di Tommaso Gazzolo

E’ possibile che la questione realmente da pensare in questi giorni abbia a che vedere, più che con qualsiasi problema interno ad una “politica della salute”, con il rapporto tra il governo della popolazione (il modo, diremo, di influenzarne, indirizzarne, regolarne e guidarne la condotta), e il diritto. Ciò a cui stiamo assistendo, come dovrà vedersi, non è altro dall’insieme di problemi che si definiscono una volta che sia giunto ormai a compimento quel processo, già iniziato da tempo, che conduce alla fine della relazione tra potere e diritto: o, se si vuole, alla fine del «principio che il diritto debba essere la forma stessa del potere e che il potere debba sempre esercitarsi nel­la forma del diritto»1.

Se il diritto non costituisce più la forma del potere, ciò dipende dal fatto che ciò che chiamiamo “potere” non è più la stessa cosa di quello che il modello giuridico presupponeva e ha continuato a presupporre sino ad oggi. Quando Foucault insisteva sul passaggio dal sovrano al governo intendeva esattamente questo: non uno spostamento dal legislativo all’esecutivo, ma da un potere che si pensa come relazione d’obbedienza (l’idea che il potere consista nel comandare, nel prescrivere, nel dettare ordini, e che pertanto richieda essenzialmente di essere obbedito) ad un potere che si pensa, diversamente, come governo: l’idea cioè che il potere consista nell’indirizzare, nell’influenzare, nel guidare una serie di azioni o di fenomeni reali secondo strategie complesse.

Finché i rapporti di potere sono pensati come rapporti di comando/obbedienza, il diritto (la legge) è ciò che consente la loro messa in forma e la loro stessa pensabilità (è il linguaggio del diritto che consente di pensare in termini di contratto il rapporto sovrano/sudditi, in termini di obbligazione la loro relazione, etc.). Ma una volta che il potere ha iniziato a pensare come suo compito quello di assicurare la sicurezza e il benessere della popolazione, il problema decisivo è diventato non più quello di farsi obbedire, ma quello di influire sul comportamento della popolazione intervenendo su oggetti, fattori, fenomeni apparentemente estranei ad essa, e che tuttavia interagiscono con la stessa.

Un esempio, il più semplice possibile, aiuta forse a chiarire la questione. Posso pormi il problema di come fare in modo che un certo quartiere, o una certa strada, non si trasformi la sera in una zona di delinquenza o di spaccio? Una risposta che si potrebbe dare è imporre la chiusura di tutte le attività commerciali dopo una certa ora, impedire la circolazione delle persone, ispezionare le strade, o soluzioni analoghe. Ciò che conta è che è un dispositivo giuridico-disciplinare che funziona: è l’idea, in altri termini, che il potere si esercita come comando, prescrizione, disciplina dei comportamenti delle persone, e che esso si rivolga ai cittadini a partire da una pretesa di obbedienza.

Le cose cambiano, tuttavia, se la strategia inizia a essere, invece, quella di non impedire in alcun modo la circolazione delle persone e l’apertura dei locali, ma, ad esempio, di intervenire su altri aspetti che incideranno sul comportamento della popolazione in maniera indiretta: ad esempio regolando l’illuminazione stradale, agevolando lo svolgimento di attività o iniziative che spingano a frequentare il quartiere un certo tipo di persone, di una certa età, educazione, classe sociale, e così via. Qui ciò che è cambiato è la concezione del potere. Esso non agisce più prescrivendo o imponendo una disciplina. Lascia infatti che le persone circolino liberamente senza intervenire direttamente, senza imporre la sua “volontà”. Il potere interviene però a governare tale circolazione: ossia ad orientarla, indirizzarla verso certe finalità (impedire lo spaccio), agendo su fattori che sono apparentemente estranei ad essa (l’illuminazione, la distribuzione delle licenze commerciali, etc.), ma che, modificandosi, modificheranno anche questa.

