Scriveva Pier Paolo Pasolini in una delle sue lettere luterane che la tolleranza è solo e sempre nominale. Neppure la tolleranza può cancellare lo stigma della diversità, giacché neppure quando a qualcuno, in quanto membro di una minoranza, viene garantito di far ciò che vuole, gli si consente di lasciare il ghetto. Nel far ciò che vuole, sarà bene che non tradisca la sua esperienza particolare. Sarà bene ‘fingere che alle sue spalle l’esperienza sia un’esperienza normale, cioè maggioritaria’.

C’è un po’ di questa finzione anche nella rivoluzione dei diritti della nostra era che omosessuali, lesbiche, bisessuali, transessuali, intersessuali stanno combattendo insieme ai tanti che li comprendono e sostengono. Lo zenith di questa battaglia, cioè la sentenza Obergefell v. Hodges, che negli Stati Uniti ha colpito nel 2015 tutte le leggi statali che per matrimonio intendevano solo l’unione fra un uomo e una donna, ha tinto di arcobaleno la facciata della Corte Suprema e ha trasmesso al mondo l’elettrizzante vibrazione di qualcosa che era cambiato per sempre. Non era cambiato, tuttavia, il paradigma di ciò che è normale: era piuttosto accaduto che un modo d’essere minoritario e mal tollerato prendeva una delle forme del vivere maggioritario – sposarsi, guadagnare la rispettabilità sociale che viene dalla stabilità affettiva, certificare l’affidabilità e la durata nel tempo dell’amore diverso al pari di quello tradizionale.

Certe lotte non sono per rimanere diversi, ma per diventare uguali: non sono lotte per l’uguaglianza nella differenza, ma per l’uguaglianza della differenza. Così è anche la lotta LGBTQI+: solo facendosi uguale alla maggioranza il ghetto cessa di essere tale, anche se è solo nel ghetto che, in fondo, attecchisce il seme di ciò che è davvero diverso. Pensiamoci un attimo: sono le famiglie LGBTQI+ che dovrebbero pretendere di esser viste (e tutelate) come un’entità diversa, un’altra cosa rispetto alle famiglie eterosessuali, e dovrebbero invece essere le famiglie eterosessuali – i detentori del prototipo – a pretendere che quelle anomale formazioni sociali assumano il modello dell’unica famiglia possibile con i relativi doveri. Il diverso dovrebbe pretendere di rimanere diverso nell’uguaglianza, mentre la maggioranza dovrebbe pretendere, in cambio dell’uguaglianza, di render tutto uguale a sé.

Si tratta di considerazioni di ordine assai generale che, però, possono aiutare a fare il punto sull’incandescente dibattito pubblico di queste settimane intorno al cosiddetto ‘ddl Zan’, approvato lo scorso 4 novembre 2020 alla Camera dei deputati e attualmente in discussione al Senato. Dico ‘intorno’ al ‘ddl Zan’ e non ‘sulle’ soluzioni giuridiche che esso propone, perché siamo al cospetto di una legge-totem (o, per altro verso, una legge-demone), incrostata delle tensioni che irrigidiscono il confronto fra favorevoli e contrari alla normalizzazione di coloro che si riconoscono in un sesso, un genere, un orientamento o un’identità sessuale ‘diversi’. Di regola, la totemizzazione o demonizzazione di un disegno di legge non favorisce la buona redazione di un testo che – si tende a dimenticarlo nel dibattito corrente – non è un manifesto politico ma un insieme di norme che incideranno sui rapporti giuridici delle persone. Che sia totem e demone lo si intuisce dalla lettura ideologica con cui lo si stigmatizza o lo si magnifica. Basta guardarlo appena più da vicino, però, per comprenderne l’innocuità.

Il contributo più innovativo del ‘ddl Zan’ – che altrimenti interviene con integrazioni di fattispecie sul diritto penale e sul diritto processuale penale, così come sulla legislazione repressiva contro i crimini d’odio e di incitamento all’odio – è la traduzione in legge di una definizione stratificata di quella che chiamerei l’identità affettiva e sessuale, fatta di una dimensione somatica, una sociale, una relazionale e una interiore. Tale identità assomma il dato biologico o anagrafico (sesso), la risposta alle convenzioni e aspettative collettive (genere), il rapporto con l’altro (orientamento sessuale) e l’autopercezione (identità di genere). È la combinazione di queste componenti – ora allineate nella corrispondenza attesa fra ciò che è biologico e ciò che si sente intimamente, si esprime pubblicamente e nei rapporti, ora disallineati e contrastanti con l’immaginario prevalente – a costituire l’identità affettiva e sessuale. Non c’è più allora un misuratore oggettivo e universale dell’identità affettiva e sessuale tale da assicurare un ordine binario o comunque semplificato della materia, ma si accoglie l’impredicibilità che viene dal principio di autodeterminazione personale, in nome del quale si rivendica il diritto di costruire la propria personale combinazione e di farla valere agli occhi altrui: un sesso biologico al quale non corrisponda il genere con cui ci si rappresenta al resto della società; un genere dissociato dall’orientamento sessuale; un’identità di genere che intenda armonizzare oppure no le altre manifestazioni, il tutto declinabile in un numero di varianti potenzialmente aperto.

