Scrive Giuliano Ferrara (Il Foglio, 5 dicembre 2024): “Fino a ieri tutti [……] abbiamo pensato che ogni sistema di governo era migliore del nostro, causa di frammentazione e instabilità e delegittimazione. […] Ora tutti studiano la stabilità italiana, un sistema parlamentare capace di ricorrere se necessario alla risorsa tecnica dei governi del presidente, nelle emergenze, congegni arbitrali capaci di autorevolezza e di amministrazione intelligente delle transizioni. [……] Della politologia europea applicata all’Italia forse bisogna rivedere parecchio, quasi tutto. Lo dicono ormai in molti, e non solo da noi, guardando a problemi spinosi come la Brexit e le convulsioni di Downing Street, il fallimento dell’ipotesi fantastica di ristrutturazione macroniana in Europa, con il taglio delle ali che è diventato il trionfo delle ali estreme, guardando alla dissipazione del potere dopo i sedici anni del cancellierato Merkel, e dopo la sua controversa eredità diesel sperperata in coalizioni green, elettriche, che si fermano al semaforo alla prima occasione. […….] Ci è successo di tutto, ma non siamo stati sopraffatti dalla governabilità minima, dalle stragi, dalla guerriglia, dagli apparati della Guerra fredda, dalla caduta del Muro di Berlino, dal debito, dai partiti, dai finanziamenti illegali, dalla scomparsa dei partiti, dal populismo, dal secessionismo, dal pansindacalismo”.
Come si spiega questo rovesciamento? Non è che “frammentazione e instabilità e delegittimazione” siano improvvisamente divenute buone cose. Continuano a essere dei problemi, come in tutti i lunghi anni in cui li abbiamo considerati tali. Quel che abbiamo sottovalutato è che mentre quasi tutti i partiti auspicavano per questa ragione riforme istituzionali per superare o almeno limitare l’instabilità dei governi in Parlamento, bisognava affrontarla concretamente nell’immediato, in presenza di un sistema politico che dalla fine della prima legislatura in poi (1953) non ha mai potuto fare a meno di governi di coalizione altamente conflittuali. Sia nella prima fase della Repubblica, con un sistema bloccato nella possibilità di alternanza, sia nella seconda, dove il compimento dell’alternanza fra due schieramenti non ha impedito affatto una forte conflittualità all’interno di ciascuno, per non parlare della XVIII legislatura (2018-2022), in cui il sistema era addirittura a tre poli.
Spesso bisognava trovare una via di uscita a situazioni che rischiavano di sfuggire di mano, col rischio di governi di brevissima durata o peggio di scioglimenti a ripetizione, senza contare lo spettro, che per fortuna non si è mai realizzato (ma ci siamo andati molto vicino), di rinnovi del Parlamento tali da produrre opposte maggioranze nell’una e nell’altra Camera. Le soluzioni sono state per questo inevitabilmente pragmatiche, ispirate al solo obiettivo di dare vita a maggioranze parlamentari destinate a durare più a lungo possibile. Ecco perché, dal 1995 in poi, la “fisarmonica” dei Presidenti della Repubblica non ha escluso nemmeno incarichi a personalità in grado di aggregare maggioranze per il fatto di non potersi identificare con nessuno dei partiti della possibile coalizione, e forti solo del loro prestigio tecnico e professionale. Ecco perché il sistema è andato avanti con una flessibilità ormai molto sperimentata.
Tutto questo non toglie nulla all’affanno istituzionale e alla diffidenza reciproca all’interno delle maggioranze che sta dietro all’uso indiscriminato dei decreti legge come al monocameralismo di fatto, in base al quale le leggi di bilancio vengono esaminate e discusse solo da una delle due Camere. Sono guai, attenzione, che non ci vengono risparmiati nemmeno quando, come in questa legislatura, i rapporti di forza interni pendono decisamente dalla parte del partito di maggioranza relativa. Però quanto detto prima spiega pure perché la flessibilità non è da noi un’arte che bisogna ancora apprendere, come sta invece capitando a molti Stati europei ai quali abbiamo guardato per decenni con invidia.
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