Diventa chiaro, pertanto:

  • che ciò che richiede essenzialmente il potere, ora, non è l’obbedienza: quella con il potere non è più, principalmente, una relazione di obbedienza (per quanto, ovviamente, non significa che non continueranno ad esistere obblighi e divieti);

  • che la legge non è più lo strumento, il mezzo essenziale del potere, ma soltanto una tra le tattiche possibili che esso adotta al fine di assolvere ai propri compiti e realizzare le finalità che di volta in volta si propone.

Quelle che Foucault chiama «società sicuritarie» sono società in cui le relazioni di potere non sono più riducibili a relazioni di obbedienza

Foucault ha spiegato perfettamente questo passaggio con riferimento proprio al problema delle malattie. Il problema della peste, nel XVII secolo, è ancora pensato e trattato attraverso una tecnologia giuridico-disciplinare: la finalità del potere, cioè, sarà qui quella di impedire il contagio imponendo una disciplina, separando i malati dai sani e regolando minuziosamente la condotta delle persone, prescrivendo loro «come e quando possono uscire, i comportamenti da seguire a casa, l’alimentazione da osservare, il divieto di contatti, l’obbligo di presentarsi agli ispettori e far ispezionare la propria dimora»2. Se la disciplina regola tutto, non tralascia nulla, implica il continuo controllo delle persone e la costante ispezione delle abitazioni, la legalità costituisce una tecnica ad essa funzionale, dal momento che si tratterà di operare a partire da un codice binario che separa il lecito dall’ illecito, ciò che è vietato da ciò che è permesso.

Già con il caso del vaiolo, un secolo più tardi, il problema si è ridefinito. Qui non si tratterà tanto di imporre una disciplina – per quanto certamente continueranno ad operare regolamenti e prescrizioni – quanto di “governare” la malattia attraverso una serie di interventi soprattutto a carattere preventivo (come l’inoculazione e la vaccinazione) resi possibili da una serie di calcoli, di osservazioni di natura statistica, probabilistica, relativi al modo in cui la malattia è distribuita: tali da permettere di sapere, per ciascun individuo, il grado di rischio di morbilità e di mortalità. Ora il potere interviene non semplicemente per impedire il contagio o eliminare la malattia, ma prendendo in considerazione tutta la popolazione e determinando quale sia il tasso medio di contagio, per poi agire in modo tale da poter influenzare le normalità diverse che si verificano – come il tasso di mortalità infantile – riportandole vicino alla media. L’aspetto essenziale, qui, è che il potere non si esercita come richiesta di obbedienza assicurata da un sistema di prescrizioni e sanzioni, quanto come “governo”: esso opera, cioè, disponendo le cose, agendo su fattori che consentano di modulare il rischio, di assicurare una certa distribuzione di un fenomeno.

Quelle che Foucault chiama «società sicuritarie», come la nostra, sono società in cui le relazioni di potere non sono più riducibili a relazioni di obbedienza (per quanto ovviamente queste relazioni continuino ad esistere). Sono società in cui le relazioni di potere sono relazioni di governo: in cui, cioè, tutto passa non per l’imposizione di comandi, ma per strategie che consentono di disporre una serie di fenomeni in modo da indirizzarli verso un certo fine.

Prendiamo ancora le malattie. Per la peste, si tratta certamente di un meccanismo disciplinare che attraverso i dispositivi giuridici mira a isolare, definire uno spazio chiuso e regolarlo. Ma per l’epidemia cui stiamo assistendo tutto è diverso. E’ vero, operano ancora meccanismi di isolamento (la quarantena, la chiusura dei confini, etc.). Ma operano all’interno e come tattiche di una strategia più complessa, che in realtà presuppone:

  • il controllo di uno spazio per definizione senza limiti (il virus può diffondersi ovunque, ed è come tale che viene trattato);

  • la messa in opera di una serie di calcoli, di studi, sulle probabilità di contagio, le zone più a rischio, le età più colpite, etc.;

  • l’adozione di misure che, sulla base di tali calcoli, non incidono direttamente sulla malattia o sui malati, ma su fattori apparentemente indipendenti che tuttavia influenzeranno probabilisticamente il decorso della malattia stessa e la condotta della popolazione.

