Salvo Leonardi

Al rinnovo del Parlamento europeo da mesi si guarda con forte apprensione, per l’inedita configurazione politica che potrebbe scaturirne, con conseguenze imponderabili per i destini dell’Ue. Un appuntamento cruciale, che ci induce ad esaminare gli sviluppi e le prospettive dell’Ue a partire da ciò che maggiormente la qualifica sulla scena globale, il suo modello sociale: quel peculiare mix di welfare e relazioni industriali che ha contraddistinto la specificità della civiltà europea novecentesca, le sue tradizioni costituzionali, la sua mentalità comune, la sua auto-comprensione. Sorto e maturato a livello di Stato-nazione, sotto la spinta di forti movimenti operai e sociali organizzati, quel modello ha ricevuto nei decenni una nuova e graduale proiezione politica su scala europea. All’incrocio fra i grandi affluenti ideologici e partitici del suo nucleo istitutivo (cattolico, socialdemocratico e liberale), il tentativo è stato quello di bilanciare un progetto di integrazione altrimenti funzionale agli esclusivi imperativi del mercato. Un percorso complesso e contrastato di creazione di uno spazio di regolazione sociale sovranazionale, in assenza di alcune fra quelle condizioni che a livello nazionale ne avevano favorito la realizzazione: a partire da un comune etnos, e finanche di un demos, depositari di una reale sovranità, e con essa di un potere deliberante, paragonabili agli spazi politici nazionali. Un deficit democratico, quest’ultimo, intorno al quale da decenni si interrogano le istituzioni europee e i loro più attenti studiosi, con l’obiettivo di far progredire ciò che comunque rimane – pur fra tanti limiti ed ostacoli – il più straordinario tentativo di realizzare una democrazia trans-nazionale.

Se per gli europeisti l’assenza di un demos europeo pregiudica quelle condizioni di solidarietà e fiducia che hanno reso possibile i welfare nazionali, per i nazionalisti è proprio la pretesa di volerlo conseguire su basi politiche e ideali a risultare irricevibile. Una ideologia cosmopolita considerata tipica delle élite economiche e culturali a spese di quanti non dispongono dei mezzi materiali e simbolici per apprezzarne i vantaggi, e che ne pagano un alto prezzo in termini di de-industrializzazione, riduzione dei diritti sociali, spaesamento identitario. E’ la narrazione di cui si è impossessata la retorica dei populismi, la quale nel binomio élite/gente comune ha il suo trait-d’union fra le varie componenti che ne costellano la geografia politica (Costa, 2019). Dopo il tramonto delle identificazioni religiose o classiste, e contro il grande freddo della razionalità calcolisitica, la nazione appare come l’unica identità capace ancora di suscitare emozioni. La reazione degli stanziali (somewhere people) contro quelli che possono andare e stare ovunque (anywhere people, Goodhart, 2017); una “controrivoluzione” (Zielonka, 2018) che, insieme a “Bruxelles”, prende di mira i fondamenti stessi della modernità illuminista su cui si fonda e caratterizza la civiltà europea (Crouch, 2019): lo Stato di diritto e il parlamentarismo, il valore del sapere tecnico e della cultura alta, l’ambientalismo, il multiculturalismo, i diritti delle donne, quelli dei gay.

Per il populismo di destra l’intera nazione si identifica con quella sua particolare fazione che, premiata da un eventuale consenso maggioritario, può legittimamente arrogarsi il diritto di ritenersi svincolata da qualunque check and balance, secondo un modello illiberale di democrazia già presente in alcuni paesi dell’Ue: compreso il nostro. Ma i critici radicali dell’attuale Ue si fanno sentire anche all’estremo opposto, in alcuni settori della sinistra intellettuale e politica: per i quali l’unione monetaria è stata e rimane un grande errore, una “camicia di forza anti-keynesiana” (Mitchell e Fazi, 2017). La tesi è che l’euro democratico non esisterà mai, e da esso si deve divorziare quanto prima (Streeck, 2013; Stiglitz, 2016). Un auspicio secessionista in difesa del welfare e della democrazia nazionale rispetto al quale il ginepraio della Brexit – già frutto di una informazione largamente distorta – sembra avere già indotto prese di posizione ovunque più caute e meno avventuriste.

