Che cosa si aspettava il direttore generale della Rai, Luigi Gubitosi, quando ha esposto a Denise Pardo, che lo intervistava per l’Espresso (n. 30/2014, in edicola il 24 luglio), le linee guida del “Piano di riforma dell’informazione televisiva” illustrato al CdA del servizio pubblico? Forse, facendo conoscere all’opinione pubblica i cambiamenti da lui proposti, pensava di suscitare l’interesse e il confronto pubblico su aspetti di merito della gestione del servizio pubblico che fra metà maggio e i primi di giugno aveva visto divampare i fuochi della polemica mediatica e i lampi della guerra sociale a fronte della scelta del governo di chiedere anche alla Rai di contribuire alla colletta nazionale in corso. In effetti l’idea di aggregare le distinte strutture produttive dei telegiornali per razionalizzare l’uso delle relative risorse, mantenendo i marchi e le responsabilità editoriali, presenta diversi motivi di interesse in un contesto nel quale settori non marginali delle pubbliche istituzioni danno prova, o sono accusati – dall’opinione, dalle “masse”, dai media e, con Renzi, dalla politica – di immobilismo e di spreco del pubblico denaro.
Venire a sapere che un assetto organizzativo almeno trentennale, forse il cuore di una realtà d’impresa e professionale centrale per i rapporti che vi si sono insediati fra la politica (i partiti) e alcune funzioni vitali della società civile, da decenni indicata a emblema di appropriazione indebita e di scarsa credibilità e autorevolezza, potrebbe diventare un cantiere nel quale, per lo meno, recuperare risorse sembrava davvero pane per i denti di un ambiente mediale e di un’opinione così sensibili a tutti questi ingredienti (mezzo miliardo di euro l’anno fra costi interni ed esterni, un organico di 1.731 giornalisti e oltre tremila dipendenti, per circa il 20-25% delle ore trasmesse). Tanto più che non di un colpo di testa qui si tratta, non di un tweet dal bagno di casa, né di un “fuori onda” carpito da microfoni di studio “rimasti aperti”, ma di un business plan confortato dal parere dell’advisor McKinsey: un piano aziendale volto a liberare da subito, e quanto meno dal prossimo anno, risorse finora così ipotecate. Un fatto nuovo, che se realizzato offrirebbe l’opportunità di declinare al presente e all’immediato futuro proposte e iniziative di creativi e produttori dell’audiovisivo, come pure lo scouting di nuovi autori e produttori di beni e servizi dell’economia digitale, da decenni affidate ai modi del desiderio e della rivendicazione. Uno spazio vitale per riavviare il processo di sviluppo finora bloccato dal duopolio del broadcasting televisivo e dalla gestione delle risorse pubbliche e private da esso consacrata. Quanto basterebbe a far di questi mesi – fino almeno alla Mostra del Cinema di Venezia – non l’ennesima estate della frustrazione e del pianto, ma un tempo di speranza e di apertura all’avvenire anche oltre i confini, ancora inesplorati in Italia, di un settore altrove in grande espansione e crescita economica e soprattutto produttiva.
E invece una anche rapida rassegna dell’informazione a stampa, radiotelevisiva e online, delle ultime due settimane deve aver reso chiaro al dottor Gubitosi quale rilevanza hanno nell’agenda dei nostri media i problemi di cui lui si occupa. È possibile che non essendo in gioco “nomine”, né novità circa le zone di “spettanza” o di “riferimento” di questo o quel partito, non siano scattati lungo le linee di comando editoriali i riflessi pavloviani che muovono da decenni la professione e l’industria giornalistica italiana. Nella gerarchia delle fonti, e con notizie su temi aziendali come quelli, il direttore generale della Rai non vale una qualsiasi scartina della nostra briscola politica. Di certo nella contingenza, per lo spazio dato alle cronache dal Senato e dalla Striscia di Gaza: ma forse anche oltre, visto che pure un “newspaper online” specializzato e dedicato ai problemi dell’industria mediale come Key4biz.com ha ignorato l’intervista.
In questo deserto informativo davvero sorprendente ha fatto eccezione la nota di Stefano Balassone, il quale – pensando, evidentemente, che fra le parole e le cose ci sono delle relazioni e che ai ruoli corrispondano compiti e responsabilità, e sapendo di che si tratta per l’esperienza maturata in Rai – ha indicato subito (Europa, 24 luglio) nel prospettato accorpamento di strutture e mezzi “un passaggio obbligato e temerario” per l’impatto che esso potrà avere (avrà, se realizzato) sul giornalismo italiano. E questo, egli sottolinea, non tanto o solo in termini di occupazione, ma “perché ne vanno di mezzo ruoli, carriere e, non da ultimo, i contributi che la Rai, grazie al canone, assicura all’Ente di previdenza dei giornalisti, l’Ente che deve garantire sanità e pensione all’intera categoria e che nell’assetto Rai vede uno dei pochi punti fermi nel mezzo di una travolgente crisi dell’editoria a stampa”. Molta carne, in effetti, potrebbe finire al fuoco, e altri aspetti ancora che sono stati di certo affrontati negli incontri che il dr. Gubitosi ha avuto con le rappresentanze dei sindacati interni, ma su cui nulla è trapelato: qualcosa di insolito in questo ambiente. Mentre la Commissione Parlamentare di Vigilanza non ha mutato il previsto calendario di ferie e ha rimesso alla ripresa autunnale l’audizione del direttore generale della Rai sull’argomento.
Non mancherà quindi il tempo, e chi vorrà potrà seguire comodamente gli sviluppi di una vicenda senza precedenti, che ha offerto per ora un esempio non tanto frequente di come si “cucina” – diciamo così, per astensione, per sottrazione – una notizia di un qualche interesse per le scuole di giornalismo. Un inizio “in diminuendo” per una partitura che, se sviluppata, ci proporrà senz’altro altri toni e ritmi.