Sia detto, però, che questa apertura verso una identità affettiva e sessuale incodificabile in astratto non travolge o smentisce l’assetto esistente, ma semmai né sviluppa l’accezione in coerenza con l’evoluzione giurisprudenziale e legislativa avviata già a partire dagli anni Ottanta. Se, con la sentenza n. 98 del 1979, la Corte costituzionale aveva dichiarato legittime le norme del Codice civile che pure non consentivano la rettificazione dell’atto di nascita per adeguarlo all’identità sessuale successiva al cambio di sesso perché l’art. 2 e 24 Cost. non includevano ‘fra i diritti inviolabili dell’uomo quello di far riconoscere e registrare un sesso esterno diverso dall’originario, acquisito con una trasformazione chirurgica per farlo corrispondere a una originaria personalità psichica’, con la sentenza n. 161 del 1985 la Corte si soffermò per la prima volta sulla ‘sindrome transessuale’ in cui soma e psiche non coincidono, come già aveva osservato nel 1978 il Bundesverfassungsgericht, e scrisse che ‘il transessuale, più che compiere una scelta propriamente libera, obbedisce ad una esigenza incoercibile, alla cui soddisfazione è spinto e costretto dal suo “naturale” modo di essere’ e che la legge n. 164 del 1982 posta a giudizio si era ‘voluta dar carico anche di questi “diversi”, producendo una normativa intesa a consentire l’affermazione della loro personalità e in tal modo aiutarli a superare l’isolamento, l’ostilità e l’umiliazione che troppo spesso li accompagnano nella loro esistenza’.

È lecito dubitare, per esempio, che la criminalizzazione delle espressioni di odio capaci di tradursi nella commissione di atti discriminatori o violenti sia lo strumento più idoneo a scongiurarne la proliferazione.

Più recentemente, quella stessa legge che, nel 1982, aveva finalmente offerto ristoro a tante situazioni di emarginazione e sofferenza, la Corte l’ha ampliata (sentenza n. 180 del 2017), consentendo la rettificazione anagrafica dell’attribuzione del sesso anche a fronte di tecniche diverse da quella chirurgica, tornando a insistere che ‘l’aspirazione del singolo alla corrispondenza del sesso attribuitogli nei registri anagrafici, al momento della nascita, con quello soggettivamente percepito e vissuto costituisca semz’altro espressione del diritto al riconoscimento dell’identità di genere’. Analogamente, nella sentenza n. 221 del 2015, era stata sottolineata l’evoluzione culturale e ordinamentale ‘volta al riconoscimento del diritto all’identità di genere quale elemento costitutivo del diritto all’identità personale, rientrante a pieno titolo nell’ambito dei diritti fondamentali della persona’.

Il ‘ddl Zan’ non è allora che l’ultimo tratto di un cammino lungo decenni, occorsi alla conoscenza di fenomeni tradizionalmente impronunciabili, inconfessabili e indegni di attenzione politica e giuridica. L’intreccio fra legge e giudizio sulle leggi che in questi anni ha imparato a vedere le istanze di questi portatori di interessi, oggi abbraccia anche l’impegno a prevenire e contrastare la discriminazione e la violenza a danno di queste persone. Lo fa innestandosi in un impianto normativo già esistente in chiave sia punitiva che educativa: da un lato, estende all’identità affettiva e sessuale (e alla disabilità) la disciplina degli artt. 604-bis e 604-ter del Codice penale già atti a punire la propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico e l’istigazione a commettere atti di discriminazione o violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, nonché aggiungendo l’identità affettiva e sessuale (e la disabilità) all’odio razziale per la valutazione delle condizioni di particolare vulnerabilità di cui all’art. 90-quater del Codice di procedura penale. A cascata, sono poi integrate di queste nuove fattispecie anche alcune delle norme del decreto-legge n. 122 del 1993 (la cosiddetta ‘legge Mancino’) in materia di misure contro la discriminazione razziale, etnica e religiosa.

Sbaglia chi del ‘ddl Zan’ tema la deriva ideologica e sbaglia chi ne glorifichi il potenziale rivoluzionario.

Dall’altro lato, il ‘ddl Zan’ istituisce nel giorno 17 maggio la Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia per la promozione della cultura del rispetto e dell’inclusione, che le scuole celebreranno in sintonia con il piano triennale dell’offerta formativa, e richiede all’Ufficio per il contrasto delle discriminazioni presso la Presidenza del Consiglio dei ministri l’elaborazione di una strategia nazionale anche per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni legate all’orientamento sessuale e all’identità di genere, così come avviene già per quelle fondate sulla razza e sull’origine etnica.