La politica europea di questi anni reca pesanti le colpe per lo stato in cui oggi ci troviamo

In questi decenni il progetto europeo è stato innegabilmente perseguito da una élite politica, con l’avallo dei popoli nazionali, in grado di percepire, o comunque intuire per l’immediato, i sostanziali benefici che da esso ne avrebbero tratto (Habermas, 2013). Una disposizione positiva ma passiva, che ha iniziato a incrinarsi quando una serie multipla di crisi si è abbattuta sull’Europa, rivelando l’inadeguatezza – o peggio l’insipienza – dei suoi attori istituzionali. I fattori e gli scenari di crisi si moltiplicano e accavallano a un ritmo sempre più ravvicinato ed estenuante: dalla crisi dei debiti sovrani e delle banche a quella dei rifugiati; dai dazi di Trump alla Brexit, avendo sullo sfondo (ma non troppo) le sfide epocali del clima, della demografia, dell’intelligenza artificiale. Il nuovo capitalismo globale non appare più gestibile con la governance del secondo dopoguerra. Il vecchio contratto sociale, che per alcuni decenni aveva consentito il matrimonio fra democrazia e capitalismo, pare essersi irreparabilmente rotto (Streeck, 2013). I regimi di solidarietà entrano in “rotta di collisione” su quattro faglie di conflitto (Ferrera, 2016): 1) Europa economica vs. Europa sociale; 2) Nord-creditore vs. Sud-debitore; 3) Ovest-Est; 4) Bruxelles vs. Stati membri. A cui possiamo aggiungere oggi il cleavage che li comprende tutti: europeisti vs. sovranisti.

La politica europea di questi anni reca pesanti le colpe per lo stato in cui oggi ci troviamo. A una diagnosi sbagliata dei fattori di crisi è seguita una prognosi mortifera, tutta incentrata sulla leva austeritaria e della competitività da costi. Le riforme strutturali del mercato del lavoro e del welfare hanno a tal punto alimentato diseguaglianze e impoverimento da danneggiare non solo la fiducia nel progetto europeo, ma persino quel rilancio economico che avevano maldestramente perseguito. Malgrado sia ufficialmente terminata da qualche anno, la grande crisi ha lasciato ferite profonde nel corpo di tanta parte delle società europee: diseguaglianze (fra Stati membri e dentro ad essi), disoccupazione, lavoro povero, redditi stagnanti, servizi pubblici sotto attacco. Tutto ciò ha provocato una comprensibile ondata di euroscetticismo, particolarmente forte fra ceti popolari ed una parte di ceti medi, fuori dai grandi centri urbani.

Oggi sono in tanti a fare parziale mea culpa; ad esempio, sulla tragica e criminosa gestione della crisi greca. E come in altre fasi critiche dell’integrazione europea l’attenzione al sociale torna relativamente alla ribalta, nel tentativo – speriamo non troppo tardivo e strumentale – di rialzare le quotazioni di un progetto mai così in basso nella percezione dei cittadini europei. Anche di quelli che, come da noi, vi avevano sempre riposto simpatia e fiducia. Rassegnarsi a uno sguardo irreversibilmente negativo sarebbe un errore, negando sforzi e meriti di quella che rimane forse “la più grande invenzione giuridica dal dopoguerra” (Bronzini, 2003). Le forze europeiste sono sulla difensiva, e potrebbero a fatica raggiungere la maggioranza dei seggi nel prossimo Parlamento, necessaria a condizionare una serie di altri incarichi fondamentali. Per arginare questo rischio occorre lanciare un forte messaggio, capace di persuadere i cittadini intorno a una nuova qualità democratica e sociale per l’Europa. Nel primo caso, dimostrando che il demos, il popolo sovrano che costituisce il fondamento della legittimazione democratica, è una costruzione politica che non necessita di una identità dell’etnos, ma che può scaturire sulla base di ragioni ideali, ideologiche, economiche e sociali. Laddove proprio queste ultime, se adeguatamente declinate e valorizzate, possono fornire il necessario mito fondativo, la narrazione societaria di un’altra Europa possibile. E salvarla in extremis dall’impasse in cui sembra essersi cacciata.

