Se si vuole capire, impegnarsi e contribuire al futuro della propria nazione esiste una regola aurea. Bisogna conoscere bene la geografia. La storia offre certamente delle indicazioni importanti, ma è la posizione geografica che definisce un territorio, lo identifica e gli offre una prospettiva storica. Saper raggiungere questa prospettiva significa poter dare valore alla propria posizione geografica così da realizzare, costruire, decidere e soprattutto per poter generare. Si chiama genius loci ed è appunto la capacità “generativa” di un territorio, quell’identità fondamentale che lo rende capace di esprimere valore ed in questo modo anche di promuovere delle comunità, di diventare ed affermarsi come nazione. Per capire l’Italia del passato è quindi necessario guardare alla sua storia, ma anche alla geografia che l’ha determinata. Ed oggi che l’Italia vive una situazione di passaggio molto delicata, per le scelte che deve compiere, è assolutamente necessario osservare questo presente valutando la consapevolezza del contesto in cui ci troviamo e la conseguente capacità di pensare e di progettare un futuro che sia coerente con la storia italiana, ma anche e forse soprattutto con la sua geografia. Rimettiamo in ordine allora alcune informazioni per riconoscere chi siamo in ragione di dove stiamo.

L’Italia è terra, ma è anche mare. È una nazione relativamente piccola per quanto riguarda la superficie terrestre, poco più di trecentomila km quadrati che collocano il Belpaese al settantaduesimo posto nella classifica degli Stati per superficie. È invece una nazione piuttosto significativa per quanto riguarda la sua estensione costiera, con quasi 8.000 km di coste che collocano l’Italia al quattordicesimo posto al mondo per lunghezza delle sue coste marine, per intenderci più del Brasile e della Turchia e davvero molto di più di nazioni come la Francia e la Spagna (che hanno poco più della metà della superficie costiera rispetto a quella italiana). L’Italia è inoltre un paese che si proietta da Nord a Sud, inizia nel cuore dell’Europa continentale e termina a pochi chilometri dalle coste nordafricane. In realtà è ancora più corretto affermare che l’Italia si estende da Nord Ovest verso Sud Est. Non è una differenza da poco: Torino è più ad ovest di Oslo e Francoforte, mentre Lecce si trova più o meno sullo stesso parallelo di Sarajevo o Budapest. L’Italia ha una naturale propensione verso l’Oriente, che è stata una costante della sua storia ed è favorita dalla sua geografia. Soprattutto l’Italia è collocata al centro del Mediterraneo e questa sua collocazione, nel bene e nel male, la definisce e forma l’identità nazionale, influenza i popoli che la abitano e le loro vocazioni ed aspirazioni ed è determinante nella vicenda storica.

Soprattutto l’Italia è collocata al centro del Mediterraneo e questa sua collocazione, nel bene e nel male, la definisce e forma l’identità nazionale, influenza i popoli che la abitano e le loro vocazioni ed aspirazioni ed è determinante nella vicenda storica

Nel bene, perché l’Italia proprio grazie alla sua collocazione al centro del Mediterraneo ha potuto godere di una straordinaria e ricca biodiversità e diventare luogo di incontro e di sintesi di tanti popoli e culture. Nel male, perché proprio per questo motivo la conquista dell’area italiana ha rappresentato un obiettivo di tanti popoli e nazioni. Nel corso dei secoli il controllo del territorio e del mare italiano ha rappresentato una costante della storia delle relazioni tra gli Imperi prima e tra le superpotenze poi. In ogni caso resta un dato di fatto: l’Italia nella sua storia è stata prospera e forte sono quando è stata in grado di esercitare la sua influenza nel Mediterraneo, mentre è stata ed è debole e subordinata quando non è in grado di esercitare nel vasto mare che la circonda quella funzione di riferimento, che è dimostrata dalla sua storia, ma che è giustificata soprattutto dalla sua geografia. In questo senso se non riusciamo ad immaginare l’Italia nella sua dimensione mediterranea, vuol dire che non riusciamo a pensarla in modo corretto e non ne cogliamo la sua identità di fondo. Saper riconoscere una identità è fondamentale, perché solo in questo modo è possibile riconoscere il proprio destino che, come affermavano gli antichi, è sempre e solo dato dal genius loci. Ed aggiungevano che non saper riconoscere il proprio destino, quando lo si incontra, dia luogo a sventure.

