.
Dopo questa unificazione, però, non si è fatto più niente. Si è solo
riaffermata la centralità di questo servizio, che probabilmente è sbagliata, affidandolo al Ministero degli Interni. Ha prevalso, insomma, una consorteria di prefetti, che attraverso il controllo di questo servizio ha ampliato i suoi spazi di intervento nell’amministrazione civile che si andavano sempre più restringendo.
La Protezione Civile non ha funzionato perché è inesistente. Altri corpi dello Stato, invece, hanno dato miglior prova. L’intervento dei militari e la nomina di un alto commissario, hanno riattivato tutti gli altri servizi, in modo abbastanza soddisfacente.
Perciò non generalizziamo. È un servizio specifico dello Stato che non ha funzionato: la Protezione Civile. È vero, peraltro, che questa è una spia dell’inefficienza generale di tutta l’amministrazione pubblica, la cui struttura va interamente riveduta.

Cassese:

Per avere un sistema di protezione, occorre innanzitutto un sistema di rilevazione, di allarme, e poi il sistema di protezione, quindi un sistema di assistenza. Nel caso del terremo di novembre, nessuno dei tre ha funzionato.
C’è un servizio geologico, che dovrebbe indicare le zone pericolose, ancora concepito secondo un criterio «produttivo»: dipende dalla direzione generale delle miniere del Ministero dell’Industria. Inoltre, nelle carte geologiche d’Italia, le zone sismiche si fermano sempre alle soglie delle grandi città, dove la costruzione di edifici antisismici farebbe salire molto i costi: la pressione dei grandi interessi in gioco non potrebbe essere più evidente. Se vi fosse stato un servizio di accertamento delle condizioni sismiche, serio e impostato in termini protettivi, anziché produttivi, si sarebbero vinte le resistenze delle amministrazioni locali, che davano una mano agli speculatori. La recente riorganizzazione della Protezione Civile, ricordata da Giannini, è stata inoltre mal concepita e strumentata. La legge del ’70 prevedeva, infatti, solo 15 miliardi di finanziamento. E il bilancio di previsione per l’81, dell’intera Protezione Civile, è di soli 250 miliardi, di cui 200 sono assorbiti dagli stipendi del corpo dei Vigili del Fuoco.
Tutte queste cose erano note. L’intervento nel Friuli, per esempio, aveva messo in luce una cosa che pochi notarono. I poteri del commissario sono totalmente diversi da quelli previsti dalla legge. Ma questa legge non viene neppure applicata nelle situazioni straordinarie in cui bisogna nominare il commissario. La prova è che tocca fare delle leggi speciali che danno al commissario
più poteri di quelli previsti dalla legge stessa. Una legge così mal disegnata e finanziata doveva essere modificata dal parlamento. Esistono quindi responsabilità non solo dei corpi amministrativi, ma anche del parlamento. E vi sono, infine, responsabilità nella politica dell’assistenza. Il pronto soccorso dovrebbe essere statale (in base al decreto 616), l’assistenza regionale. Ma le regioni sono state assenti. Vi sono, in effetti regioni del nord che hanno emanato leggi sul pronto soccorso delle zone terremotate, come il Piemonte, la Liguria, la Toscana, invadendo un campo non di loro competenza. E regioni del sud non attrezzate per gli interventi di pronto soccorso ma neppure per quelli di assistenza. A una settimana dal terremoto, la regione doveva subentrare all’amministrazione statale. Ma la regione Campania non è in grado di farlo. Vi sono quindi, responsabilità diffuse, che investono almeno tre segmenti dell’amministrazione pubblica, statale e non statale, e rivelano l’incapacità del corpo politico di reagire in tempo utile.