Un governo efficace dei conflitti non può passare né dalla de-responsabilizzante tramite automatismi burocratici, né dalla ri-nazionalizzazione particolaristica del metodo inter-governativo

Un governo efficace dei conflitti non può passare né dalla de-responsabilizzante tramite automatismi burocratici, né dalla ri-nazionalizzazione particolaristica del metodo inter-governativo. Occorre piuttosto ri-politicizzare e democratizzare i processi decisionali, ampliando le prerogative di quelle istituzioni che più e meglio sono in grado di interpretare una legittimazione di stampo sovranazionale: Parlamento e Commissione. Coadiuvati, nei loro percorsi deliberativi, dal ruolo dei corpi intermedi: le parti sociali, la società civile europea. “Oggi – ha scritto Jurgen Habermas – il destino politico dell’Europa dipende dall’intelligenza e dalla sensibilità normativa, dal coraggio, dalla ricchezza di idee e dalla capacità di guida dei partiti politici, prima ancora che dalla capacità di percezione e reazione dei mass media” (2013; p. 48). Ciò implica il non agire come meri ricettori demoscopici, bensì con “una modalità argomentativa autorevole, in grado di modificare le mentalità” (ibid.; p. 49). Serve dunque, da parte degli attori più consapevoli, un’opera di sensibilizzazione intorno alla natura delle vere sfide che dovremo fronteggiare, dissuadendo da interpretazioni semplicistiche e da programmi puramente dettati dalla demagogia elettoralistica.

Come europei abbiamo oggi il privilegio di poter eleggere direttamente un Parlamento che rappresenta mezzo miliardo di cittadini, e che ha poteri sconosciuti in contesti solo appena paragonabili. Dovremmo sforzarci tutti affinché in sedi come quelle si possa ripristinare il più autentico fra i cleavages in conflitto: quello fra sinistra e destra, intorno al significato e al peso dell’uguaglianza, della solidarietà, dello Stato sociale e di diritto. Per poterlo fare servirà dimostrare che l’Ue ha già, e può sviluppare molto meglio che finora, i principi e le norme per deviare dal sua attuale assetto tecnocratico e neo-liberista, e recuperare una prospettiva più autenticamente democratica e sostenibile sul piano sociale e ambientale. La cornice normativa, seppur non priva di contraddizioni fra logica dei mercati e istanze sociali, esiste già e offre non poche leve. A cominciare dagli obiettivi contenuti nell’art. 3 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (piena occupazione, progresso sociale, lotta all’esclusione sociale e alle discriminazioni, tutela dei diritti umani): per proseguire con la Carta di Nizza, oggi incorporata nei Trattati, col suo Bill of rights in tema di libertà, uguaglianza, solidarietà, con aperture importanti che innovano anche rispetto alle migliori tradizioni del costituzionalismo sociale nazionale. Si tratta, evidentemente, di trovare la forza e la volontà politica per inverarli.

 

Bibliografia

Z. BAUMANN, Siamo soli, Castelvecchi, 2018.
G. BRONZINI, Europa, Costituzione e movimenti sociali, Manifestolibri, 2003.
V. COSTA, Elites e populismo, Rubbettino, 2019.
C. CROUCH, Identità perdute, Laterza, 2019.
T. FAZI, B. MITCHELL, Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale, Meltemi, 2018.
M. FERRERA, Rotta di collisione. Euro contro welfare?, Il Mulino, 2016.
D. GOODHART, The Road to Somewhere: The Populist Revolt and the Future of Politics, 2017.
J. HABERMAS, Nella spirale tecnocratica, Laterza, 2013.
S. SCIARRA, L’Europa e il lavoro, Laterza, 2013.
J. STIGLITZ, L’Euro. Come una moneta comune minaccia il futuro dell’Europa, Einaudi, 2017.
W: STREECK, Tempo guadagnato, Feltrinelli, 2013.
J. ZIELONKA, Contro-rivoluzione. La sfida all’Europa liberale, Laterza, 2018.