Tutto questo i Romani lo sapevano molto bene. Hanno affrontato la sfida più dura, quella contro i Cartaginesi, proprio per il dominio del Mediterraneo, che hanno chiamato “Mare Nostrum”, tanto per far capire a chi dovesse appartenere. Le difficoltà romane ed il crollo dell’Impero hanno a che vedere anche con la progressiva perdita dell’egemonia nel Mediterraneo. D’altra parte i Romani avevano anche una certa ossessione per l’Oriente, visto che si dimostrarono disinteressati a completare la conquista del territorio dell’attuale Regno Unito e dell’Irlanda, ma furono ossessionati dalla conquista dell’Impero persiano. Raggiunsero ben sette volte la capitale persiana, la saccheggiarono, ma finirono sempre con il doversi ritirare.

Il controllo del bacino del Mediterraneo, ed in particolare del canale di Sicilia, è da sempre determinante per la gestione del flusso commerciale tra i continenti. Tutti gli Imperi lo hanno sempre saputo, fino ai giorni nostri. La storia italiana degli ultimi secoli ruota intorno alla sua capacità di essere egemone nel Mediterraneo. Quando viene persa a vantaggio degli Arabi inizia per noi il Medioevo, mentre quanto viene ripresa grazie alle Repubbliche Marinare prende il via la ripresa dei traffici sotto il controllo italiano che porta a quella fase di espansione economica che chiamiamo Rinascimento, che termina non a caso per due motivi: la pressione turca sul Mediterraneo e lo spostamento nell’Atlantico di molte rotte commerciali. Tuttavia la consapevolezza occidentale di non poter rinunciare al Mediterraneo è sempre stata forte e sentita. Le ragioni dell’alleanza europea che porta alla vittoria nella battaglia di Lepanto del 1571 non erano solo di natura religiosa, ma come sempre capita utilizzavano una motivazione di fede per rafforzare ragioni del tutto economiche e geopolitiche, relative ai rapporti di forza nel Mediterraneo. D’altra parte, nei porti di tutte le nazioni mediterranee per molti secoli, e fino all’Ottocento, è stata usata una lingua franca, il Sabir, che per il settanta per cento era composta da un lessico italiano. Il confronto per l’egemonia nel Mediterraneo è sempre stato centrale ed anche gli inglesi hanno avuto a lungo questa consapevolezza, necessaria per costituire il loro impero. La presenza ed il ruolo inglese nel Mediterraneo costituiscono una lettura determinante per capire l’evoluzione nel corso della storia delle relazioni anglo italiane e rappresentano anche il motivo per cui al termine della Seconda guerra mondiale l’atteggiamento inglese verso l’Italia, a differenza di quello statunitense, sia stato particolarmente punitivo, tanto da far affermare a Churchill: “l’unica cosa che mancherà all’Italia sarà una completa libertà politica”. L’espansione commerciale e politica inglese infatti si era resa possibile grazie alla presenza di avamposti strategici collocati sulle rotte del Mediterraneo, da Malta a Gibilterra. Questa espansione avvenne allora in competizione con gli interessi italiani e l’appoggio inglese all’Unità d’Italia si era determinato anche nella convinzione che i Savoia avrebbero rappresentato un regno meno interessato al Mediterraneo rispetto ai Borbone di Napoli, ai quali gli inglesi erano ostili. La marina britannica effettuò per questo un blocco navale di quella borbonica a sostegno della spedizione di Garibaldi. Non è soltanto la dottrina fascista a rendere inviso Mussolini al Regno Unito, ma soprattutto la progressiva azione con cui il capo del Fascismo riporta l’Italia ad avere una posizione forte nel Mediterraneo. Durante il Ventennio, l’Italia, dopo aver acquisito l’Istria, la Dalmazia, la Libia e le isole del Dodecaneso, sottratte proprio all’Impero turco a seguito dell’esito della Prima guerra mondiale, si rafforza nel Mediterraneo anche con il controllo dell’Albania ed una efficace strategia diplomatica verso l’Egitto ed il mondo arabo. Per reazione, gli inglesi vietarono tra l’altro che a Malta si parlasse italiano come lingua ufficiale ed obbligarono il re d’Egitto, il filoitaliano Fuad, ad iscrivere l’erede al trono Farouk non all’Accademia militare di Torino, come avrebbe voluto, ma all’Accademia britannica di Woolwich. La restituzione al termine della Seconda guerra mondiale all’egemonia inglese del controllo del Mediterraneo, rappresenta un elemento fondamentale che spiega sia la pressante richiesta di Churchill agli americani di compiere insieme lo sbarco in Sicilia nel 1943, che la successiva posizione ostile alle richieste italiane tenuta dagli inglesi durante la Conferenza di Parigi.