Amato:

Si ha la sensazione che le disfunzioni finiscano per coinvolgere anche le micro strutture dell’amministrazione statale e locale (prefetture, comuni, ecc.). A giudicare dalle notizie di questi giorni, pare sia
venuta meno la capacità di funzionare al più basso livello, almeno in alcune zone, anche degli uffici comunali, che fanno capo alle prefetture, e che tutto sia finito per dipendere dagli impulsi del commissario straordinario o del comandante generale della legione. Anche quando si trattava di informare i cittadini della possibilità di essere dislocati altrove o di firmare buoni per distribuire viveri o indumenti e fare un primo censimento dei sopravvissuti.
A questo pento, non mi pare necessario sapere a chi la legge sulla protezione civile affida questi compiti specifici. Dovrebbero essere svolti dall’amministrazione nei limiti in cui fisicamente è sopravvissuta.
L’unica attuazione, dice Giannini, che la disciplina della Protezione Civile ha conosciuto, è stata la preparazione dei Vigili del Fuoco ad interventi di urgenza. MI torna alla mente la battuta di Kissinger con cui Cassese conclude la sua recente intervista sui servitori dello Stato edita da Zanichelli: «I politici tendono ad occuparsi di ciò che è urgente e non hanno mai tempo per ciò che è importante». La battuta dimostra che queste cose non accadono solo in Italia. Con tutte le risorse che abbiamo destinato all’amministrazione in molti decenni, è raro trovare al suo interno servizi pronti per le cose importanti, oltre che per le cose urgenti. Gran parte di queste risorse sono assorbite da spese di personale e per i servizi, perché manca una pianificazione della loro utilizzazione, e finisce col prevalere la logica delle consorterie, che concepisce l’amministrazione non come servizio per la collettività ma come luogo privilegiato di promozione sociale, di singoli e di gruppi.
Quest’uso degenerato dell’amministrazione risale molto indietro. Non è una novità del trentennio repubblicano. Ma se le cause sono molto antiche, in questo trentennio abbiamo tuttavia operato per aggravarle. Non riesco a darmi pace quando penso che un Serpieri abbia potuto migliorare i servizi tecnici dell’amministrazione nel periodo fascista, mentre nessun Serpieri è riuscito a fare altrettanto nel periodo successivo. Certo, i compiti dell’amministrazione sono venuti oggettivamente cambiando nel tempo. Il fenomeno dell’amministrazione che opera attraverso trasferimenti, anziché attraverso attività, non riguarda esclusivamente l’Italia. È un fenomeno generale. Ma la distruzione, che ne è derivata, delle capacità tecniche dell’amministrazione è un fenomeno forse più nostro che di altri paesi.
Sono anch’io convinto, come Cassese, che uno Stato funziona se funziona l’amministrazione. Per rendere funzionale e funzionante l’amministrazione occorre però cambiare i nuclei di comando politico sull’amministrazione stessa.
L’esperienza recente di Giannini
è certamente istruttiva. Nella sua qualità di ministro per la Funzione pubblica ha potuto predisporre un grosso lavoro di analisi, di diagnosi dello stato delle amministrazioni, e una prima progettazione per una loro articolata riforma. Ci chiediamo quali potranno essere le sorti di questo lavoro. E qual è la sua pertinenza rispetto al funzionamento del sistema politico.
Giannini:
Prima di risponderti, vorrei tornare al terremoto. La determinazione delle possibili previsioni di fatti di questo tipo non spetta al servizio geologico, ma a istituti specializzati del Consiglio delle ricerche, che già avevano preavvertito il governo sui possibili sismi dell’Italia meridionale. Questo servizio dovrebbe perciò essere ulteriormente perfezionato. Il servizio geologico, più che aggiornare la carta geologica, ormai, non credo possa fare altro.
Ma cos’è, in realtà, che non ha funzionato? La rete dei messaggi, che nel nostro sistema è affidata ai piccoli uffici locali dei carabinieri, i quali comunicano per telefono. Il giorno in cui la rete telefonica si blocca, i messaggi non si trasmettono più.

Amato:

Ma Marconi non aveva inventato la radio?

