Tutti i commentatori hanno sostenuto che l’elezione di Donald Trump alla Presidenza degli Stati Uniti segna per l’Unione europea un punto di non ritorno.
In effetti è difficile dissentire, se solo consideriamo il disprezzo che Trump aveva manifestato per la NATO e per l’Europa nella sua precedente Presidenza, e che ora troverà modo di manifestarsi a maggior ragione, visto che egli dispone oggi di un Congresso e di una Corte Suprema allineati sulle posizioni politiche e proni ai voleri presidenziali.
Le conseguenze si vedranno non solo nel campo, già visto in passato, delle guerre commerciali, dove l’UE può ancora vendere cara la pelle, o delle spese militari, col ritorno alla richiesta di una spesa minima del 2% per ogni Stato membro in vista di un più equo finanziamento della NATO. Quelle sono vecchie partite di Trump, che certamente riprenderà ma con effetti che sono tutti da vedere.
Una partita nuova sembra invece quella della forte spinta allo smantellamento del settore pubblico, inteso come amministrazione e soprattutto come servizi sociali, in vista di uno spostamento drastico verso lo Stato minimo. Per la verità in campagna elettorale questa posizione è stata sostenuta molto più da Elon Musk che da Trump, e si capisce perché. Musk è un campione assoluto del liberismo in quanto imprenditore anche creativo nell’high-tech e in vari altri campi. Trump non ha nulla di creativo, non teorizza nulla al di fuori del suo ego personale. L’idea di fare a meno dell’amministrazione federale è di Musk: ne capiremo di più solo quando la strana coppia si sarà insediata alla Casa Bianca.
Eppure sono bastati pochi giorni per far dire a Sergio Fabbrini e a Ernesto Galli Della Loggia che la vittoria di Trump segna la fine del New Deal e dello Stato sociale così come lo abbiamo conosciuto, e che la sinistra americana ed europea si dovrà adeguare. Qui, detto fra parentesi, c’è qualcosa che non torna. Ma come, a smantellare lo Stato sociale non ci avevano già pensato Ronald Reagan e Margaret Thatcher quaranta anni fa? E da allora non si è forse sempre parlato di un’egemonia neoliberale che avrebbe già sconfitto la sinistra? Cerchiamo piuttosto di capire meglio in che cosa lo Stato minimo di Musk si differenzia dal neoliberismo già sperimentato, sempre se avrà consenso per affermarsi dentro e fuori dalla nuova amministrazione.
Ben più drammatico e impellente per l’Europa è il capitolo della politica estera e dell’Ucraina in modo speciale. E’ vero, anche qui, che la posizione di Trump è ancora da verificare, specie nel rapporto con la Russia. Ma non al punto da non lasciar capire che l’Unione dovrà vedersela da sola con Putin.
La teoria delle catastrofi ci dice che le grandi organizzazioni si riformano solo all’ultimo momento, che non è il momento in cui una dinamica autodistruttiva può far temere in astratto il pericolo di un collasso, ma è quello in cui la catastrofe incombe nell’immediato. L’inerzia dell’Unione europea nel riformare se stessa autorizza qualche accostamento a un’ipotesi del genere. E’ interesse di Putin, ancor più che di Trump, di trattare con i singoli Stati europei, perché molto più facili da sottomettere. Ma per evitare un rischio simile, gli Stati membri dell’Unione dovrebbero lasciare quote di potere decisionale in mano all’Unione stessa, che è esattamente quanto hanno finora evitato di fare anche quando tutto lasciava pensare il contrario. Forse il momento ora è arrivato, ma potrebbe essere troppo tardi.
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