La strategia in chiave geopolitica espressa nel dopoguerra da personalità come quelle di Enrico Mattei e di Aldo Moro, che agiscono in difesa degli interessi economici e politici italiani nel Mediterraneo, costituisce uno dei motivi della diffidenza alla loro azione da parte degli alleati dei paesi aderenti alla Nato

La strategia in chiave geopolitica espressa nel dopoguerra da personalità come quelle di Enrico Mattei e di Aldo Moro, che agiscono in difesa degli interessi economici e politici italiani nel Mediterraneo, costituisce uno dei motivi della diffidenza alla loro azione da parte degli alleati dei paesi aderenti alla Nato. Anche altri politici italiani consapevoli di questo necessario posizionamento strategico dell’Italia, come Bettino Craxi, non hanno per questo motivo avuto vita facile nelle loro relazioni con gli alleati angloamericani.

Passano i secoli, ma la geografia continua a dare le stesse indicazioni. Ed il Mediterraneo resta centrale nei rapporti di forza politici ed economici. I motivi sono oggettivi. Il bacino del Mediterraneo rappresenta meno dell’un per cento delle acque globali, ma continua ad avere ancora oggi più del venti per cento dei traffici commerciali. In particolare il Canale di Sicilia è di grande importanza strategica, in quanto costituisce l’unico passaggio al mondo che permette la comunicazione tra i tre oceani e quindi è la cerniera tra quei traffici transoceanici destinati a governare quella “economia del mare” che rappresenta una delle chiavi determinanti del prossimo sviluppo globale. Noi italiani sappiamo bene come quel contesto sia strategico anche per la nostra forza politica ed economica. Abbiamo per questo fatto le guerre puniche, le Crociate, la battaglia di Lepanto. Abbiamo per questo, nel 1911, promosso una guerra alla Turchia per poter controllare la Libia, ne abbiamo fatto una colonia ed aiutammo nel 1969 il giovane Gheddafi a spodestare il re Idris, che era stato capo della resistenza antitaliana ed era stato messo dagli inglesi come sovrano al termine della Seconda guerra mondiale. Quando nel 1986 gli americani bombardarono Tripoli, fu il primo ministro Craxi ad avvertire in tempo Gheddafi di mettere in salvo la sua famiglia.

Sono passati dieci anni dalla fine del regime di Gheddafi e dalla stagione della Primavera araba. È evidente come questi dieci anni abbiano mostrato un cambio di scenario e nei rapporti di forza del tutto sfavorevole all’Italia, che si è indebolita non solo in Libia, ma che gioca un ruolo nell’intera area del Mediterraneo inferiore per forza e capacità di influenza rispetto a quanto gli è stato assegnato dalla sua posizione e persino rispetto a quanto ci viene richiesto da molte nazioni che si affacciano sul Mediterraneo. L’ Italia, come è noto, ha appoggiato in Libia, nel 2011, un attacco al regime non voluto e non deciso da noi, ma dai governi francese, inglese e statunitense. Di conseguenza è poi andata a traino delle volontà di queste nazioni.

