La sentenza della Corte costituzionale n. 110 del 2015 getta le basi per una pronuncia sulla nuova legge elettorale per la Camera (n. 52/2015), secondo il modello esperito per la prima volta con successo da Felice Besostri nei confronti del Porcellum. Nel momento in cui la Corte ha dichiarato inammissibile l’azione di accertamento promossa contro la legge elettorale europea (soglia del 4%), infatti, è stato spiegato che in quel caso il sistema di tutela giurisdizionale contro gli atti elettorali consente il ricorso ad un giudice terzo: per questo, l’anticipazione di tutela – cioè dell’azione di accertamento svolta in astratto, ad elezioni ancora non convocate – non si giustificherebbe, potendo sempre il giudice (adito sulla legittimità del decreto di convocazione dei comizi, ovvero delle operazioni di proclamazione degli eletti) sollevare in via incidentale la questione di legittimità costituzionale.

Non è così, invece, per le elezioni parlamentari: per la prima volta in modo esplicito, una Corte – la cui mission sarebbe quella di difendere la Costituzione – riconosce che l’articolo 66 impedisce la controllabilità delle leggi elettorali. Prendendo posizione tra diverse tesi, che in passato contrapposero le Giunte delle due Camere, la sentenza riconosce un ostacolo – insormontabile per il giudizio di costituzionalità – nell’unica autodichia prevista in Costituzione (quella del giudizio sui titoli di ammissione dei parlamentari). Questa giustifica la decisione di ammettere il primo ricorso Besostri e questo, presumibilmente, ne renderebbe ammissibile un secondo.

Come reagirebbe chi volesse blindare l’Italicum? La più ovvia conseguenza sarebbe utilizzare il carro ancora in corsa – quello della revisione costituzionale – per modificare l’articolo 66 della Costituzione. Non si tratterebbe di uno sforzo giuridicamente insostenibile, in quanto nel merito Enzo Cheli ci ha già spiegato che la navette dei disegni di legge costituzionali va intesa in senso più flessibile.

Come ha ricordato Pio Marconi, “in un momento cruciale della recente storia repubblicana per giungere a una modifica della Costituzione si scelse di disapplicare il regolamento del 1971. Era il 1993 e si dovevano superare regole di immunità parlamentare considerate inattuali per l’irruzione di eventi traumatici. Si era in presenza di un contesto particolare e di un’emergenza. Ma anche oggi siamo in presenza di un’emergenza” (Avantionline, 20 aprile 2015).

Quanto al merito, già la relazione dei dieci saggi al Capo dello Stato, nella primavera 2013, proponeva di modificare l’articolo 66 della Costituzione in modo da attribuire ”ad un giudice indipendente e imparziale” (togliendolo al Parlamento) la decisione su legittimità dell’elezione, ineleggibilità e incompatibilità. È una proposta che corrisponde ad una serie assai vasta di iniziative parlamentari, finora mai esaminate: tra le tante quella del senatore Manzione n. 1869 della XV legislatura; nella XVI, quelle n. 1971 del senatore Sanna, n. 1179 del senatore Zanda, n. 893 del senatore D’Alia, n. 862 del deputato Pisicchio e n. 444 del deputato Zaccaria, oltre all’articolo 3 del disegno di legge n. 2818 del senatore Follini; nella presente legislatura, il disegno di legge n. 878 a firme Buemi Longo Nencini, e che proprio in riferimento al ddl Boschi avanzò senza successo in questa legislatura il senatore Buemi (emendamento 4.16 all’Atto Senato n. 1429).

A tacer l’altro, anche la sola convenienza dovrebbe suggerire al governo di tornare sui suoi passi, rispetto alla disinvolta chiusura di prima lettura: per salvare l’Italicum dal ricorso che aleggia sul suo capo, basterebbe accogliere un emendamento all’articolo 66 della Costituzione che sopprimesse l’autodichia elettorale, la quale è un unicum oramai sconosciuto in altri ordinamenti.