Ciò che è cambiato è il senso della relazione di potere che sta alla base della legalità

Tali misure consisteranno, ad esempio, nel redistribuire i posti letto tra le regioni, incidere sullo spostamento della popolazione da una regione all’altra o da un comune all’altro, stabilire determinati orari di apertura e di chiusura dei negozi, etc. Ora, per quanto alcune di esse siano prescrizioni legali, è chiaro che la funzione di questa “legalità” è del tutto mutata: essa non sarà fine a se stessa (o meglio, il punto non sarà più l’obbedienza richiesta), quanto il fatto che, intervenendo sulla chiusura delle attività commerciali, si influenzeranno altre serie di fattori e di comportamenti che sono quelli che, in ultima istanza, il governo è interessato a regolare. E’ chiaro che le norme esistano ancora, che si proceda ancora attraverso leggi, che vi sia ancora un aspetto disciplinare in atto: ma tutto ciò è inserito all’interno di una strategia nuova, di tipo “securitario” (la messa in sicurezza della popolazione), in cui a contare non è la disciplina che si impone alle persone, ma i comportamenti che si possono indurre.

Comincia a chiarirsi, allora, anche il modo, apparentemente contraddittorio in cui, in queste settimane, si è delineata l’azione del governo. Da una parte c’è stato il ricorso, attraverso una serie di provvedimenti normativi, alla disciplina: all’imposizione di prescrizioni, di obblighi, di divieti. Ma dall’altra lo stesso governo non ha smesso di ripetere che non fosse questo il punto: che non fosse davvero questione di imporre degli obblighi.

La questione se si potesse o meno uscire da casa è stata esemplare. Anzitutto, il governo ha risposto alla domanda sempre e soltanto in modo informale, ossia tramite la pagina internet della Presidenza del Consiglio dedicata alle domande più frequenti, in cui si legge «Si deve evitare di uscire di casa», e sul sito del Ministero dell’Interno: in cui compare un documento – ovviamente privo di ogni forza normativa – dal titolo “#coronavirus. Le regole per gli spostamenti”, che dispone: «Non si può uscire di casa se non per validi motivi». Dopodiché gli organi di stampa hanno ripetuto tesi del tipo: il governo ha chiarito che «si deve evitare, ma non è vietato». Il che, dal punto di vista giuridico, non significa nulla: “si deve evitare x” può solo significare “è obbligatorio non fare x”, “vietato fare x”. Altrimenti l’espressione, semplicemente, non ha senso (ovviamente i giornali cercavano di chiarire come la norma disponesse che «si deve evitare di uscire, salvo per i motivi indicati dalla disposizione»: ma questo è un divieto a tutti gli effetti).

C’è qualcosa di più, qui, che una strategia di comunicazione. Ed è il rapporto tra due dispositivi differenti: quello giuridico da una parte, in quanto le funzioni di governo sono istituzionalizzate ancora secondo il modello legale; quello propriamente governamentale dall’altra, in quanto la funzione di governo non è più da tempo quella normativa, ma diversamente quella di un’azione sulle cose che risponde ad una logica “sicuritaria”.

Per questo avremo ancora una legalità, ma del tutto svuotata: una legalità senza legge, si direbbe, poiché la legge non è più ciò che consente all’azione di governo di esprimersi. E questo non perché – come si tende a dire – l’urgenza, l’emergenza, la necessità imporrebbero tempi di “decisione” che il procedimento legislativo non potrebbe garantire (è il vecchio problema, tutto interno ancora alla logica “giuridica”, della governabilità, che non ha niente a che vedere con la “governamentalità”). Diversamente, è perché ciò che è cambiato è il senso della relazione di potere che sta alla base della legalità: l’azione di governo non è spiegabile, definibile, articolabile nei termini di una pretesa di obbedienza, di un rapporto di obbligazione. Il governo non consiste nell’intimare, nel prescrivere alla popolazione: “fate questo, non fate quello”.