In questi anni la Francia ha provato a riposizionarsi nell’area, con esiti forse non del tutto soddisfacenti rispetto allo sforzo compiuto, ma spesso in competizione con gli interessi italiani, soprattutto nel campo petrolifero.

In questi anni la Francia ha provato a riposizionarsi nell’area, con esiti forse non del tutto soddisfacenti rispetto allo sforzo compiuto, ma spesso in competizione con gli interessi italiani, soprattutto nel campo petrolifero. L’Italia ha continuato a muoversi attraverso i corretti canali della diplomazia, ma la guerra civile libica ha aperto negli ultimi anni un terreno di scontro che ha dato spazio alle rinnovate ambizioni turche e russe nel Mediterraneo. L’Italia ha aspettato l’Europa e la Nato ed è rimasta vittima di un ingiustificato disinteresse delle potenze occidentali ad agire direttamente e di una oggettiva difficoltà a muoversi e a schierare le proprie forze armate senza una indicazione in tal senso da parte della Nato o dell’Unione Europea. L’Italia possiede una forte e ben equipaggiata Marina militare, ma in questi anni questa forza è apparsa spesso senza guida rispetto alla sua funzione di presidio degli interessi italiani nel Mediterraneo. Di fronte a questa inerzia la Turchia di Erdogan ha giocato le sue carte e si è mossa con grande abilità. Nonostante sia un paese aderente alla Nato, ha mandato direttamente il suo esercito a proteggere Tripoli dagli attacchi di Bengasi, proprio mentre noi mandavano il nostro primo ministro ad omaggiare il generale Haftar per la riconsegna dei pescatori italiani detenuti. I turchi hanno saputo conquistarsi un forte credito sul campo, utile per posizionare i propri interessi economici e le proprie imprese su un territorio in cui fino a poco tempo prima agivano soprattutto aziende italiane e francesi. Il risultato è che ora a presidiare il Canale di Sicilia, proprio come ad inizio Novecento, ci sono i turchi, che addestrano e controllano la Guardia costiera libica. D’altra parte anche un’altra ex colonia italiana sul Mediterraneo, l’Albania, paese filo italiano ed in cui la metà della popolazione parla correttamente la nostra lingua, ha un esercito che viene addestrato dai turchi nell’ambito di un accordo di cooperazione militare. Sembra che la Turchia abbia un interesse specifico verso gli Stati che sono stati nostre colonie ed in cui rimangono interessi italiani, visto che hanno messo in piedi una base anche in Somalia per addestrare l’esercito e l’intelligence somali.

L’intesa siglata da Erdogan con i somali è simile a quella stipulata in Libia: zone economiche speciali per le imprese turche e sfruttamento degli idrocarburi.