Giannini:

Questa è stata la più grossa carenza. I carabinieri e gli uffici locali della Protezione Civile dovrebbero avere altri servizi di telecomunicazione, oltre al telefono. Né gli uni né gli altri ne erano dotati. Siamo arrivati al paradosso che molte notizie sono state trasmesse dai radioamatori ad altri radioamatori, che al Viminale non hanno trovato nessun ufficio pronto a ricevere queste comunicazioni.
Si ritorna sempre al problema dell’attrezzatura tecnica delle singole amministrazioni. Perché certe amministrazioni, come la Difesa, funzionano? Perché possiedono strutture che entrano in azione quasi per automatismo.
Del resto, bisognerebbe conoscere in modo un po’ più analitico le singole situazioni. Molti comuni non hanno funzionato, ma altri sì. E questo vale anche per le regioni. La Basilicata ha funzionato. La Campania no.
Amato:
Se le nostre amministrazioni non riescono ad essere dotate di servizi, ma sono dotate invece di personale, o a volte hanno attrezzature ma le tengono in magazzino e non si trasformano in servizio, questo è un fenomeno che deve avere la sua causa.
Giannini
La causa è che la consapevolezza dei prerequisiti politici della ristrutturazione delle amministrazioni è un’acquisizione molto tarda. La legge sulla programmazione economica nazionale, che lo ha messo in rilievo per la prima volta, prospettava appunto il riordinamento delle amministrazioni come fatto politico e non come fatto tecnico.
Il difetto fondamentale delle nostre strutture amministrative non è tanto che sono vecchie. È che non rispondono alle esigenze che la società, pone allo Stato. Non abbiamo, ad esempio, un’amministrazione che si occupi del territorio a livello statale. Non possiamo certo prendere sul serio i lavori pubblici, sotto questo profilo. Né abbiamo amministrazioni che si occupino dei problemi dell’ambiente.
Questo è certamente un problema di carattere politico. Dobbiamo tuttavia distinguere tra strutture di governo, e strutture di servizio. Queste dovrebbero funzionare indipendentemente dal comando politico. La Protezione Civile, ad esempio, dovrebbe funzionare automaticamente, chiunque sia il ministro degli interni.
Col disegno di riforma elaborato al Ministero della Funzione pubblica, c’eravamo messi su questa strada. Ma a questo traguardo si può giungere solo per piccole tappe. Prima dobbiamo delineare un disegno generale di ristrutturazione di tutto
l’apparato pubblico. Poi esaminarlo
pezzo per pezzo. Vedremo allora che
esistono amministrazioni che non
funzionano, perché storicamente
sono un accumulo di cose malfatte.

Cassese:

Abbiamo messo in luce almeno tre
cause dell’inefficienza della pubblica amministrazione. La prima riguarda la gestione del personale. Non spezzo certamente una lancia a favore delle prefetture, se dico che sono state tenute a bagnomaria per trent’anni e poi, di fatto, fuori dalla porta per altri dieci anni, da quando
esistono le regioni. Come si poteva pensare che funzionassero? I prefetti hanno perduto praticamente ogni rapporto con la realtà, locale, se per realtà locale non si intende la concessione della patente di guida.
La seconda causa è che spesso le strutture sono così arcaiche da risultare non più rispondenti né alle esigenze di oggi, né a quelle di ieri. Il disegno generale dei nostri ministeri è stato realizzato fra gli anni ’20 e ’30. Sono passate da allora almeno tre epoche storiche diverse nella società italiana, nelle esigenze dell’economia, ma l’amministrazione è rimasta immutata.
La terza causa riguarda i moduli del comando politico. A questo io credo poco. La politica dei partiti in Italia ha seguito per anni i suoi binari, senza curarsi troppo della politica amministrativa. Per questo il rapporto Giannini non è stato capito.
Il cambiamento del personale politico non serve a niente. L’intera classe politica è informata dal medesimo tipo di cultura. Certo, ci sono diversità di orientamento politico, ed è anche vero che c’è chi ha le mani più pulite di altri, ma fra tutti i partiti non vedo quale sia oggi capace di gestire il cambiamento amministrativo. Dubito che i nostri uomini politici sappiano scendere dalle nuvole alla realtà dell’amministrazione.
Vediamo il caso del rapporto Giannini, che avrebbe dovuto suscitare un grande dibattito politico. Invece che cosa è accaduto? Niente, almeno per ora. Il fatto è che le proposte Giannini suscitano tenaci resistenze dei funzionari dell’amministrazione, i quali si vedrebbero, in assenza di un controllo preventivo, atto per atto, della Corte dei Conti, esposti con maggiore facilità agli interventi del giudice ordinario. Spetta alla classe politica spezzare queste resistenze corporative, approvando delle leggi di ispirazione nuova, che affidino ai pubblici funzionari responsabilità analoghe a quelle dei dirigenti di un’azienda, chiamati a rispondere del loro autonomo operato. A giudicare da quanto è accaduto finora, è difficile pensare che questa volontà politica ci sarà.
Quanto diceva Giannini sulla Protezione civile vale anche per le ferrovie. Il problema delle ferrovie non è un problema politico. È di far partire e arrivare i treni. Giovanni Giolitti lo aveva capito. Affidò a Bianchi la responsabilità della costruzione della rete ferroviaria pagando quel che chiedeva. Poi fece una legge ex post, a cose fatte. Così da non intralciare il suo operato. Così realizzò in Italia il sistema ferroviario unitario, dopo il sistema delle concessioni. Abbiamo oggi altri uomini politici come Giovanni Giolitti?

Amato:

Anche Bruno Trentin, nella sua recente intervista sul sindacato dei consigli, lamenta l’assenza di un Cavour nella dirigenza politica dei nostri anni.
Ma torniamo alla riforma amministrativa. Anch’io, come Giannini, sono convinto che le strutture di servizio dovrebbero camminare sulle proprie gambe. Ma questo esige un diverso assetto del comando politico. È un concetto che troviamo espresso nel progetto socialista, favorevole alle autonomie operative nell’amministrazione e avverso a ogni interferenza politica che ne sconvolga la gestione in funzione dei propri sussulti.
Le nuvole sulle quali cammina la nostra dirigenza politica sono fatte di ricerca di consensi da parte di singole corporazioni e di erogazioni ad hoc. C’è da chiedersi quanto il voto di preferenza concorra a un simile modo di fare politica, quanto l’instabilità governativa renda piuttosto rapinatoria che non riformatrice la presenza al governo di questo o quel gruppo politico, quanto il governare per coalizioni eterogenee trasformi la presenza al governo in una lotta tra gruppi anziché nel perseguimento di obiettivi generali.
È un discorso che era stato già fatto all’Assemblea costituente, quando il problema della stabilità di governo fu posto da molti proprio in previsione del futuro. A distanza di anni, quelle riflessioni tornano di grande attualità, riproponendoci la ricerca di moduli diversi di costruzione dell’assetto di governo, ovvero di una cultura di governo che abbia un rapporto diverso con l’amministrazione.
Il terremoto a riportato in luce una tesi già avanzata sul Mezzogiorno, secondo cui davanti alla ingovernabilità di quelle regioni e alla particolare debolezza delle strutture di intervento pubblico, sarebbe necessario abbandonare i moduli ordinari di organizzazione amministrativa, per procedere mediante modelli straordinari. Si parlò, allora, di Commissario per la Calabria. Oggi, per affrontare i problemi della ricostruzione, del risanamento e dell’eventuale sviluppo delle zone terremotate, si è preso a parlare della costituzione di un’agenzia. Si pensa, cioè, che bisogna accantonare l’amministrazione ordinaria.
Ora, io posso comprendere l’importanza di un’organizzazione anomala per affrontare una situazione anomale. Ma vedo in queste proposte la rinuncia al proposito serio di far funzionare comunque un’amministrazione che, in un futuro, dovrà esistere in ogni caso e che attraverso questi espedienti viene messa da parte.
L’agenzia è lo strumento amministrativo adatto ad affrontare i problemi posti da un caso eccezionale, come quello del terremoto in Campania e in Basilicata?