Più che farsi obbedire, il governo consiste e mira a che la popolazione faccia da sé ciò che esso vuole

Lo stesso nome che il governo ha scelto per il decreto del 9 marzo scorso, #IoRestoaCasa, è indicativo, se lo si legge in ciò che esula dalle normali tecniche di comunicazione o di propaganda. L’uso dell’hashatag e dello shifter “io” non serve qui semplicemente a far sembrare che sia “io” che prescrivo a me stesso una norma, ma a identificare l’io cui l’enunciato si riferisce dall’io che lo pronuncia (per quanto, in realtà, la separazione la differenza tra l’ “io” in quanto soggetto d’enunciazione ed “io” in quanto soggetto d’enunciato resta irriducibile). L’operazione posta in essere, lo si ripete, è quella di re-inscrivere la norma (l’obbligo di rimanere a casa) all’interno di una strategia in cui essa – se continua ad esistere, ad essere in vigore – possa tuttavia funzionare non come pretesa di obbedienza, ma come tattica – unitamente ad altri fattori – finalizzata al raggiungimento di determinati scopi3.

Più che farsi obbedire, il governo consiste e mira a che la popolazione faccia da sé ciò che esso vuole. Se si vieta alle persone di uscire di casa e poi queste escono, tutto semplicemente fallisce. Bisognerà allora fare in modo che esse decidano di non uscire, di uscire il meno possibile, di uscire con la mascherina, adottando una serie di strategie complesse: che riguardano certamente anche un certo regime dell’informazione (i “bollettini” della protezione civile, il dibattito pubblico, il ruolo dei giornali, etc.), ma anche misure come il congedo parentale, il voucher per le babysitter, il rinvio per tasse e contributi (le quali non sono in realtà misure adottate a causa del fatto che le persone non possono uscire, ma misure adottate per fare in modo che la gente decida di non farlo). Dovrebbe essere chiaro come qui non sia affatto in gioco il problema dell’obbedienza, quanto quello di influenzare il libero comportamento della popolazione intervenendo su fattori e fenomeni apparentemente lontani da esso.

Per quanto, allora, l’azione del governo continui ad attuarsi anche attraverso un dispositivo giuridico (ma completamente “svuotato”), la funzione di governo che in essa si esprime si basa su tecniche che sono del tutto eterogenee rispetto alla logica propria del diritto. che, semplicemente, è una logica fondamentalmente estranea alle “società sicuritarie”. Foucault, ancora, l’ha espresso in termini essenziali e semplici in un’intervista del 1977, osservando come il rapporto tra lo Stato e la popolazione si sia modificato ormai irreversibilmente in questo senso. Se lo Stato “classico” si fondava su una sorta di «patto territoriale» (la “sicurezza” come garanzia di vivere in pace all’interno di un certo territorio), ora lo Stato si fonda su un «patto di sicurezza»: dove “sicurezza” indica un’altra cosa, la garanzia di essere protetti da tutto ciò che può essere incertezza, malattia, danno, rischio4.

Nel momento in cui il “patto” tra lo Stato e la popolazione diviene un patto securitario, la stessa “cultura dei diritti” cambia profondamente

La questione delle frontiere, della sicurezza come ordine all’interno di un territorio, è una questione storicamente inesistente e superata da decenni: per questo movimenti come la Lega di Salvini appartengono storicamente al passato, per quanto possano certamente tornare d’attualità (che è cosa diversa, tuttavia). Ciò che lo Stato propone, ciò che la popolazione desidera, è la sicurezza come protezione (per questo l’epidemia oggi e il terrorismo ieri sono i “pericoli” per eccellenza che lo Stato può incontrare). Ritorniamo pertanto alla domanda iniziale. La fine della legalità non indica affatto né la semplice “illegittimità” delle misure adottate dal governo, né tantomeno l’erosione dei poteri del legislativo da parte dell’esecutivo. Significa qualcosa di profondamente diverso e più radicale: indica infatti che si è finalmente compiuto, che è giunto alla sua fine, un tipo di potere che aveva per forma il diritto – e anzitutto la sua espressione nella legge – in quanto pensava se stesso e agiva secondo una logica dell’obbedienza.