L’intesa siglata da Erdogan con i somali è simile a quella stipulata in Libia: zone economiche speciali per le imprese turche e sfruttamento degli idrocarburi. Questa strategia aggressiva della Turchia non deve stupire, ma deve far riflettere per due aspetti: agisce in diretta competizione con interessi italiani di natura strategica e si determina attraverso operazioni destinate a definire una presenza stabile in queste aree. È una storia che si ripete da secoli, quella che si svolge tra noi ed i vicini turchi. Non si tratta di un risiko momentaneo, ma di una strategia a lungo termine che per molti anni ha potuto godere dell’inerzia italiana e del disinteresse statunitense ed europeo di fronte a queste mosse. Una strategia di espansione e di forza in chiave geopolitica mostra sempre una spinta alla quale deve rispondere. La spinta turca è poderosa, mentre quella europea è debole e quella italiana lo è ancora di più in quanto la Turchia deve rispondere ai bisogni ed alle speranze di una nazione di ottanta milioni di persone ed in maggioranza giovani, in quanto l’età media della loro popolazione è di circa 32 anni. L’Italia invece ha un’età media tra le più alte al mondo, intorno ai 46 anni di età, ed è inoltre un paese molto più ricco della Turchia: gli italiani hanno una ricchezza media individuale quattro volte superiore a quella turca (Pil individuale) e di tre volte superiore rispetto al loro Pil nominale (il valore dei prodotti e dei servizi). Per intenderci, nella classifica tra le nazioni per ricchezza complessiva l’Italia, nonostante le crisi, resta all’ottavo posto al mondo mentre la Turchia non supera il diciannovesimo. Quindi questo contrasto geopolitico vede un confronto tra la Turchia, che è un paese giovane, che spinge alla ricerca di benessere, con una popolazione superiore del trenta per cento ed una ricchezza inferiore di almeno tre volte rispetto ad un paese come l’Italia, che è più anziano e mediamente più ricco, ma che appare ripiegato nei suoi confini. D’altra parte anche l’esercito turco appare più robusto di quello italiano, tranne proprio per quella Marina militare, che l’Italia espone nei suoi porti, facendone però un uso davvero cauto e rispettoso degli interessi in gioco, anche quelli altrui. La spinta al benessere della popolazione turca si traduce nel consenso ad una proposta politica incarnata ancora nella figura del presidente Erdogan, un capace autocrate nazionalista che prende voti soprattutto dalla parte più povera della sua nazione e che ha riempito la Turchia di grandi opere pubbliche, che nascondono tuttavia un indebolimento sostanziale della sua economia e della sua moneta, che appare in sofferenza. La Turchia più giovane, istruita e dinamica non ha guardato in questi anni ad Erdogan come un riferimento ed oggi il presidente turco si propone come sostenitore degli interessi del suo paese agendo anche fuori dalla Turchia. Quando ci sono difficoltà interne, di solito la risposta è la proiezione espansiva verso l’esterno. E l’esterno della Turchia riguarda in primo luogo l’Italia. Per questo la questione tra Italia e Turchia non è solo relativa alla natura democratica o meno del potere di Erdogan, ma riguarda interessi molto più vasti e di notevole portata strategica.

La competizione nel Mediterraneo tra Italia e Turchia può costituire una sfida economica tra nazioni avanzate, civili ed in grado di trovare un terreno di intesa e di reciproca convenienza oppure può degenerare in un contrasto continuo anche in ragione del mancato rispetto e del riconoscimento dei reciproci bisogni.

La domanda che l’Italia tuttavia si deve porre è perché in questi lunghi anni di crisi e di difficoltà i governi italiani non abbiano collegato il minore dinamismo economico e politico del nostro paese anche alla sua perdita di influenza e di peso nel Mediterraneo

La domanda che l’Italia tuttavia si deve porre è perché in questi lunghi anni di crisi e di difficoltà i governi italiani non abbiano collegato il minore dinamismo economico e politico del nostro paese anche alla sua perdita di influenza e di peso nel Mediterraneo. Eppure questo collegamento è del tutto evidente. Per capire le ragioni della sua attuale crisi l’Italia deve tornare a guardare con maggiore attenzione alla sua storia ed alla sua geografia. Negli ultimi anni il nostro paese ha perso capacità competitiva soprattutto al Sud ed ha mancato quelle occasioni di sviluppo legate all’economia del mare ed al Mediterraneo che sono state invece un volano interessante per la crescita di altre economie vicine, come quella spagnola. Emblematico è il caso della Sicilia, che non a caso è risultata in questo decennio la regione più penalizzata da una evoluzione delle dinamiche economiche italiane che ha puntato decisamente sul Nord Est e sulla sua crescita, coinvolgendo poco il resto del paese. Il fatto che la grande isola che è centrale nel Mediterraneo sia invece diventata periferica nell’economia italiana la dice lunga sullo strabismo che in questi anni ha contraddistinto la politica italiana e spiega come, a fronte della nostra inerzia, altre nazioni abbiano preso quel terreno, anzi quel mare, che noi non abbiamo presidiato. Si tratta di un errore grave. Perché pensare l’economia italiana solo guardando al Nord ed alle sue aziende significa vedere il nostro paese per quello che non è: ossia come una succursale dell’asse economico franco-tedesco.