Giannini:

La nostra dirigenza politica ha mai manifestato una particolare sensibilità per i problemi amministrativi a differenza di quanto accade in Germania e in altri paesi. E negli ultimi tempi questa situazione si è ulteriormente aggravata, almeno sul piano nazionale.
Al livello locale. invece, bisogna distinguere: nelle regioni del centro-nord ci si sta avviando verso l’acquisizione di una maggiore consapevolezza dei problemi tecnico-amministrativi ed economici da parte delle classi dirigenti locali.
Chiedersi che cosa si può fare per dare a questa dirigenza politica la consapevolezza che le manca è una domanda un po’ oziosa. Le istituzioni camminano sulle gambe della classe politica. Anche se avessimo un diverso tipo di regime, saremmo sempre allo stesso punto. Sempreché partiamo dalla premessa di mantenere un’organizzazione per partiti. Perché, se dovessimo arrivare a un regime presidenziale assoluto, come quello degli Stati Uniti o della Francia, il discorso potrebbe già. essere diverso. Ma oggi in Italia non c’è nessun partito orientato in questo senso. Preso atto di questo, non c’è che un’opera paziente e intelligente di persuasione.
Quanto ai modelli straordinari per
il Mezzogiorno, debbo osservare che la situazione non è la medesima in
tutto il Mezzogiorno. Vi sono alcune
delle regioni meridionali che ormai
hanno cominciato a decollare. Cito
il caso degli Abruzzi, della Puglia e della Basilicata. Non dobbiamo generalizzare la situazione che constatiamo in Campania, Calabria e Sicilia e forse in parte anche in Sardegna.
Abbiamo già avuto, nella storia, il commissario per la Sicilia e per la
Basilicata. Ma i risultati di queste
gestioni commissariali sono stati negativi. Si sono incentivate l’inerzia e
le attese paternalistiche delle popolazioni locali. Si aspettava che tutto
dovesse venire dall’alto, ovvero da
quella specie di spirito santo che si chiamava Alto Commissario.
Quindi, io non vedrei l’opportunità di adottare modelli straordinari, perché, a parte il fatto moralmente negativo della differenziazione di cittadini che sono italiani come tutti gli altri, non credo affatto nell’efficacia di simili strumenti. Secondo me, c’è da fare solo una cosa: perseverare, per cercare di correggere e migliorare queste strutture regionali. L’esperienza dimostra che ormai la struttura regionale è la base effettiva di qualsiasi azione democratica, che leghi insieme l’aspetto politico, l’aspetto economico e l’aspetto amministrativo.

Cassese:

Anch’io sono sostanzialmente contrario a tutti i modelli straordinari. Però questi sono una costante di tutti gli interventi nel Mezzogiorno. Si è sempre pensato, insomma, che lo sviluppo, in una zona arretrata, dovesse procedere per innesto di alcune forze esterne nelle strutture, nella rete dei poteri, che potessero poi cambiare il funzionamento della macchina. Ma tutti questi innesti hanno poi prodotto in genere una reazione di rigetto.
Non credo quindi che sia possibile introdurre modelli straordinari, se non per zone molto circoscritte e per esigenze del tutto eccezionali, come ad esempio la gestione degli enti locali nelle zone terremotate. Fino a quando non si saranno ripristinate le condizioni materiali minime del vivere civile in questi luoghi, bisognerà prima ricorrere a strumenti e a responsabilità di carattere straordinario. Ma se si va oltre questi limiti, si commette un errore grave.