Il potere non pretende più di essere obbedito. Ed è per questo che la legalità smette di avere una funzione reale nella definizione e strutturazione della politica, del rapporto tra Stato e popolazione. Il potere pretende, diversamente, di governare. Per questo, visto dal punto di vista “giuridico” (che è tuttavia un punto di vista del tutto improprio e inadeguato), assistiamo non tanto all’attribuzione di “pieni poteri” ai governi in situazioni di “emergenza”, quanto allo svuotamento dei “poteri”: ad un’azione che si svolge in assenza di potere, che è la definizione che Agamben, correttamente, fornisce di “stato di eccezione”. Non si annuncia una dittatura, dunque: non si annuncia cioè il conferimento di “pieni poteri” al governo. Si annuncia – si è già realizzato – uno Stato in cui la legge – intesa come la forma attraverso cui il potere giustifica la propria pretesa di obbedienza – cessa di valere in quanto legge. Riformulerei allora, modificandola, la tesi di Agamben, certando di precisare in che termini possiamo intendere qui la separazione tra la norma e la sua attuazione. Da una parte la norma viene sì applicata, rimane sì in vigore, trova “attuazione”: ma dall’altra essa non si definisce più per ciò che la rende norma, ossia il suo dover-essere attuata, bensì unicamente come elemento, fattore tra altri, all’interno di una strategia che non è più “normativa” in senso classico, ma “governamentale”.

L’elemento decisivo – che permette di capire perché l’attuale governo abbia adottato in quel modo le misure che ha adottato – è che siamo ormai in una società in cui le relazioni di potere non si definiscono a partire dalla pretesa di obbedienza, ma secondo meccanismi diversi e più articolati che possono essere identificati come meccanismi di controllo (o di protezione, che è poi lo stesso): i quali operano “governando” serie di fenomeni, e non disciplinandoli. Certamente il diritto continua ad assolvere ad una serie di funzioni: essenzialmente a funzioni di governance, gestionali, amministrative, fondate sulle logiche della negoziazione diffusa, della co-decisione, della cooperazione tra diversi attori. Ma la sua funzione è irrimediabilmente cambiata, ed è divenuta una funzione puramente “tattica”.

Nel momento, inoltre, in cui il “patto” tra lo Stato e la popolazione diviene un patto securitario, il quale non può essere assolto ricorrendo alla legalità (come si è visto fin qui), la stessa “cultura dei diritti” cambia profondamente. Il modello “liberale” classico – che era un modello giuridico, funzionale a mettere in forma il «patto territoriale» tra Stato e popolo – implicava l’idea che i diritti esistono prima dello Stato: nel senso che lo Stato esiste unicamente per garantirli. Ora, in un patto securitario, non sono i diritti ma la protezione a venire prima. La conseguenza è che, come accaduto in questi giorni, si trova del tutto naturale che, di fronte ad una emergenza sanitaria o un pericolo per la salute, i diritti individuali possano essere sospesi o limitati.

La questione, ovviamente, non è se tutto ciò possa o meno essere giustificato sulla base di qualche argomento (probabilmente lo è). Piuttosto è che non si percepisca neppure più il problema (si parla di uno “sforzo”, di un “sacrificio” che viene richiesto alla popolazione, e non del fatto che sono stati sospesi, secondo modalità quantomeno sospette di incostituzionalità, diritti fondamentali previsti in Costituzione). Certamente la “cultura dei diritti” è sempre stata essenzialmente estranea agli italiani. Ma, a prescindere da ciò, dovremo cominciare a pensare come le società “securitarie” determinino di fatto una trasformazione anche nel ruolo e nella funzione dei diritti “fondamentali”.