Noi siamo il luogo in cui stiamo ed il pensarci come mitteleuropei costituisce un abbaglio pericoloso e che non conviene a nessuno, tantomeno al Nord Italia. Perché si finisce col diventare oggetto delle ambizioni della finanza francese, che quando si tratta di comprare le aziende italiane è sempre in prima fila, come nel sistema moda o nel caso della Fiat, mentre il fallimento dell’operazione Fincantieri mostra come sia difficile per l’Italia fare importanti acquisizioni oltralpe. Oppure col far dipendere la nostra industria dal ruolo di fornitrice del sistema manifatturiero tedesco, privando il nostro principale settore economico dell’autonomia necessaria per innovare ed esportare. E si finisce poi col favorire il trasferimento delle migliori energie dei nostri giovani più scolarizzati dal Sud verso il Nord o all’estero. È proprio quello che è accaduto in questi ultimi dieci anni, che hanno rappresentato per l’Italia forse il periodo in cui alle peggiori scelte nell’economia, come l’inadeguato investimento nello sviluppo umano, hanno corrisposto le mancate scelte nella geopolitica e la retrocessione italiana nel Mediterraneo. Tutto questo ha impedito all’Italia di approfittare di una fase in cui l’espansione dell’economia del mare, dei mercati globali e del sistema della logistica e dei trasporti marittimi ha stimolato tutte le principali economie dei paesi che si affacciano sui mari. D’altra parte il fatto che in Sicilia, al centro del Mediterraneo, non ci sia nemmeno un porto davvero significativo per i traffici commerciali di questa grande area è un dato piuttosto indicativo. Le grandi potenzialità dell’economia del mare per il nostro Mezzogiorno sono ancora quasi tutte da esprimere e questa capacità dipende molto non solo dagli investimenti, ma anche dalla nostra strategia nell’area. Per questo motivo va salutata con sollievo l’attenzione al Mediterraneo ed in generale al tema della geopolitica e dei rapporti tra le nazioni in cui il presidente del consiglio Mario Draghi sembra aver collocato la sua azione. Non si tratta tuttavia solo di far presente al mondo occidentale i limiti che oggi sembra avere la democrazia turca, ma di ricordare come lo sviluppo italiano possa partire solo da una maggiore consapevolezza delle opportunità che derivano dalla sua posizione geografica. Questo motiva anche il forte sostegno agli investimenti nel Mezzogiorno ed alla coesione territoriale promossi dal Recovery Fund, tra cui il piano per il potenziamento dei nostri porti, determinante per la ripresa delle regioni del Sud, la cui economia è legata al mare molto di più che per il resto del paese. Per questo l’Italia deve smettere di indugiare e tornare a dare valore alla sua capacità di influenza e sapere fare leva sui rapporti di forza, come sa fare la Turchia, continua a fare la Francia e come abbiamo saputo fare anche noi quantomeno fino ad alcuni anni fa. Questo mare non può più vederci come degli estranei, spettatori di un gioco dominato da altre potenze e da altri interessi. Il Mediterraneo ci invita a riguardare con più attenzione alla nostra storia ed alla nostra geografia. Non siamo una succursale di Berlino o di Parigi, ma la principale nazione al centro del Mediterraneo, il mare che unisce tre continenti. Va dato merito a Draghi di avercelo ricordato. Non è una sfida facile. Erdogan è astuto e può giocare carte pesanti: dalla gestione dei flussi migratori, all’apertura del Mar Nero alla flotta americana in chiave anti russa. Gli italiani che nel passato hanno saputo giocare bene questa sfida hanno il nome di De Gasperi, di Mattei, di Moro, di Craxi. Non hanno avuto un compito facile. Si sono scontrati per questo con personalità della statura di Churchill, De Gaulle, Kissinger, Reagan ed hanno meritato il loro rispetto. La sfida che oggi si gioca sul Mediterraneo non è una sfida contro qualcuno, ma è una sfida per l’Italia. Serve una classe politica che ne sia cosciente e sappia agire di conseguenza.

 

Romano Benini

 

 

 

 

 

 

 

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