Amato:

Negli ultimi tempi si è lavorato molto sui progetti speciali. Il disegno di legge che ora andrà alla discussione delle Camere, preparato dal Ministro per il Mezzogiorno, prevede un nuovo strumento: l’accordo di programma tra i soggetti pubblici coinvolti in definiti progetti speciali, che possa servire a rendere in qualche modo disponibili le competenze di ciascuno all’interno di un disegno comune di intervento. Questi progetti trovano ora un loro primo sbocco legislativo.
Potrà essere l’occasione per vedere se è possibile convogliare in un unico progetto di ricostruzione, di risanamento, competenze che non vanno compresse, ma rivitalizzate, piuttosto che creare nuove illusioni: ieri il quinto centro siderurgico, oggi l’agenzia a cui le popolazioni meridionali vengono invitate a credere, sino a quando ci si accorge che oltre la cortina fumogena non c’è nulla.

***

Lo Stato dinanzi alle nuove emergenze, fra vecchi mali e rimedi inascoltati.
di Michele Francaviglia

Si dice che i classici siano tali per la loro capacità di restare attuali nel tempo, adattandosi sempre alle diverse evoluzioni della realtà e rivelandosi sempre utili a comprendere le cause di quest’ultima o le prospettive future.
In disparte qualsiasi intento agiografico, la tavola rotonda pubblicata da Mondoperaio qualche settimana dopo il terremoto dell’Irpinia del 1980 sembra proprio possedere queste caratteristiche, giacché ci aiuta, in tempo di crisi pandemica (e ormai bellica), a comprendere quanto siano antichi e persistenti i mali della macchina pubblica italiana, specie nei contesti emergenziali: già all’epoca, nella lettura della risposta statale a quel disastroso terremoto, Giannini, Cassese e Amato inquadravano con lungimiranza problemi e soluzioni dello ‘sfascio dello Stato’ che, quarantadue anni dopo, molto hanno inciso anche sulla concreta gestione della pandemia da nuovo coronavirus.
Al centro di quel dibattito vi era la chiara consapevolezza di ‘modernizzare’ il sistema di protezione civile, ancora succube di una logica di accentramento amministrativo funzionale solo all’ampliamento degli spazi decisionali in mano ai prefetti; quello che avevano davanti agli occhi era, infatti, un sistema di protezione privo di un’adeguata articolazione territoriale e, come tale, inservibile rispetto a crisi prolungate e ‘di sistema’, la cui gestione implica un’attenta considerazione delle realtà locali.
Il discorso, però, si allargava immediatamente, privilegiando una prospettiva sinottica, se non olistica, dello ‘Stato nell’emergenza’: dalla protezione in sé si passa dunque alla necessità di una tempestiva rilevazione (e valutazione) delle emergenze, così come di efficienti moduli di assistenza rispetto a quest’ultime. Sotto questo riguardo, l’esame dei tre giuristi è impietoso e chiamava direttamente in causa i vertici politici: da un lato, le risorse finanziarie che avrebbero dovuto ‘sorreggere’ le leggi che regolavano la risposta statale alle emergenze di carattere nazionale sono risultate inidonee alle scopo, in quanto – in assenza di idonea pianificazione – indebitamente asservite alla “logica delle consorterie, che concepisce l’amministrazione non come servizio per la collettività ma come luogo privilegiato di promozione sociale, di singoli e di gruppi”(Amato); dall’altro, il progressivo impoverimento (se non distruzione) delle capacità e delle attrezzature tecniche delle singole amministrazioni rappresenta un limite oggettivo al funzionamento dello Stato in tutti i contesti, specie in quello emergenziale; dall’altro ancora, sul fronte dell’assistenza, già all’epoca emergeva una certa confusione sul concreto esercizio delle competenze amministrative assegnate allo Stato e alle Regioni – a cagione della quale l’apporto di quest’ultime, specie al sud, risultava pressoché nullo –, sebbene, secondo Giannini, proprio “la struttura regionale è la base effettiva di qualsiasi azione democratica” in grado di legare insieme “l’aspetto politico, l’aspetto economico e l’aspetto amministrativo”.