Dell’efficacia delle misure approntate su questi due fronti è lecito dubitare. È lecito dubitare, per esempio, che la criminalizzazione delle espressioni di odio capaci di tradursi nella commissione di atti discriminatori o violenti sia lo strumento più idoneo a scongiurarne la proliferazione. Taluni addirittura le attribuirebbero un ascendente di fascinazione al contrario, che ecciterebbe anziché dissuadere i soggetti intenti a propagandare e incitare all’odio. Ma certo si è che il problema non lo crei il ‘ddl Zan’, e sarebbe disonesto accusarlo di misure che esistevano già per il contrasto ad altre forme di intolleranza. È altresì lecito sollevare dubbi sulla giornata dedicata alla promozione della cultura del rispetto e dell’inclusione e sul rischio, tutt’altro che remoto, di una monumentalizzazione della causa con quel corollario di testimonianze, patrocinatori e prefiche poco adatto a impressionare nel profondo la sensibilità dei più. E, però, anche in questo caso il ‘ddl Zan’ altro non fa che aggiungere una data al calendario delle ricorrenze variamente circonfuse di retorica. D’altra parte, c’è un modo diverso di ricordare e promuovere? La domanda ha antiche radici e ramificazioni rigogliose, e di nuovo sarebbe disonesto brandirla solo per impedire l’approvazione del ‘ddl Zan’.

Come sempre si dice in questi casi, l’azione della scuola è decisiva ma, anche qui, il ‘ddl Zan’ non inventa nulla, rinviando semplicemente a quanto già previsto dall’art. 1, co. 16 della legge 107 del 2015 sulla riforma del sistema nazionale di istruzione e formazione a motivo dell’educazione alla parità dei sessi e della prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni. È in questa norma che si esortano le scuole ad adottare un piano triennale dell’offerta formativa che assicuri l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità tra i sessi, la prevenzione della violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori’. Il piano triennale – che l’art. 1, co. 17 vuole sottoposto a tutte le garanzie di trasparenza e pubblicità al fine di permettere una valutazione comparativa da parte degli studenti e delle famiglie’ – è espressione della piena autonomia scolastica degli istituti statali, privati e parificati di ogni ordine e grado e la mera dedicazione di una data al contrasto delle discriminazioni su base affettiva e sessuale non aggiunge nulla a quanto già raccomandato.

C’è un punto di fragilità in questo impianto, ed è il pletorico articolo 4, quello, cioè, dedicato a far salve la libera espressione di convincimenti e opinioni e le condotte riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non determinino il concreto pericolo di atti discriminatori o violenti. Un inutile eccesso di zelo, come sa chi conosca i rudimenti del nostro diritto costituzionale; un infelice calumet della pace porto ai detrattori della legge; una maldestra addizione al testo che solleva più problemi di quelli che intenda appianare. Insomma, una excusatio evidentemente non petita, inetta dal punto di vista della redazione della legge e scioccamente allusiva a eventuali minacce al pluralismo e al pensiero libero, sicché diventa persino troppo facile leggerla come una accusatio manifesta. Perché dovrebbe essere chiaro che la legge penale come viene novellata dal ‘ddl Zan’ non rende punibili parole, pensieri o gesti innocui e sempre liberi, ma solamente la loro eventuale intenzionalità o idoneità a operare discriminazioni o a commettere e far commettere atti violenti contro persone.

Qualche esitazione può pure suscitarla il riferimento all’art. 1 lettera d) della identità di genere ‘indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione’. La Corte aveva osservato nella pronuncia del 2015 che l’identità di genere si esprime sì con la volizione della persona interessata, ma di cui vanno accertate la serietà e l’univocità dell’intento emerse nel percorso di transizione. Non aver concluso un percorso di transizione può significare averlo intrapreso ma non ultimato – e allora l’identità di genere comprenderebbe solo i casi di trasformazione sessuale mediante chirurgia, trattamento ormonale, ecc. – oppure non esservisi sottoposti, il che sembra più in linea con l’apertura indefinita alle manifestazioni dell’identità di genere: dall’agender (chi non si percepisce alcuna identità di genere), al pangender (chi ne contiene una molteplicità), al demiboy (non completamente maschile) e demigirl (non completamente femminile), fino al gender fluid (alternanza di identificazione fra maschile, femminile e misto). Tuttavia, qualsiasi ambiguità residua sul concetto potrà essere sciolta in sede interpretativa, come del resto è avvenuto più volte in materia da parte della Corte di cassazione e della Corte costituzionale in questi quasi quarant’anni.

Sbaglia chi del ‘ddl Zan’ tema la deriva ideologica e sbaglia chi ne glorifichi il potenziale rivoluzionario. Sbagliano soprattutto coloro che pensano di affossarlo per avversare le nuove accezioni di famiglia che il ‘ddl Zan’ contribuirebbe a normalizzare. È proprio una istituzione fragile, ormai, la famiglia, e gravemente smarriti i suoi paladini, se non sono in grado di intuire l’energia nuova che potrebbe venire a ciò che sta loro a cuore dalla voglia di famiglia delle coppie LGBTQI+. Nella loro aspirazione a lasciarsi dietro il ghetto, nel desiderio di barattare l’esperienza particolare con quella maggioritaria risiede la fortuna di un’istituzione che annaspa, avvilita nelle politiche pubbliche e nella visione del futuro. Questa linfa rivitalizzante è a portata di mano e non chiede che di essere assimilata: la maggioranza non avrebbe che da aprirsi a ciò che le vuole essere uguale.

Benedetta Barbisan