E’ chiaro che tutto ciò non verrà adeguatamente pensato finché si riterrà che sia a causa dell’emergenza sanitaria che questi cambiamenti si sono prodotti: temporaneamente, magari, come temporanea è stata e sarà la sospensione dei nostri diritti. In realtà queste trasformazioni si erano già realizzate, e la situazione estrema che si è verificata ha finalmente permesso di vederle. Se, finita l’emergenza, i nostri diritti individuali ci saranno nuovamente restituiti, ciò non significherà affatto che si sarà tornati indietro.

La verità è che ormai tra potere e diritto la rottura – che è in atto ormai da almeno un secolo – si è definitivamente consumata: il diritto non è più in grado di mettere in forma il potere, di dare espressione (e quindi anche limite) al modo di procedere del potere; il potere non è più in grado di risolvere la propria azione in azione giuridicamente regolata. E questo non perché sia entrato “in crisi” il diritto, come periodicamente si sente affermare. Piuttosto perché un potere che non pretende obbedienza (o, più correttamente, relazioni di potere che non si fondano sull’obbedienza) è qualcosa che non siamo ancora riusciti a pensare, e che pure è già da tempo il potere proprio del nostro tempo. Che esso sia molto più temibile del precedente, che renda ancora più difficili forme di resistenza, è un fatto che non dovrebbe essere spiegato.

1 M. FOUCAULT, La volonté de savoir, Gallimard, 1976; trad. it. La volontà di sapere. Storia della sessualità 1, Feltrinelli, 2013, p. 79.

2 M. FOUCAULT, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), trad. it. di P. Napoli, Feltrinelli, 2005, p. 20.

3 Aggiungo una riflessione sul “pasticcio” che è presente nell’attuale normativa sulla questione del “divieto” di uscire di casa. Esiste infatti un’unica disposizione a livello nazionale che regola la materia, e che è quella che risulta dall’intervenuta modifica dell’art. 1 del Dpcm 8 marzo 2020 ad opera del decreto dello stesso Presidente del Consiglio del giorno successivo: il quale ha previsto che, «allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19, le misure di cui all’art. 1 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 8 marzo 2020 sono estese all’intero territorio nazionale». Il testo in vigore, dopo la modifica intervenuta, è pertanto: «Allo scopo di contrastare e contenere il diffondersi del virus COVID-19 sull’intero territorio nazionale, sono adottate le seguenti misure: a) evitare ogni spostamento delle persone fisiche in entrata e in uscita dal territorio nazionale, nonché all’interno del medesimo territorio, salvo che per gli spostamenti motivati da comprovate esigenze lavorative o situazioni di necessità ovvero spostamenti per motivi di salute. E’ consentito il rientro presso il proprio domicilio, abitazione o residenza». Si tratta di una formulazione perlomeno infelice, per non dire semplicemente assurda, in quanto “territorio nazionale” è un’espressione che, giuridicamente, può essere intesa unicamente per indicare lo «spazio nell’ambito del quale si esercita la potestà d’imperio dello Stato», e che «comprende, oltre la terraferma, anche il mare territoriale». Se esistesse davvero un divieto di spostarsi all’interno del territorio nazionale ciò non significherebbe affatto “divieto di lasciare la propria abitazione”, ma, un po’ più radicalmente, divieto di muoversi dal punto nello spazio in cui ci si trovava nel momento in cui la norma è entrata in vigore, se compreso entro i confini dello Stato. Si dovrebbe allora dire: dal momento che la mia camera da letto è territorio nazionale, e lo è anche la cucina, se mi spostassi dalla prima alla seconda violerei il divieto. Il che è assurdo. Ma che “territorio nazionale” possa significare “abitazione” o “domicilio” è una conclusione che non sembrerebbe consentita da nessuno dei criteri ermeneutici comunemente accettati e applicati in giurisprudenza e dottrina.

4 M. FOUCAULT, La sicurezza e lo Stato (1977), trad. it. in Id., La strategia dell’accerchiamento. Conversazioni e interventi 1975-1984, a cura di S. Vaccaro, Duepunti, 2009, p. 71.