Se la diagnosi era chiara, altrettanto lo era la prognosi, in base alla quale tutte le soluzioni possibili implicavano il cambiamento “dei nuclei di comando politico sull’amministrazione stessa”, con l’ulteriore necessità di distinguere tra “strutture di governo e strutture di servizio”, laddove quest’ultime devono essere in grado di “funzionare indipendentemente dal comando politico” (Giannini).
Tuttavia, sulla consapevolezza (e sulle capacità) del ceto politico di ridisegnare un assetto di governo che modificasse profondamente il suo rapporto con l’amministrazione, si registrava in quel dibattito una certa diversità di vedute tra Giannini e Amato, da un lato, e Cassese, dall’altro: se tutti e tre infatti respingevano il ricorso sistematico a soluzioni organizzative straordinarie (commissari, agenzie, etc.) per la gestione di emergenze di lungo periodo, solo i primi due ritenevano ineliminabile l’apporto del ceto politico rispetto a un profonda ristrutturazione dell’organizzazione statale rispetto a siffatte evenienze – “Le istituzioni camminano sulle gambe della classe politica” (Giannini) –, mentre Cassese rimaneva più scettico rispetto sulle capacità degli uomini politici di “scendere dalle nuvole alla realtà dell’amministrazione”. Posizioni, a ben vedere, non del tutto inconciliabili fra loro.
Leggendo l’analisi offerta da questi tre ‘osservatori delle Istituzioni’ ci si rende conto che molto poco è cambiato in Italia, e l’esperienza della pandemia sta lì a ricordarcelo in tutta la sua drammaticità.
Chiaramente, rispetto al 1980, alcuni dei termini del complessivo ‘problema amministrativo’ sono cambiati: si pensi alla compiuta articolazione territoriale del sistema di protezione civile che, ben dodici anni dopo quel dibattito, ha trovato un primo assestamento con la l. n. 225/1992, così come all’evoluzione del comparto sanitario, nell’ambito del quale il ruolo delle Regioni nell’organizzazione e nell’erogazione delle prestazioni è oggi assolutamente predominante.
Al netto di questi cambiamenti, i punti di contatto con l’esperienza di oggi sono, però, ancora molti e danno da pensare: colpisce che il Governo, nel fronteggiare la crisi pandemica, abbia ritenuto ancora una volta inadeguato lo strumento della protezione civile e abbia predisposto un sistema inedito e straordinario, composto dalla decretazione d’urgenza e dall’impiego di decreti del Presidente del Consiglio; sotto altro profilo, la mancata valorizzazione delle competenze statali in materia di coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell’amministrazione, regionale e locale (art. 117, co. 2, lett. r), Cost.) rivela l’esistenza, ancora oggi, di profonde disfunzioni tecniche nelle singole amministrazioni che impediscono un dialogo efficace tra i diversi livelli di governo (si pensi a quei flussi informativi fondamentali per il controllo della diffusione del virus); infine, l’utilizzo dei noti d.P.C.m. per fronteggiare la pandemia testimonia ancora oggi una certa difficoltà non solo nel mettere in pratica quella distinzione tra strutture di governo e strutture di servizio – con la conseguente attenuazione tra scelte di natura politica e scelte di carattere tecnico –, ma anche nel correttamente modulare gli apporti dei livelli di governo regionali (e territoriali in generale) nel fronteggiare le emergenze.
L’elenco delle similarità potrebbe ulteriormente proseguire; appare preferibile, però, limitarsi a sottolineare l’attualità della prospettiva indicata dai tre giuristi per uscire da queste secche – un insegnamento che fatica ad essere interiorizzato dal ceto politico –, vale a dire la necessità di procedere a una ristrutturazione integrale delle pubbliche amministrazioni, con “la consapevolezza dei prerequisiti politici” che un’operazione del genere esige (Giannini).